L a letteratura siciliana è tanto ampia da nascondere una geografia di tesori dimenticati. Molti capolavori rimangono oscuri soprattutto per un linguaggio reinventato attraverso il dialetto, elemento di disordine per la sua forza fonetica. Altri scelgono storie impregnate di metafisica molto lontane dal verosimile. In questo breve viaggio proverò a favorire la riscoperta di alcuni libri per tentare una mappa della Sicilia letteraria dimenticata.
Si inizia da Horcynus Orca, di Stefano D’Arrigo. Pubblicato nel 1975 dopo una lavorazione di più di vent’anni, rappresenta il più chiaro esempio di rivoluzione linguistica all’interno della letteratura siciliana contemporanea. Narra del ritorno dalla guerra del protagonista, il marinaio ‘Ndrja Cambrìa, nello Stretto di Messina, a Cariddi, mentre l’Orca intanto – fera mostruosa – emerge da quel mare. L’opera dell’autore di Alì è una complessa manifestazione incontrollata di un dialetto siciliano che splendidamente fantastica fino a crearsi, poi addirittura a fondarsi da sé, e diventare infine melodia di morte e amore ed epica tutto insieme.
E quando facevano: focufocufocu… come se per il dolore le parole medesme gli ardessero in bocca avvampanfogli persino l’aria che respiravano, si sarebbe detto, a sentirle, che vero, davvero il fuoco lo vedessero lingueggiare là, fra le piaghe della rena, il ricordo a fuoco di questo o di quel ferribò arso, perso arso, che ancora le infiammava col bruciore che gi faceva fare ancora ahi.
I fatti di Horcynus Orca paiono ricordare, alla lontana, Moby Dick; solo che qui D’Arrigo decide di incantesimarla, di magicamente “vastasarla” – spargerla di rozzezza – grazie a quella Sicilia di bestie e di fattucchiere e di costante Mito che non permette delicatezza stilistica o interpretazione religiosa, e permette invece aggressione di lingua e perciò produzione immaginaria di quelle potenze “nìvure” – nere – che lo Stretto mantiene nella sua storia. Così, in virtù di una scrittura incessante, la lettura di Horcynus Orca è diventata atteggiamento di culto, elitario.
Sino a un momento prima avrebbero giurato che per tutto lo scill’e cariddi non avrebbe potuto esserci un silenzio più grande, ed ora invece si rendevano conto che questo era silenzio, vero impressionante silenzio, questo che si generava dall’orcaferone attuffato là, come alla fonda: perché solo ora che era ormai passato, ed era un’eco di cavalloni tuonanti per abissi di silenzio, milia e milia lontano da lì, solo ora gli arrivava all’orecchio il meravigliosamente pauroso tambureggiare di coda che sino a un momento prima, sino al mare di Spadafora, l’animalone aveva fatto sopra l’onde. Si trovava poco fuori della mezzerìa, dalla loro parte, in quel mare che la sua sagoma ignota e tenebrosa faceva ora alla vista cupo e tenebroso, quasi nello stesso mare dove al suo primo arrivo si era ammollato sotto, levandosi da quell’intrigo di alighe putrefatte.
Se D’Arrigo è stato scrittore-mago in quanto capace di generare un’opera di impianto odissèico con una lingua nuova, Gesualdo Bufalino, certamente più noto grazie al suo romanzo Diceria dell’untore, Premio Campiello nel 1991, rientra in coloro da riscoprire per alcune opere brevi: come la raccolta di novelle L’uomo invaso. Ne L’uomo invaso Bufalino concede una scrittura barocca, equilibrata ma non per questo priva di visione e centellinato dialetto, in grado di regalare storie tutte incominciate all’insegna di una predilezione verso il Metafisico. Dentro la novella che dà il titolo alla raccolta si legge del processo di trasformazione da uomo ad angelo del protagonista Vincenzino La Grua, durante il domestico trascorrere della sua vita. Un mutamento che subisce e nel corpo e persino nei sogni.
Mi sono informato cautamente in giro, sono andato in biblioteca a documentarmi. Lo pseudo Dionigi scrive (ho la fotocopia davanti): “La Scrittura non rappresenta solo ruote infuocate, ma anche animali di fuoco e uomini per così dire raggianti, e pone attorno alle stesse sostanze celesti cumuli di carboni infuocati e fiumi che con irresistibile impeto emanano fiamme, e mostra che gli stessi sublimi Serafini, secondo il loro nome, sono brucianti…” E allora come la mettiamo? Io, se poso un dito sul braccio di Amalia, lo scotto, se mi metto un termometro in bocca lo squaglio…
Non stupisce, però, soltanto questa tensione al surreale della narrativa breve di Bufalino: allibisce anche la novella Morte di Giufà, che fa della morte di un personaggio inesistente la sua esistenza reale.
Uno stesso fragore e luci uguali crede ora d’udire e vedere. Giufà, appoggiando a terra l’orecchio e spiando fra il fogliame, benché dell’orecchio e dell’occhio suo si fidi assai poco, da un tempo in qua… lui che sapeva ad ogni primavera, steso supino sul prato, avvertire il fruscio dell’erba che cresce, cogliere da lontano con un sasso il guizzo d’una lucertola. Ma i giorni vengono e passano, la barba s’è fatta bianca, come sei cambiato, Giufà…
Dello stesso atteggiamento letterario fu Vincenzo Consolo, che fece della propria narrativa un plausibile e superbo racconto dell’assurdo, del paradosso meraviglioso nonché della favola “strammàta” – pazza – per lingua e immagini che si condensano in un’unica amalgama. Si pensi a Lunaria, favola teatrale in cui si racconta – con un linguaggio quasi uscito da un calderone stregonesco – del regno del protagonista Casimiro, viceré di Sicilia, che si vede scosso dalla caduta effettiva della luna.
Lo si vede salire il dottor Elia, per una scala a pioli sopra la quercia, arrampicarsi fino in cima, tastare con il suo strumento, auscultare la superficie della Luna. La quale intanto si fa di nuovo bianca, argentea, intensamente luminosa e nello stesso tempo comincia a crepare, a rompersi in più parti come la crosta di un pane.
In terra siciliana, assai più sconosciuto è quello che, secondo me, è il Kafka dell’isola: il palermitano Angelo Fiore che con uno stile secco, che agghiaccia per la paura che riesce a trasmettere la sua esilità letteraria, ricorda lontanamente lo scrittore di Praga. I temi, se non altro, sono quelli: la demoniaca attività dell’Amministrazione – dal di dentro e dal di fuori – che riesce a possedere i protagonisti delle storie. Come ne L’incarico:
Salfi ebbe un permesso di alcuni giorni per cercare Pravatà, e ne profittò per dare agli esami. Si sentiva a disagio: era uno studente fallito, ma testardo: “Qualcosa è cambiato, dentro di me. Ho dimenticato molte cose; o meglio, non posso più fare alcune cose dell’uomo”
Alla fine di questo breve cammino – in cui dialetto e storie diventano purtroppo fragili ostacoli che portano all’incomprensione – non si può tralasciare lo spazio dedicato alla poesia, che nella Sicilia delle arti contemporanee è fondamentale grazie alle liriche di Nino De Vita, scritte nel dialetto di Cutusio, la contrada di Marsala. Raccolte come, ricordiamo, Cuttusìu, fino a Cùntura – inediti, tranne Fosse Chiti che è la sua prima raccolta datata 1984 che è invece in lingua italiana.
In esse la natura è dominante, ma non è natura che si osserva e basta, essa innerva e fa raccontare le storie circonvicine e proprie che il poeta subisce per poi reinventarle o semplicemente dirle in quel tempo. Questo modo di fondersi con la vita quasi antica di quel luogo poetico e reale descritto da De Vita è reso dal suo dialetto che è necessario per edificare un piccolo mondo che ruralmente si addùma – accende – di un passato che sembra ombra ancora calda. Il dialetto “rurale” di De Vita è pertanto necessità, obbligo dell’anima perché si esprima. Come ne ‘U Nchiaccatu, cioè L’impiccato.
“Era com’esti ‘a cìnniri,
‘u mascarò, ‘a nuttata.
Avia acchianatu
‘u scuru ri nne terri
ru Voscu, ri Salennu, ru Stagnuni,
paruparu, e s’avia
pigghiatu ‘a linia, ‘i zzucchi ri Asparinu,
ru siddaru, ru sceri,
l’ortu ru tincituri…
Accuppunau accussì
‘a casa runni Ascenziu
rurmia, ddà sutta, ‘a turri,
e cci calau ‘a jilata,
i vitra fici frìggidi,
bbiancazzi.