S toria culturale della canzone italiana, da poco pubblicato da Il Saggiatore, è un percorso analitico di quasi ottocento pagine che parte da solide basi teoriche aggirando l’equivoco diffuso che vede la musica pop, quella italiana in particolare, come semplice innesco per amarcord e rivisitazioni della storia del costume nazionale, e che, muovendosi dall’ambito strettamente musicale, smonta e contestualizza sovrastrutture ideologiche, pregiudizi, errori di prospettiva, piccole rivoluzioni e ciclico conservatorismo. Abbiamo discusso alcuni degli innumerevoli spunti offerti dal libro con l’autore, Jacopo Tomatis, redattore de Il Giornale Della Musica e docente di popular music all’Università di Torino.
Nell’introduzione scrivi che una forte spinta a scrivere questo libro te l’ha data la volontà di colmare un vuoto: esistono molte “storie della canzone” in Italia, alcune anche interessanti e approfondite, eppure quasi nessuna che si addentri nell’argomento con rigore scientifico. Molto spesso ci si concentra sui testi, lasciando la musica ai margini. Si parla di storie del costume, in cui la musica è un pretesto per raccontare il “come eravamo”. Il tuo invece è un percorso inverso.
Esatto. L’idea è che una storia della canzone debba parlare soprattutto del suo oggetto, e non ridurlo a indizio per descrivere qualcos’altro, o a colonna sonora di un’epoca. Allo stesso tempo credo sia poco interessante fare una storia della canzone elencando opere e nomi, in una specie di sfoggio di erudizione: in fondo, per quello c’è Wikipedia… Al contrario, si può studiare la canzone partendo dal ruolo che ha avuto nella cultura, facendo attenzione a come le persone l’hanno ascoltata, suonata, a come ne hanno parlato e a che valore le hanno attribuito. Non vorrei che si pensasse che sono il primo: non è che manchino gli studiosi seri che si sono occupati di canzone, su tutti Franco Fabbri, il mio maestro, che non a caso è stato uno dei primi a portare questi studi in Italia. Tuttavia, sì: la canzone ha avuto un ruolo subordinato rispetto ad altre forme espressive – è uno dei temi del libro – al punto che non si è mai sentito il bisogno di farne una storia di ampio respiro, non dico “scientifica” ma almeno con le note a piè di pagina… In quale altra disciplina una licenza del genere sarebbe ammessa?
La tesi di fondo mi sembra si possa riassumere in questi termini: la canzone italiana, intesa come tradizione, come mito fondante della nostra cultura, “la bella canzone di una volta” insomma, in realtà non esiste, nel senso che esiste solo in quanto costruzione ideologica. E non esiste la canzone italiana, ma esistono le canzoni italiane: modelli diversi nel tempo, a volte sovrapponibili, mai puri, inseriti in un contesto più ampio, sempre dialoganti, volenti o nolenti, con il mondo esterno.
Molte delle “realtà” attraverso cui leggiamo il mondo e regoliamo il nostro comportamento e i valori che ci guidano sono delle costruzioni ideologiche: su tutte, le nazioni. Anche la canzone funziona così, e non dovrebbero sfuggire – anche in tempi molto recenti, se pensi alla proposta della Lega sulle quote radio “tricolori” o alle uscite di Mogol – lo stretto legame tra canzone italiana e italianità. Ed è interessante notare come sia qualcosa che ha a che vedere tanto con l’estetica – l’idea di valutare una canzone rapportandola a un passato più puro e meno contaminato, che è sempre migliore – quanto con lo spirito nazionale, con il nazionalismo. Come studiosi è interessante provare a smontare questi meccanismi – che sono appunto dei costrutti, non sono qualcosa di naturale – per vedere come si siano sviluppati nel tempo.
C’è poi un mito che smonti, o meglio che analizzi in tutte le sue componenti, quello dell’autenticità, un filo rosso che attraversa i decenni, e che riemerge ciclicamente. L’autenticità è un orizzonte ideale a cui tendere, ma anche una strategia promozionale dell’industria discografica. Ed è anche questa una costruzione ideologica…
Sì, eppure non riusciamo a farne a meno: è uno degli snodi attraverso cui passa il valore estetico in musica. Per qualche ragione, il fatto che una canzone, ma anche una sinfonia, o un’improvvisazione, siano percepite come “vere”, come espressione diretta dell’io dell’autore, ce le fa pensare come “migliori”. Questo è particolarmente vero in Italia, dove la figura del cantautore ha sempre avuto un primato estetico e ideologico… Ma naturalmente non è scritto da nessuna parte che un brano debba essere più bello perché l’ha scritto Guccini, che se lo canta pure, mentre un altro ha quattro autori diversi quindi è frutto delle macchinazioni dell’industria. Occorre riflettere su come valutiamo la musica, attraverso quali parametri, e questa è una riflessione che riguarda anche noi che ne scriviamo per lavoro, credo.
Il tuo libro è anche un po’ la storia della costante incapacità, da parte di una tradizione culturale di sinistra in Italia, di rapportarsi in maniera efficace, senza pregiudizi, senza provare ribrezzo, alla cultura di massa, pop. Un fenomeno tutto italiano, quantomeno nel suo carattere estremo. Una specie di tara ereditaria che sembra viaggiare in parallelo con la storia politica di questo paese. Alimentata da letture (Adorno in primo luogo), che però, ci tieni a specificarlo, non fanno altro che confermare pregiudizi già esistenti. Non so quanto fosse parte delle tue intenzioni iniziali offrire una chiave di lettura di questo tipo, ma emerge in maniera piuttosto netta. A un certo punto, a dire il vero, c’è anche qualche tentativo di superare questo blocco, di “sporcarsi le mani”, seppure inevitabilmente destinato, per varie ragioni, al fallimento, è il caso dei Cantacronache…
In realtà è una delle chiavi interpretative a cui tengo di più. Quella mentalità dell’intelligentsia italiana, che portava uno come Moravia a bollare come “sotto-Italia” tutta quella fetta di pubblico che ascoltava Sanremo e che lui semplicemente non riusciva a capire, o non stava ad ascoltare – quando, come comunista, avrebbe dovuto essere il suo core business, per così dire – è in realtà ancora ben viva. È alla base del fatto che non ci sono stati, fino a tempi recenti, libri “seri” sulla canzone, e che l’accademia, salvo nelle sue frange più progressiste, continua a guardare con sospetto chi se ne occupa. È anche alla base della crisi in cui versa la cultura di sinistra, e di quella sensazione che talvolta si ha di essere una classe intellettuale separata dal resto del mondo, nella sua bolla di ascolti e di letture. La cultura italiana di sinistra – salvo rari casi di intellettuali: Umberto Eco nel 1964, per esempio – non ha saputo ascoltare il popolo, e la sua musica. Ora, non si tratta di dire “ci piace tutto”, ma di sapersi mettere nei panni, e nelle orecchie, degli altri, come forma (anche) di disciplina democratica, senza pretendere per forza che le proprie idee (o i propri ascolti) siano “migliori”, e che tutti gli altri siano una massa di cavernicoli da educare portando loro la famigerata bellezza.
Altro tema molto italiano: l’incapacità di metabolizzare il passato e superarlo. Nel libro si parla di “trentennio”, in riferimento al passaggio fluido, senza traumi, dell’apparato mediatico statale attraverso fascismo, guerra e dopoguerra. In fondo il festival di Sanremo, l’istituzione nazionalpopolare per antonomasia dell’Italia del dopoguerra, è l’esito ultimo delle politiche culturali dei Minculpop fascista. Ma l’aspetto più paradossale di tutta la vicenda è che, in fondo, il regime fascista non era mai stato nazionalista e autarchico fino in fondo. Le musiche che “inventano” gli italiani sono, fin dall’inizio, imbastardite e contaminate, anche se molto spesso gli elementi, quelli ritmici ad esempio, vengono addomesticati, edulcorati, depotenziati.
La stessa idea di “canzone italiana” così come la intendiamo non esiste prima degli anni del Fascismo, che sono anche gli anni in cui si ha per la prima volta una radio nazionale, e lo sviluppo del cinema sonoro. Poi, il Fascismo ne fa una questione di autarchia e di propaganda nazionalista, ma spesso con grande pragmatismo. C’è una nota del Ministro della Cultura Popolare, Alessandro Pavolini, in cui si dice, in sostanza: d’accordo la canzone italiana, ma “il pubblico non è chiuso in una stanza ed obbligato ad ascoltare quello che noi trasmettiamo”. Infatti durante il fascismo i ritmi latinoamericani, o il jazz, circolano largamente. La Rai democristiana, gestita dagli stessi funzionari che avevano in mano l’Eiar, è invece spesso meno pragmatica: e proprio da lì nasce Sanremo, con l’obiettivo di rilanciare una “bella canzone di una volta” che non era mai esistita.
Un altro elemento ricorrente è la nostalgia, che non emerge solamente nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo e nel nuovo millennio, diciamo nell’era della retromania che sembra caratterizzare la cultura occidentale nel suo complesso, ma è uno degli ingredienti costitutivi della canzone italiana fin dagli anni Cinquanta, gli anni in cui, appunto, se ne definisce il canone. La canzone italiana nasce con lo sguardo rivolto al passato, al ricordo di un paradiso perduto che come abbiamo detto è una costruzione a posteriori. Questa natura passatista e se vogliamo un po’ reazionaria ha delle inevitabili ripercussioni sui decenni a seguire…
È un tema affascinante, che non riguarda solo la canzone italiana ma che sembra costitutivo proprio di tutta la popular music: la canzone americana dell’Ottocento è attraversata dalla nostalgia, per esempio, e così la coeva canzone napoletana… È un sentimento che è ben radicato nel gusto popolare. Poi sì, si crea a un certo punto un ciclo della nostalgia che fa fruire nostalgicamente la musica di ieri, attribuendole dei caratteri ampiamente idealizzati… è interessante che in tempi recenti questo sguardo verso il passato sia diventato la prassi, fino a rendere difficile nell’arte l’immaginazione del futuro, la spinta verso il nuovo, come se tutto fosse già stato detto e potesse esistere solo come parodia, rifacimento. È un’osservazione che faceva Mark Fisher. Che si chiedeva pure: “Senza il nuovo, quanto può durare una cultura?”
Ti soffermi a lungo, inevitabilmente, sul concetto di cantautore, un termine che inizialmente ha connotazioni piuttosto neutre, tecniche, e che col tempo assume un significato sempre più politico, fino ad arrivare a vere e proprie scomuniche all’indirizzo di chi non aderisce a quello che definirei un “protocollo della militanza” (il celebre processo a De Gregori del 1976). Gli anni Settanta sono un periodo caldo in tutta Europa, ma solo in Italia i cantautori egemonizzano il discorso, dopo una breve stagione, quella dell’elaborazione di un pop italiano che da un lato si costruisce assimilando le spinte più avanzate della musica angloamericana e allo stesso tempo è caratterizzato da un genuino tentativo di farsi fenomeno comunitario, generazionale, di massa, che intende mettere in pratica una rivoluzione sociale e di costume. Ecco, mi chiedo, come mai ad un certo punto i cantautori vincono sugli alfieri del progressive rock, dei grandi raduni giovanili, della musica intesa come rito collettivo?
In realtà, l’aspetto più curioso è che il termine “cantautore” già nasce con delle connotazioni di autenticità: il cantautore è l’autore che canta le sue canzoni, ma che già devono essere, siamo nel 1960, “canzoni intelligenti”. La figura poi si evolve, ma nella sua persistenza dopo i Settanta e dopo il Riflusso io credo c’entri proprio quel primato estetico guadagnato dai cantautori in quanto “autentici”, che in qualche modo li svincola da principio modernista del “nuovo”… Il progressive rock si esaurisce – producendo grandissima musica – anche perché smette di poter essere “nuovo”. Replica se stesso, e la “nuova novità” arriva dal punk, che, guarda caso, pure è un genere fondato sull’idea di autenticità. I cantautori, da megafono del movimento, ricominciano invece a parlare per sé stessi: in sostanza, è quello che rivendica Guccini nel 1976 quando compone L’avvelenata.
Il suicidio di Tenco è ovviamente un momento cruciale nel tuo racconto. Lo si è spesso letto come una specie di rivendicazione di autenticità, di purezza, in risposta all’Italia nazionalpopolare e becera, quella delle canzonette rassicuranti e del peggior conservatorismo, ma nella tua analisi viene fuori un quadro molto più complesso. Il contesto in cui maturano gli eventi in quel Sanremo del 1967 è quello di uno scontro tra la musica giovanile emergente, i primi complessi rock ad esempio, e quella degli adulti, ma Tenco in quel momento sta cercando di realizzare un discorso di sintesi, e non di opposizione, tra il cantautorato, la musica d’autore “per pochi”, e la popular music in senso più ampio, tra la canzone impegnata che si vede al di fuori del sistema e la musica delle riviste giovanili, il beat, che tutto sommato vorrebbe attuare un colpo di stato contro il potere costituito della musica italiana, sostituirlo. Insomma Tenco vuole sporcarsi le mani con le masse, non presidiare il fortino dell’elitarismo. Un assalto che finirà malissimo nel suo complesso, mentre per certi versi lo stesso Tenco diventerà un santino della musica d’autore, quasi una figura cristologica, morta per i nostri peccati di fan della musica commerciale, in grado di redimerci in virtù di quel sacrificio…
Ci sono pochi dubbi che la morte di Tenco sia una delle sliding doors della storia della canzone italiana. Shel Shapiro, per esempio, ha raccontato che nel 1967 c’era il progetto di fare un album insieme, Tenco e i Rokes: che cosa ne sarebbe uscito? Mi piace pensare che la storia sarebbe andata in modo diverso… Tenco sicuramente portava avanti un progetto politico, per quanto confuso e idiosincratico, e credo sicuramente che alcune interpretazioni post mortem abbiano magnificato il suo ruolo di cantautore per pochi, quando la sua ambizione era essere famoso, parlare alle masse. Credo anche che la sua morte alla fine abbia distanziato molto il filone dei cantautori da quello del beat e del rock: Tenco arriva Sanremo nel 1967 come avanguardia del movimento beat, della musica dei giovani, insieme a Lucio Dalla, i Rokes, i Giganti… Dopo il suicidio si è teso a separare molto i due filoni, quello “serio” e quello “disimpegnato”, ma nel 1966 in realtà erano più prossimi di quanto non pensiamo.
Altro momento chiave, la rivoluzionaria vittoria di Domenico Modugno a Sanremo del 1958. Quello che cerchi dimostrare è che in realtà il passaggio è molto più fluido di quanto appaia, ci sono elementi di continuità, pure in un contesto di grandi cambiamenti. Anche perché alla fine Sanremo ha la grande capacità di assorbire e metabolizzare le deviazioni, c’è sempre una spinta fortissima alla normalizzazione, all’attenuazione dei conflitti.
Certo, Sanremo ha sempre incorporato – e dunque normalizzato – quello che girava nella musica: ci sono stati i cantautori nel 1961, i beat nel 1966, i rocker psichedelici nei primi Settanta, il rap nei Novanta, gli indie nel 2018, la trap nel 2019… Modugno rappresenta un momento di rottura perché per la prima volta un autore porta un suo brano a Sanremo, ed è la prima volta che una canzone di Sanremo viene recepita in quel modo: in realtà, Nel blu dipinto di blu è cantata da Modugno e da Johnny Dorelli, ma del secondo nessuno si ricorda, perché la canzone è evidentemente “di Modugno”. Di nuovo, è più o meno qui che comincia a rafforzarsi, a livello di cultura di massa in Italia, l’idea del primato del musicista “autentico”, che compone le sue canzoni…
Ancora sui cantautori: ci spieghi brevemente come mai il cantautore è sostanzialmente maschio, e le cantautrici sono tradizionalmente una netta minoranza?
C’entra, più in generale, la struttura dell’industria discografica, che è sempre stata, ed è, controllata da uomini. Ma c’entra anche, più nello specifico, una certa idea dell’artista autentico che è saldamente collegata con uno stereotipo maschile, almeno da quando esiste, ovvero dall’Ottocento, momento in cui nasce anche l’idea di autore così come la intendiamo, anche grazie alla formalizzazione dell’istituto del diritto d’autore. Questo elemento impatta fortemente sulle estetiche della musica, e sulle strategie della discografia. De André è parte centrale del canone della canzone d’autore, è un poeta, un artista creativo anche se ha firmato da solo appena poche canzoni del suo ricco repertorio. Mina non lo è, anche se ha cantato molte canzoni d’autore. Il suo essere artista si basa su altri parametri: sulla bellezza della voce, sul virtuosismo, sull’interpretazione… Le cantautrici che debuttano insieme ai primi cantautori, per esempio Maria Monti, scompaiono quasi subito dai radar, e perlopiù diventano interpreti. È una forma di discriminazione sottile, molto radicata fino a sembrarci naturale, e difficile da ridurre a una formula.
Con il Riflusso e gli anni Ottanta sembra che la canzone pop italiana entri in un loop da cui non è più possibile uscire, insomma, inizia a saltare la puntina e ci si trova sempre sullo stesso solco. I cantautori, ad esempio Paolo Conte e Franco Battiato, sono postmoderni, più o meno ironici, smontano il mito dell’autenticità, e si diffonde il pastiche, magari contaminato in chiave futuristica (Vacanze romane dei Matia Bazar). Ovviamente ci sono fenomeni importanti, come il nuovo rock italiano che si sviluppa dopo l’arrivo del punk, c’è la stagione delle posse, c’è quella del rock alternativo anni Novanta, ma nulla che riesca a incidere profondamente sull’immaginario collettivo, a influenzare, diciamo, l’italiano che guarda Sanremo o ascolta le radio commerciali. C’è motivo di pensare che si possa uscire da questo loop, che peraltro, come abbiamo già detto, riguarda tutta la cultura occidentale?
E si torna su Fisher! Nel caso italiano, poi, c’è da dire che le conseguenze profonde di decenni di duopolio Rai-Fininvest sono qualcosa di cui forse solo ora cominciamo a intuire le dimensioni. Io credo che per rompere il loop un buon inizio sarebbe quello di rinunciare ai vecchi modi di interpretare la musica. Guarda la trap, per esempio: ci sono delle produzioni, delle idee che sono veramente nuove, innovative. Eppure, il fenomeno è perlopiù letto ora come ennesima musica che corrompe i giovani, oppure, nei casi migliori, attraverso la lente della canzone d’autore. “I rapper sono i nuovi cantautori” è una delle fasi più abusate dalla critica, adesso pure alcuni trapper, penso a Ghali, vengono interpretati così… Forse allora il problema non è la musica, ma siamo noi…
Domanda che in qualche modo si riallaccia alla precedente. Sei stato al festival di Sanremo di quest’anno, un festival in cui sono arrivati la trap (anche se in versione edulcorata, adattata al contesto), il soul contaminato di Mahmood, e altri piccoli segnali di apparente discontinuità. Segni di un possibile cambio di paradigma, come ha ipotizzato qualcuno, oppure come sempre Sanremo neutralizzerà qualsiasi spinta centrifuga? E aggiungo: ma in fondo, Sanremo è ancora così importante? E la canzone italiana ha ancora senso di esistere, come categoria?
La storia ci dice che Sanremo ha sempre incorporato varie musiche, come si diceva. Ed è ancora dannatamente importante, ma in un modo diverso dal passato: nella morte della discografia, un passaggio a Sanremo, in quanto spettacolo televisivo, è un investimento sicuro, e lo sarà fino a quando non si ribalterà l’attuale regime di gestione dei diritti d’autore, magari trovando correttivi che paghino degnamente lo streaming su Internet anche sotto soglie raggiungibili solo dai musicisti top, ammesso che sia possibile. Poi, sulla categoria di “canzone italiana”: le categorie hanno senso di esistere fintanto che le persone le utilizzano, ci piaccia o meno. In epoca di sovranismo mi pare difficile liberarsene, ancora per un po’…