Simulazione e potere
La simulazione in Black Mirror: da tropo controculturale ad anestetico sociale.
La simulazione in Black Mirror: da tropo controculturale ad anestetico sociale.
“Q uesta non è la vita che volevo”, “Sento di non essere la protagonista della mia vita”, “Mi guardo allo specchio e non mi riconosco”. Si chiama straniamento o, se preferisci, alienazione. Sentirsi alienati significa essere come stranieri in un luogo che non si conosce, dove tutto sembra non appartenerti e niente ha intenzione di accoglierti.
La prossima volta che ti capiterà di formulare frasi del genere, prova ad immedesimarti in Nanette Cole, la protagonista del primo episodio della quarta stagione di Black Mirror. Improvvisamente ti svegli, sei su un lettino bianco inamidato. Ti guardi intorno. Non sei nella tua stanza. Sei circondata dal bip-bip di strani marchingegni. Sei all’interno di una navicella spaziale e, per quanto possa sembrare assurdo, tutto intorno a te ricorda una convention di Star Trek. Distingui confusamente una frase, pronunciata da una voce che ti ricorda quella di Shania la tua collega d’ufficio. “Okay. Ascolta. Questo è Infinity. È il luogo in cui ci troviamo, dove esistiamo”. Infinity? Il multiplayer online di fantascienza creato dalla Callister Inc., l’azienda californiana per cui da poco hai cominciato a lavorare.
Metti per la prima volta a fuoco i volti delle persone che ti circondano: la donna che ti sta parlando è proprio Shania Lowry, una dipendente del reparto commerciale della Callister Inc. Dietro di lei, in fondo al ponte della nave, c’è James Walton, il CEO dell’azienda; al suo fianco: Elena Tulaska, la receptionist, Kabir Dudani uno degli assistenti programmatori di Infinity, e Nate Packer, lo stagista. Infine Robert Daly, Il CTO della Callister Inc., che è anche il creatore dell’elegante e sofisticato codice di Infinity. Su questa navicella Robert è il Capitano Daly e tutti voi non siete altro che copie digitali delle vostre controparti reali. Siete simulazioni dei suoi dipendenti, prodotte da una stringa di codice, che Daly ha ottenuto copiando la sequenza genetica del vostro dna.
L’idea di una realtà virtuale in cui poter entrare a piacimento è un’allegoria fondamentale della condizione alienata dell’umanità postmoderna.
Ti trovi nell’ambiente di sviluppo del software di Infinity – la build – che Daly ha modificato per simulare fedelmente le ambientazioni di Space Fleet. Robert Daly è talmente ossessionato da questa serie cult degli anni ’60, che ha persino battezzato l’azienda “Callister Inc.” in omaggio al nome di una navicella dell’universo di Space Fleet. Ti trovi sulla Space Fleet. Ognuno di voi è stato creato come una sorta di bambola voodoo digitale su cui Daly può sfogare la sua rabbia violenta. In questo luogo vi obbliga a prendere parte alle sue avventure stereotipate in giro per la galassia.
Detto in termini meno anglo-americani, la simulazione in cui ti trovi forse è una rifrazione sci-fi della inaccessibile struttura medievale in cui i sadici protagonisti di Le 120 giornate di Sodoma conducevano le loro vittime, il Castello di Sibling. Anche nel tuo caso l’isolamento è assoluto e non solo fisico: solo Daly può entrare e uscirne a suo piacimento. Tra un inseguimento di Varldack e un combattimento con i mostruosi arachnajax, alieni aracnoidi, in realtà copie di altri colleghi, Robert ha sempre occasioni per umiliarvi. Chi sgarra subisce pene orribili come Gillian, un’altra impiegata, trasfigurata in un mostro capace di esprimersi solo con versi gutturali.
Il fatto che possiamo empatizzare con la copia di Nanette è il termometro della condizione di straniamento in cui versiamo. L’episodio è costruito su uno dei temi più apprezzati della fantascienza contemporanea, quello della simulazione, elemento che ritroviamo in altri episodi di Black Mirror, come San Junipero, l’episodio della terza stagione su un paradiso di dati in cui rimanere sempre giovani mentre i nostri corpi si deteriorano, e Bianco Natale, lo special del 2014, dove la simulazione si rivelava una meno arbitraria ma altrettanto crudele punizione.
L’idea di una realtà virtuale in cui poter entrare a piacimento, come il cyberspazio di Neuromante di William Gibson, oppure inscenata come luogo di prigionia, come in Matrix delle sorelle Wachowski, è un’allegoria fondamentale della condizione alienata dell’umanità postmoderna. L’alienazione è il sintomo di una quadruplice separazione: da sé, dal frutto del proprio lavoro, dalla propria attività e dal prossimo.
L’alienazione è il sintomo di una quadruplice separazione: da sé, dal frutto del proprio lavoro, dalla propria attività e dal prossimo.
L’oppressione e l’isolamento che Nanette sperimenta dentro Infinity richiamano un concetto filosofico affascinante ideato dal filosofo svedese Nick Bostrom, che ha influenzato profondamente l’horror sci-fi contemporaneo. La teoria conosciuta come argomento della simulazione, afferma che è possibile che viviamo in una realtà simulata, creata da entità più avanzate dotate di potenti supercomputer. Queste entità potrebbero avere il controllo completo sulla nostra realtà, modellando ogni aspetto della nostra esperienza.
Black Mirror cattura un punto nevralgico del simulation argument: la dimensione ludica. Per Bostrom, i nostri simulatori sarebbero i nostri antenati, e noi faremmo parte di un software capace, attraverso complessi computer quantistici, di ricostruire una simulazione immersiva della storia umana. La variante di Bostrom è decisamente più angosciante della realtà virtuale vista in Matrix e Neuromante: non c’è nessuna possibilità di fuga dal sistema perché, come nel caso della copia di Nanette, noi ne faremmo letteralmente parte come NPC, non playable characters, ossia personaggi che chi altrove tiene in mano il controller non sta usando per giocare, quindi delle semplici comparse.
La differenza tra avatar e copie digitali, quella cioè tra PC e NPC, è centrale per capire la direzione che ha imboccato la serie di Charlie Brooker (anche alla luce dell’ultima stagione, di cui proveremo a parlare più avanti). In U.S.S. Callister è il Capitano Daly l’unico Playable Character della versione modificata di Infinity: il Capitano è l’avatar di Robert Daly, l’unica copia digitale effettivamente collegata ad un corpo che presente al di fuori dalla simulazione. Inoltre, Robert Daly, non è solo un avatar ma anche il game master del microuniverso sadico che ha costruito.
La teoria della simulazione afferma che è possibile che viviamo in una realtà simulata, creata da entità più avanzate dotate di potenti supercomputer.
Il resto delle copie sono al contrario mutile, non hanno niente a che fare con le loro controparti reali, pur conservando la loro personalità e la loro memoria. A differenziare e, allo stesso tempo, a intrecciare questi due estremi è una relazione di potere. L’impotenza costitutiva, ontologica, che caratterizza le copie di Nanette e del resto dell’equipaggio, riflette invece l’impotenza sociale che le corrispondenti persone reali hanno sul luogo di lavoro. Le vittime del risentimento di Robert non possono dormire, provare piacere, dal momento che nella versione modificata di Infinity “non ci sono genitali (…) è un universo moralmente retto”, e non possono nemmeno morire.
Proviamo a usare questa storia per mettere sotto una certa luce la nostra esperienza del mondo. Quanto accade ai corpi simulati sulla U.S.S. Callister è ciò che avviene ad ognuno di noi una volta entrati nelle geometrie della microfisica del potere, come la incontriamo nella società, al lavoro soprattutto, ma non solo: la castrazione del nostro desiderio, operata dalla tecnostruttura sociale che ci tiene ingabbiati in una produttiva frustrazione, è rappresentata, nell’episodio, dalla castrazione delle copie vessate dal Capitano Daly. Le nostre personalità vengono deformate dal potere che pervade la nostra quotidianità, così come i corpi dell’equipaggio della U.S.S. Callister, che il Capitano Daly può alterare irrimediabilmente sfigurando la loro forma.
I dipendenti di Robert, così come capita sempre più spesso e con sempre più consapevolezza ai dipendenti aziendali oggi, sono piuttosto parte dell’arredamento, elementi precari, potrebbero essere rimpiazzati in qualsiasi momento, tanto dentro gli uffici della Callister Inc. quanto dentro la navicella virtuale U.S.S. Callister – in cui possono essere cancellati in un colpo dalla volontà del Capitano Daly.
L’impotenza ontologica delle copie di Nanette e del resto dell’equipaggio riflette l’impotenza sociale che le corrispondenti persone reali hanno sul luogo di lavoro.
Ma il potere che Robert detiene nel mondo virtuale è assoluto mentre quello che ha nella vita reale è totalmente nominale. Nel mondo vero Robert è sottomesso e mortificato da James Walton: il CEO si relaziona a Robert non come a un suo pari ma come a una gallina dalle uova d’oro, lo manipola come un pupazzo e ne sfrutta la genialità.
James Walton è la radice primigenia dell’inferno virtuale eretto da Robert Daly. È Walton ad essere il vero antagonista dell’episodio di Black Mirror. Solamente chi detiene un’autorità riconosciuta e riconoscibile nella catena di comando può pensare di poter davvero modificare ciò che gli sta intorno, esattamente come chi gioca a un videogame di cui conosce i codici.
Tutti coloro che invece sono sottoposti alla volontà altrui – che sia quella di un marito geloso, di un capo sadico o di un amico infedele – sono privi di qualsiasi forma di agency, che è come oggi chiamiamo la facoltà di agire autonomamente all’interno di situazioni particolari e di fare scelte che possono essere definite “proprie”. Essere o meno in una posizione di potere distingue il soggetto dell’autorità dagli oggetti che esso crea con il suo volere, come ribadisce il vero James Walton rivolgendosi ad un Robert sull’attenti nel suo ufficio: quando sei direttore, “non devi chiedere ma dire agli altri quello che devono fare”, esattamente come sta facendo con lui.
Il vero James Walton è il soggetto della relazione di potere, il Robert Daly programmatore di Infinity è invece l’oggetto. Nel gioco, la copia di James, ossia il sottotenente James Walton, è la proiezione della rabbia che Robert prova verso se stesso. Nella scena in cui il capitano Daly afferra per il collo il sottotenente Walton, il vero Robert sta parlando metaforicamente con se stesso quando chiede sprezzante: “Lei è davvero patetico, lo sa?”. Il disprezzo che prova per se stesso porta Daly a sublimare la sua frustrazione nell’immagine del Capitano della U.S.S. Callister, creata sul modello di autorità che Walton esercita su di lui nella vita reale.
La castrazione del nostro desiderio operata dalla tecnostruttura sociale ci tiene ingabbiati in una produttiva frustrazione.
Sono il sadismo, il risentimento, le relazioni tossiche e l’asimmetria del potere i punti salienti dell’episodio che ha come protagoniste le due Nanette Cole, l’originale e la copia, e come ambientazione della storia l’ufficio della Callister Inc. e la sua controparte digitale, trasfigurata nella navicella spaziale “U.S.S. Callister”.
Questa lettura allegorica del mondo contemporaneo ci riporta indietro a William Gibson, padre del cyberpunk. L’idea di simulazione come illusorietà del quotidiano, delle sue norme e dei suoi riti, ci ricorda le Zaibatzu: le gigantesche multinazionali che Gibson immaginava in Neuromante, producono l’ideologia che respiriamo: grazie a loro – nel nostro caso grazie a tutta Silycon Valley – ci ritroviamo in un eterno presente scollegati dalla nostra storia e incapaci di produrre immagini del futuro.
Tornando a Black Mirror: alla fine dell’episodio, l’equipaggio riuscirà, durante l’aggiornamento del software, ad attraversare con la U.S.S. Callister il buco nero generato nell’interfaccia di Infinity all’apparire della back door, l’ingresso dei nuovi dati provenienti dall’aggiornamento. il gruppo capitanato proprio dalla copia di Nanette pensa di lasciare Robert nella vecchia versione di Infinity e di porre fine all’esistenza da NPC gettandosi dentro il buco nero, in questo modo il codice obsoleto dei vari NPC sarebbe cancellato dall’aggiornameto/buco nero. Quest’ultimo però si rivela un wormhole e l’equipaggio si ritrova nella versione aggiornata e online di Infinity: ogni membro è finalmente libero di essere chi vuole dentro l’enorme e sterminato open-world, trovandosi davanti a un orizzonte sterminato di possibilità.
Essere o meno in una posizione di potere distingue il soggetto dell’autorità dagli oggetti che esso crea con il suo volere.
Sembra fantastico, un messaggio positivo e anche stucchevole, ma quando si è fuori dalla simulazione, quella privata di Robert ad esempio, si raggiunge solo un altro livello della stessa, la versione aggiornata di Infinity. È vero, il simulacro di Nanette non è più limitato dalla volontà di Robert, ma in quanto copia si trova comunque ad esistere in un universo definito da un codice più esteso. Diventa così il simbolo di una fuga eterna dal corpo e dalla materia, una fuga che conduce solo al nulla e che non ha ricadute nel tedio doloroso della vita vera, non ha esiti politici. Nessuno si renderà conto di cosa accadeva dentro il computer di Robert Daly.
Ma possiamo anche dire che Daly, nel ruolo del capitano della nave spaziale, quando emerge dalle sue sessioni di gioco entra in una simulazione più estesa: il suo ambiente lavorativo tossico, che ha la stessa tossicità da cui la Nanette reale nel frattempo era scappata, perché il suo vecchio ufficio era diretto da ”un perfetto stronzo”.
La nostra società è diventata davvero come la prefigurava William Gibson: siamo in un mondo in cui, con tinte meno gotiche, le Zaibatsu controllano le nostre vite ed esercitano su di esse una pressione a tal punto intensa da costringere ognuno di noi a dover trovare dei luoghi d’evasione. Questi, nelle realtà metropolitane, diventano sempre più coincidenti con le nostre stanze e forse, presto, con le nostre menti come nelle simulazioni a buon mercato profetizzate in tanti episodi di Black Mirror.
L’U.S.S. Callister è ogni luogo di lavoro che sotto la scorza dell’etica aziendale è sempre e innanzitutto un luogo di potere. La navicella guidata dal Capitano Daly può essere considerata come una rappresentazione metaforica delle limitazioni e delle frustrazioni che Daly vive nella sua vita di tutti i giorni, ma è anche il simbolo di quel paradiso infernale in cui viviamo e soffriamo ma a cui non possiamo rinunciare.
L’idea di simulazione come illusorietà del quotidiano ci ricorda le Zaibatzu: le gigantesche multinazionali che Gibson immaginava in Neuromante.
Dopo l’ultima stagione, uscita a giugno 2023, si è tanto discusso di come Netflix abbia snaturato l’anima dello show di Charlie Brooker. Chi lo pensa è spesso un fan della prima ora ma in questa valutazione dimostra di non aver colto l’essenza di Black Mirror e anche la sua pericolosa banalità. Si, perché è probabilmente l’aver spinto troppo sulle distopie ad aver reso lo sci-fi contemporaneo, rimanendo sul mainstream come Black Mirror, una sorta di anestetico contro tutto ciò che di contro-culturale era stato prodotto nella fantascienza del Novecento.
Il fatto che i protagonisti delle storie della serie Netflix siano spesso delle copie digitali è sintomatico di come oggi sia percepita l’identità: siamo tutti i dati che produciamo e di cui ci nutriamo. Dell’uomo non vi è più nulla da raccontare. La sua natura malvagia lo rende un caduto da sempre, spacciato in ogni tempo, condannato. Con l’ultima stagione di Black Mirror si mollano gli ormeggi per sempre. Lungo la visione dei cinque episodi si va avanti e indietro nel tempo proprio per dare l’idea che cambiando il contesto non cambia la sostanza, il succo rimane invariato. Per dimostrarlo viene abbandonata l’estetica hi-tech dell’era Apple per viaggiare, dopo una brevissima incursione nel futuro prossimo, negli evocativi anni ‘60-’70, fino ai ‘90 del Novecento, un passato pre-internet, pervaso da un male di tipo occulto o esoterico.
Negli intermezzi lynchiani come Loch Henry, ma soprattutto in Demone 79 e in Mazey Days, gli episodi privi di un riferimento diretto alla tecnologia, Black Mirror cala la maschera e più che un cambio di passo, in questi episodi tradisce forse la fine di un viaggio: quello della metafora tecnologica. Il primo è uno sguardo sottecchi alla remota provincia inglese, in cui uno strano sodalizio – un poliziotto, la moglie e un matto ubriacone – ammazza giovani coppie di turisti e immortala i suoi crimini in dei videotape spacciati per programmi tv. In Mazey Days la licantropia e in Demone 79 l’horror demoniaco ci ricordano che il medium tecnologico, così come quello magico su cui si era da sempre fondato l’horror, sono in realtà interscambiabili se non addirittura la medesima cosa. Il mezzo tecnologico, così come lo strumento magico, serve per spalancare il nostro antro interiore, lì dove si alberga il nostro sé, il vero schermo nero della nostra esistenza, per alludere al titolo della serie.
Il fatto che i protagonisti delle storie della serie Netflix siano spesso delle copie digitali è sintomatico di come oggi sia percepita l’identità.
La sesta stagione dice al pubblico che la tecnologia non è mai stata la protagonista della poetica horror della serie: sono le passioni umane ad essere votate al male, il medium tecnologico odierno non fa altro che diffondere la proiezione oscura dei sentimenti tristi della nostra specie, così come un tempo accadeva con videocassette e telecamere. Il senso di resa di fronte alle derive securitarie della tecnologia portava le prime stagioni della serie a chiudere ogni episodio con dei finali angoscianti, ma erano quest’ultimi la vera firma di Black Mirror, il punto in cui gli autori hanno sempre condensato il loro cinico sarcasmo. Sarcasmo che a una semiosi profonda si rivela una forma di cripto-morale cristiana, irrigidita dalla tecnologia e angosciata dell’inesistenza di Dio, pronta a lasciare che l’essere umano bruci nelle fiamme del progresso.
L’aura cristiano-apocalittica non è mutata con l’arrivo dello show su Netflix. Nella terza stagione, nell’episodio intitolato San Junipero, molti detrattori hanno trovato le conferme di quanto si aspettavano, un finale distensivo e apparentemente lieto. Mancano però di notare un dettaglio di non poco conto. Mentre vediamo Yorki e Kelly reincontrarsi, pronte a vivere la loro storia d’amore per sempre, avviare il motore e accelerare con la loro decappottabile rossa fiammante verso l’orizzonte, stiamo provando dei sentimenti verso dei flussi di codice, non stiamo assistendo al lieto fine della vera Yorki e della Vera Kelly. In San Junipero, anziani e persone disabili possono accedere per un tempo limitato ad una sorta di paradiso in pieno spring break, dove alla fine della loro vita possono scegliere di restare uploadando le loro coscienze all’interno del programma. Ciò che resta è solo un disperato tentativo di ricreare il paradiso, fuori da San Junipero si continuerà a morire sotto le bombe della prossima guerra.
I confini del nostro mondo terminano negli abusi di potere, virtuali o reali.
Nella sesta stagione questo tratto è estremizzato nel finale di Demone 79, puntata in cui assistiamo alla surreale vicenda della commessa di un negozio d’abbigliamento inglese, Nida. Discriminata dai colleghi e dal direttore per le sue origini indiane, Nida finirà per stringere involontariamente un patto con un demone dalla forma di capro, che le si presenta con le sembianze di Boney M., cantante per cui va matta. La coppia dovrà dare seguito ad un cruento rituale per evitare l’apocalisse nucleare. [Spoiler alert…] Alla fine dell’episodio l’umanità verrà inghiottita dalla furia dell’atomica e i due complici, Nida e il demone, sceglieranno di dissolvere i loro ego nel nulla cosmico nella speranza di poter rimanere eternamente insieme. Non possiamo sapere che la storia di Nida è frutto della sua psicosi, causata dai breakdown nervosi a lavoro, oppure se l’esperienza demoniaca sia reale, sappiamo soltanto che, contro ogni aspettativa, la fine nucleare è arrivata davvero e non c’era modo di evitarla, forse. Poco cambia se Nida sia finita davvero imprigionata in una dimensione demoniaca ultra cosmica, oppure incenerita dai vapori dell’atomica, ciò che conta, ciò che rimane, è che essa non esiste più.
C’è un umore nero dietro questi finali apparenemente distensivi, un sentimento di passività che ci porta a una naturale resa di fronte alla realtà. Alle nostre spalle e alle spalle della Nanette reale c’è solo il nulla, ci dice Black Mirror, non c’è il significato che desideriamo dare alle nostre sofferenze quotidiane. I confini del nostro mondo terminano negli abusi di potere, virtuali o reali, dei molteplici Robert Daly e James Walton che attraversano le nostre vite e che ricoprono ruoli di comando nella nostra società.
Non serve più raccontare di futuri distopici per illuminare le contraddizioni del presente. In Black Mirror si sente l’eco della profezia di Nick Land nel ‘95, “il futuro è più vicino di una volta, più vicino della settimana scorsa”, l’avvenire è ormai “il motore astratto dell’attuale”. L’attualità, dominata dagli algoritmi stratificati e dalla tecno-magia della Silicon Valley, è già terribilmente spaventosa ma lo diventerà ancora di più se a produrre le narrazioni sci-fi del futuro saranno colossi come Netflix. Il meccanismo ora sembra essersi inceppato. Apri gli occhi, sei Nanette Cole: scoprirai a breve che non sei realmente chi credi di essere.