L’ architettura non è più lo strumento principale per produrre la città. In tempi in cui la trasformazione delle strutture esistenti, ereditati dalla città moderna, è più rilevante dei processi di espansione urbana, lo spazio interno gioca un ruolo inedito: è il vero protagonista del disegno dell’habitat urbano.
La città è diventata un territorio continuo senza vie di uscita: un organismo in uno stato di mutazione permanente che mette in discussione il ruolo dell’architettura. Affrontiamo l’impossibilità di reinventare un ordine formale della città.
Le periferie sono al centro delle nostre attenzioni nel disperato tentativo di dare senso a un evidente fallimento, politico e architettonico, perpetrato a cavallo degli anni Sessanta e Settanta: Corviale e Tor Sapienza a Roma, La Falchera a Torino, Scampia a Napoli o lo Zen di Palermo, sono solo alcuni degli innumerevoli frammenti di città, costruiti con eroico slancio pubblico, che a distanza di quarant’anni possiamo oggi osservare criticamente per comprenderne gli errori. Le idee per intervenire sono tante, i soldi pochi, una visione strategica chiara è assente.
Allo stesso tempo l’impatto dell’architettura sulla condizione urbana si è ridotto alla produzione di cartoline di città piegate alle esigenze del marketing territoriale, del turismo globale o del capitalismo finanziario. Negli ultimi vent’anni, le principali capitali europee si sono dotate di una costellazione di architetture eccezionali – musei, stadi, grattacieli per uffici, palazzi dei congressi – che ne hanno cambiato l’immagine, lo skyline, a volte l’identità. Basti pensare a Bilbao che prima del Guggenheim Museum di Frank Gehry era per lo più sconosciuta. Tuttavia queste architetture singolari raramente sono riuscite a interpretare le reali spinte di trasformazione all’interno delle città.
A Roma sono stati realizzati nell’ordine: la chiesa Dives in Misericordia e la nuova teca dell’Ara Pacis ad opera di Richard Meyer; l’auditorium di Renzo Piano; il museo MAXXI di Zaha Hadid; il museo MACRO di Odile Decq; due nuovi ponti sul Tevere; tra pochi mesi tutti potremo entrare nella “Nuvola” di Massimiliano Fuksas. Ma la tensione – politica ed economica – che ha portato a questi risultati è ormai scemata e forse il caso più emblematico è proprio la Nuvola, la cui storia copre tutto il ventennio in questione, dal concorso nel 1998 all’apertura nel 2016. La città che scorre accanto a questi episodi eccezionali sembra, infatti, raccontare un’altra storia.
Al suo interno, l’architettura vive un processo metabolico costante. Un instancabile adattamento di ambienti, risultanti da altri processi di cambiamento e dismissione, in cui sono soddisfatte nuove esigenze abitative, produttive o commerciali. Fabbriche dismesse sono trasformate in campus universitari o in distretti legati al design e alla moda, uffici senza impiegati diventano abitazioni, magazzini abbandonati ospitano teatri di posa, scuole senza studenti si adattano ad accogliere migranti e rifugiati politici, mentre gli edifici storici del centro si adeguano ad ospitare banche e istituzioni. Lavoriamo in casa e abitiamo in ufficio.
Viene il dubbio se sia ancora necessario costruire nuove architetture; o se la costruzione di nuovi edifici sia lo strumento più efficace per gestire il cambiamento della città.
La pianificazione urbana in assenza di una capacità d’intervento, anzitutto economica, da parte dell’amministrazione pubblica, si è ridotta a semplice palinsesto di regole. La disciplina urbanistica produce un quadro di norme necessario a un’auspicabile regia pubblica di un complesso flusso di interessi privati che, dalla caduta del muro di Berlino, sono diventati gli unici reali attuatori delle trasformazioni urbane.
Gli edifici-macchina pensati e realizzati nella Modernità dimostrano oggi i loro limiti e la loro brutalità in termini architettonici, fisici e psicologici.
Da questa condizione di stallo post-moderna è forse possibile uscire indagando il potenziale inespresso dello spazio interno. La sua dimensione intermedia, tra oggetto e edificio, il suo essere contenitore di “cose” e arredi, ma allo stesso tempo contenuto dell’architettura-edificio, la sua prossimità all’uomo e alle sue innumerevoli attività, rende l’interno capace di esprimere la carica visiva e narrativa del progetto e di riconciliare la dicotomia creatasi tra architettura e città. L’architettura dell’interno può essere interpretata come una scenografia diffusa e molteplice, spesso contraddittoria. Sullo sfondo di una drammaturgia collettiva del quotidiano, ogni attività umana avviene in ambienti interni, nei quali si individuano valori estetici ed etici, esigendo comfort, aria condizionata, luce adeguata, supportati da arredi, oggetti e dispositivi che facilitano le nostre azioni. Se il progetto della modernità ha fallito sulla scala della città e dell’architettura, ha certamente compiuto la sua missione nell’universo più minuto degli spazi interni e del sistema degli oggetti. La città organizzata per zone funzionali – aree in cui si dorme e aree in cui si lavora unite da ampie connessioni viarie – è oggi messa in discussione da una più convincente mixité funzionale che riduce gli spostamenti, il traffico e rende i quartieri delle città più vivi durante tutte le ore del giorno. Gli edifici-macchina pensati e realizzati nella Modernità dimostrano oggi i loro limiti, la loro brutalità, in termini architettonici – l’uso del béton brut, il cemento a vista – ma anche fisici e psicologici.
Gli interni prodotti dal pensiero moderno invece hanno avuto successo: le nostre abitazioni sono più efficienti, ben illuminate, dotate di corrente elettrica, abbiamo servizi igienici e cucine comode da usare, finestre che non fanno entrare il freddo, un universo di elettrodomestici che facilitano le attività che svolgiamo, il comfort interno è condizione diffusa, compriamo facilmente sul web ogni genere di arredo e oggetto che incontri il nostro gusto.
Mentre tutti gli sforzi del progetto architettonico sono oggi rivolti alla costruzione di scintillanti e spettacolari architetture produttrici di immagini da dare in pasto al mercato, lo spazio interno emerge come un ambito dove la frattura tra l’architettura e la città potrebbe essere riconciliata.
Se la condizione urbana contemporanea – essendo un interno senza fine – non offre più un punto di vista esterno da cui un progetto politico-spaziale sia in grado di dare forma alla città, lo spazio interno è l’ultimo territorio dove l’architettura può operare per costruire una sfera pubblica. A tal fine, lo spazio interno deve emanciparsi dalla sua natura privata, e riuscire a interpretare anche il ruolo dello spazio pubblico della città, il luogo della mediazione; deve affrontare la sfida del confronto con i vuoti urbani, le piazze, le strade, i giardini, e amplificare le naturali interrelazioni che si vengono a formare.
Gli interni possono essere ripensati come spazi sottratti dal flusso senza fine di beni di consumo e acquisire un più elevato margine di libertà senza rinunciare alla loro potenza visiva. Anzi, approfittando della sua forza narrativa intrinseca, il progetto degli interni può costruire una più ampia e più generosa visione della città, dove l’interno diventa lo spazio dei riti e delle mediazioni, uno scenario della vita di tutti i giorni.
Solo così sarà possibile immaginare uno spazio interno continuo che, dalla piccola scala, diventi progetto territoriale di trasformazione, come somma e connessione di una moltitudine di frammenti interni di cui la città stessa è un inesauribile giacimento in continua evoluzione.
Immagine di copertina: Pablo Bronstein, Interior scheme in Cuban mahogany and tropical green (dettaglio), 2011. Courtesy: l’artista e Herald St.