F redrik Sjöberg potrebbe essere un personaggio di Wes Anderson. Entomologo e traduttore, giornalista e scrittore, biologo – ma soprattutto collezionista di sirfidi – Sjöberg ha avuto una vita che il regista americano racconterebbe con agio: un’avventura piena di guizzi e di storie eccezionali, eppure allo stesso tempo isolata, marginale e negletta.
Come uno dei Tenenbaum, Sjöberg è un outsider dai tanti talenti e dal genio precoce (il primo articolo per un quotidiano nazionale lo scrisse a diciassette anni: riguardava le sorti di una quercia pluricentenaria che stava per essere abbattuta). Narcisista impenitente e sconfitto, come lo Steve Zissou che Anderson modellò sulla figura di Jacques Cousteau, Sjöberg ha scelto di vivere in parziale isolamento: a Runmarö, un piccolo paradiso naturalistico nell’arcipelago di Stoccolma. Il suo ex-proprietario di casa contrabbandava libri storici, un collezionista anche lui. Il più importante della raccolta erano i Principia di Newton, l’edizione originale del 1687. Finì in prigione, e poi per brevi periodi anche in ospedale psichiatrico. Prima di morire, “ogni tanto telefonava” racconta lo scrittore, “quando era a piede libero, sempre allegro e gentile”.
Il re dell’uvetta è il secondo libro di Sjöberg pubblicato in Italia da Iperborea (per la traduzione di Fulvio Ferrari) dopo Il cacciatore di mosche, seconda parte di una trilogia autobiografica che include anche il volume Flyktkonsten, ancora inedito da noi. Qui come nel primo libro, lo scrittore svedese mescola generi e contenuti in un prodotto difficile da definire. Nell’assenza di una struttura narrativa vera e propria, si alternano riflessioni sul naturalismo e sull’arte, citazioni e immagini, brevi excursus di entomologia e di biologia. Corpi estranei che sbocciano casualmente all’interno del racconto ironico e sconnesso che Sjöberg fa della propria storia personale e che intreccia di continuo con le storie e le vite di altri cani sciolti e dimenticati, di scienziati e scrittori minori.
Lo scrittore svedese mescola generi e contenuti in un prodotto difficile da definire.
Sjöberg si interessa di arte e letteratura, ma la sua passione principale è collezionare mosche. Nei suoi archivi ne conta migliaia, alcune molto rare; centinaia di esemplari li ha catturati banalmente nel giardino di casa, nella piccola Runmarö. Infilzate con uno spillo e ordinate in bacheca, sono la sua “armata rossa” in miniatura. La collezione completa è stata esposta nel padiglione nordico della Biennale di Venezia nel 2009, “la prova definitiva e ai miei occhi più bella che l’arte contemporanea internazionale è finita, è completamente allo sfascio”, commenta sornione.
I libri di Sjöberg hanno da tempo un buon seguito in Svezia, ma solo da poco hanno avuto qualche fortuna a livello internazionale. Non tutti però hanno capito i suoi lavori un po’ paradossali, e nonostante gli elogi ricevuti da New York Times e Guardian, qualche mese fa Sjöberg ha vinto l’IG Nobel, il premio goliardico assegnato a ricercatori e artisti per le opere più assurde, spesso le più inutili o frivole, gioco di parole esplicito tra “premio Nobel” e “ignobile”. Non sappiamo come abbia reagito Sjöberg, ma a pensarci bene questa strana convivenza tra la consacrazione del circuito culturale ufficiale e lo sberleffo generale sembra tutto sommato la sintesi perfetta del suo mondo e della sua cifra stilistica.
L’idea di una “autobiografia in tre volumi incentrata sul piacere di collezionare mosche morte, insieme a quelle ancora in vita”, come recitano le motivazioni del premio IG Nobel, può suonare ovviamente piuttosto risibile. Eppure Il re dell’uvetta, esattamente come Il cacciatore di mosche, riesce a essere un libro profondo, tanto indefinibile quanto poetico e divertente. Il titolo fa riferimento a Gustav Eisen (1847 – 1940), uno dei primi darwinisti svedesi che, trasferitosi negli Stati Uniti d’America, divenne un pioniere della coltivazione dell’uvetta in California. Eisen è stato un grande esperto di lombrichi, oltre che un grande collezionista e naturalista. In America divenne anche uno dei padri del Sequoia National Park, dove adesso c’è un monte che porta il suo nome, e si appassionò di esoterismo, di occultismo, di storia dell’arte, di letteratura e di pittura. Eisen come Sjöberg non si accontentò di approfondire un solo campo di ricerca: “Un orientalista di Uppsala”, scrive Sjöberg, “mi ha manifestato stupore nello scoprire che quei tre erano un’unica persona: Gustaf Eisen, zooologo a Uppsala, Gustav Eisen, esperto californiano di giardinaggio, e Gustavus A. Eisen, storico dell’arte a New York”.
Tra le sue continue peregrinazioni intellettuali e i cambi di rotta e di residenza in giro per gli Stati Uniti, Eisen pensò a un certo punto di aver trovato il Sacro Graal. E non in senso figurato. Un giorno, passeggiando per la Quinta Avenue, a Manhattan, venne attratto dalla vetrina di un antiquario dove una collana di perle di vetro faceva bella mostra di sé. Un richiamo irresistibile per Eisen che si era occupato a lungo anche del ruolo delle perle di vetro nelle datazioni archeologiche. Una volta entrato nel negozio l’attenzione dello svedese venne catalizzata però da un altro oggetto: un calice d’argento di Antiochia, l’ultimo arrivo del robivecchi. Il proprietario ne ignorava la storia esatta e Eisen accettò così la proposta di analizzare l’origine di quella coppa. Si appassionò un po’ troppo al caso, però, e ci mise otto anni a studiare bene tutto. Al termine delle analisi pubblicò The Great Chalice of Antioch. L’intento del libro era di dimostrare che quell’oggetto trovato per caso in un antiquario di Manhattan fosse in realtà il Graal, il sacro calice eucaristico di Antiochia, che le figure rappresentate sul calice fossero proprio Gesù e gli apostoli e che le decorazioni fossero state eseguite da un artista che aveva conosciuto personalmente i partecipanti all’ultima cena. Con le sue analisi meticolose Eisen finì per convincere creduloni ed esperti. Il Metropolitan Museum of Art acquistò il pezzo a una cifra record. Oggi si ritiene che quel calice risalga al VI secolo e che, per di più, come precisa Sjöberg con scherno, “non venga da Antiochia e che non sia nemmeno un calice ma una lampada a olio”.
Quella di Eisen è solo una delle biografie di naturalisti e scienziati con cui Sjöberg ha deciso di confrontarsi negli ultimi anni, nomi più o meno trascurati e maltrattati dalla storia.
Il re dell’uvetta vorrebbe essere un omaggio a Gustav Eisen, il racconto di un genio irrequieto per lo più dimenticato, sia in patria che negli USA. Eppure per tutto il libro Sjöberg finisce inesorabilmente per parlare di sé stesso, e non fa altro che rispecchiare la sua immagine nella vita di Eisen. Non è difficile capire il perché: “la multiforme opera di questo mio connazionale”, scrive Sjöberg,
è oggi sostanzialmente sconosciuta, al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati di sottoculture, esili come cannucce. Botanici di Gotland, coltivatori di fichi, classificatori di lombrichi, studiosi dei maya, mistici del Graal, viticoltori, storici dei parchi nazionali, esperti di vetro, alpinisti, teosofi, collezionisti di sigilli a cilindro, coltivatori di uva sultanina e diversi altri tipi di fanatici, compresi i collezionisti di libri religiosi e qualche altro”.
Bene o male le stesse nicchie ecologiche, gli stessi spazi culturali elitari e autoreferenziali a cui appartiene anche lo scrittore svedese.
Quella di Eisen è solo una delle tante biografie di naturalisti e scienziati del passato con cui Sjöberg ha deciso di confrontarsi negli ultimi anni, nomi più o meno trascurati e maltrattati dalla storia – riscoperti, infilzati con uno spillo e ordinati in fila da Sjöberg nelle pagine dei suoi libri. “Sono molto bravo a fare amicizia con collezionisti morti”. A Runmarö, però, conobbe Tomas Tranströmer, poeta e premio Nobel per la letteratura, che aveva una casa di villeggiatura in quell’isola di 15 chilometri quadrati e poche centinaia di abitanti. “La Svezia è un piccolo paese. Prima o poi finiamo sempre per incontrarci tutti”. La loro amicizia si saldò attorno alla passione comune per gli insetti: anche Tranströmer era stato collezionista da ragazzo. Un giorno Sjöberg decise di mettere mano alla vecchia collezione dell’amico che prendeva polvere in alcune casse nascoste in cantina. Scrisse qualche riga a riguardo, rimise in ordine gli esemplari e pubblicò il catalogo della collezione con il titolo Den Tranströmerska insektsamlingen, letteralmente “La raccolta di insetti di Tranströmer”, un altro oggetto indefinibile.
Nelle pagine di Il re dell’uvetta, Sjöberg va alla ricerca di un elemento unico con cui decifrare l’esistenza prismatica di Gustav Eisen. Va un po’ a tentoni, prova a tirare qualche conclusione, ma l’unica cosa che si sente davvero di dire, alla fine, è che Eisen è stato “un puzzle di troppi pezzi”. Una definizione che pare cucita su misura anche per lo stesso Sjöberg, e che a maggior ragione calza a pennello i suoi libri, con i loro giri a vuoto e le deviazioni, le digressioni, i salti temporali, libri ironici e sconnessi, e sovraccarichi di storie.