È l’estate del 1991 e cade il decennale dalla morte di Jacques Lacan quando Sibylle Lacan, la sua ultima nata dal primo matrimonio, dopo Caroline e Thibaut, inizia a scrivere Un père: Puzzle che verrà pubblicato nel 1994 da Gallimard (e in Italia da Le Lettere, nel 2001), un memoir sul padre Jacques Lacan, non l’uomo, l’intellettuale, lo psicanalista ma il padre, di fatto un padre che non è stato padre. Il libro ha nel sottotitolo la sua dichiarazione d’intenti: la pratica di una memoria che sa di non essere appagante ma piuttosto modesta e parziale, e in questo senso rappresenta il contraltare al prestigioso Album Jacques Lacan: visages de mon père di Judith Miller, figlia di seconde nozze di Jacques Lacan.
Il memoir è l’occasione per tentare di rispondere a questioni cruciali, come cosa voglia dire portare un nome, cosa essere padre, e che senso possa avere tornare sulle presenze significative di un vissuto, scriverne la storia per tentare di capire se stessi: una notte di agosto Sibylle si mette a scrivere di getto tutto ciò che emerge dalla sua memoria, per paura di vedersi sprofondare nell’oblio.
Sibylle Lacan è nata sotto il segno del vuoto e della mancanza (“eppure credo che la mia vita intera sia stata segnata da questa venuta al mondo nella solitudine di affetti”). Nasce da Marie-Luise Blondin nel 1940 quando Jacques Lacan se n’è già andato, e ha iniziato un’altra vita con Sylvia Bataille, da cui l’anno dopo avrà una figlia, Judith (che porterà il cognome di George Bataille, con cui la madre è ancora sposata). Per ragioni legali Judith manterrà fino alla morte di George Bataille il cognome di un uomo che di fatto non è suo padre, e riuscirà a portare il cognome Lacan per soli due anni prima di acquisire quello del marito Jacques-Alain Miller, erede testamentario dell’insegnamento lacaniano. Sibylle vivrà il rovescio di questo paradosso, portando il nome di un padre che non ci sarà, e decidendo di mantenerlo: “Quando avevamo sedici anni, diciotto anni (?), la mamma domandò a mio fratello e a me se volevamo chiamarci Blondin. Rifiutammo d’istinto”.
L’incapacità da parte di Lacan di lasciare che Judith porti il suo cognome, e dall’altra di avere un ruolo di padre nella vita di Sibylle, sembra l’incarnazione di quella che Lacan stesso teorizzò come “evaporazione del padre” e “dissoluzione del Nome del Padre”, ovvero il progressivo smantellamento del principio di autorità. Si tratta del declino della funzione paterna, della sua autorevolezza simbolica postulata da Lacan all’indomani del ’68, che porta al superamento del padre come unico interprete del senso dell’esistenza e arbitro del bene e del male. Secondo Lacan si assisteva al tramonto del padre-Edipo com’era stato formulato da Freud, ormai incapace di resistere ai cambiamenti sociali in corso e di sostenere il peso simbolico della sua funzione pubblica.
“Che cos’è un padre?” è stata una domanda centrale nel pensiero di Freud prima e di Lacan poi, e la stessa domanda sembra fare da sottofondo a tutto il memoir di Sibylle Lacan. La risposta sembra disegnare una presenza paterna che perde di consistenza più la si guarda. Una delle prime immagini che conserva Sibylle del padre è quella di una sagoma avvolta in un ampio cappotto ferma sulla porta, appena arrivata ma già sul punto di svanire all’orizzonte; e solo la scrittura riesce a trattenere quell’evanescenza inesorabile. È una scrittura di ciò che non si sa, scrittura che legge, interpreta gli eventi, prova a ricostruirne la carica emozionale, colleziona sulla carta parole solo quando il padre è ormai via, a dieci anni dalla sua morte.
Il mio intento è il seguente: far emergere dalla mia memoria tutto ciò che è accaduto di importante, di forte – tragico e comico – tra mio padre e me […] È un’opera puramente soggettiva, fondata sia sui ricordi del mio passato che sulla visione delle cose a cui sono giunta oggi. […] Ho scritto quelli che chiamo pezzi nel disordine, o meglio nell’ordine della loro comparsa imperiosa nella mia memoria, risolvendomi, perché non poteva essere altrimenti, a metterli a posto soltanto alla fine.
La nascita di Sibylle corrisponde alla scomparsa del padre, ma all’esistenza dell’altra famiglia e dell’altra sorella per molti anni verrà nascosta a Sibylle e al fratello, celata sotto una fitta trama di apparenze – degna della piccola borghesia parigina cattolica, austera e conformista – tessuta dal padre con la connivenza della madre. Nella memoria di Sibylle la sorella Judith compare soltanto nel 1958 in occasione del matrimonio della sorella maggiore Caroline, che segna la rottura di quella nebbia di mezze verità e omissioni; il momento in cui la madre asseconda il desiderio del padre di lasciare che Judith partecipi alla vita delle sorelle. Si scatena il caos, la sciagura, la catastrofe: la scoperta della sorella.
Avevo un’altra sorella ed ero impaziente di conoscerla. Il futuro mi riservava non poche disillusioni… Il mio primo vero incontro con Judith mi annientò. Lei era così gentile, così perfetta, e io così goffa così impacciata. […] Lei aveva l’aria di una donna, io avevo ancora un aspetto infantile […] Per giunta faceva filosofia mentre io facevo soltanto studi di lingue.
Da quel momento il confronto con la sorella sarà inevitabile e dolorosissimo. Quella che era stata vissuta come un’assenza sempre giustificata da ragioni legate alla carriera intellettuale e psicanalitica del padre, si rivela essere un abbandono imperdonabile, e ogni attenzione non ricevuta si rivela piuttosto come rubatale dall’altra famiglia, dall’altra figlia. Sibylle porta la profezia nel nome, una profezia di sventure, di cui pare consapevole dalle prime pagine del suo Puzzle. Di sé dice di essere il frutto della disperazione, prendendo le distanze da chi crede di essere il frutto del desiderio, cogliendo tutta l’opacità di uno dei cardini di tutta la teoria lacaniana, di quella morsa inconscia che, nata da una mancanza, e limitata da convenzioni o proibizioni, ha sempre spinto gli esseri umani ad agire.
La grande solitudine si riversa in una scrittura che procede a scatti e racconta un vissuto fatto di date, eventi, cene, mazzi di fiori inaspettati e consulenze psicanalitiche. La narrazione segue l’ordine in cui i pensieri emergono, ciechi alla cronologia e sordi alle logiche del racconto. Un memoir, di stampo autobiografico, che delimita attraverso la voce della figlia gli spazi di presenza del padre, in una ritualità familiare messa in luce in tutte le sue storture. In questo senso il rituale del pasto domestico è significativo, privato completamente della sua natura spontanea:
Un’immagine dell’epoca che è rimasta fissa nella mia memoria, come se avessi scatto una fotografia e l’avessi tenuta da parte, è la figura nel vano di mio padre che era venuto a trovarci, un giovedì: gigantesco in un largo cappotto, era lì, già spossato da non so quale fatica. Si era instaurata un’abitudine: veniva a pranzo in rue Jadin una volta alla settimana.
Un’abitudine che negli anni si spoglia di quell’intimità domestica e si traforma in appuntamenti al ristorante preventivamente accordati con la segretaria. “Vedevo mio padre da solo a sola quando cenavamo insieme. Mi portava in ristoranti famosi e quella era per me l’occasione di gustare piatti di lusso: ostriche, aragosta, dolci sontuosi […] Ma soprattuto ero con mio padre e stavo bene”.
La disperazione con cui Sibylle innerva il suo lavoro di scavo torna nell’epilogo a chiudere la narrazione. È la disperazione che l’ha colpita durante la lettura delle ultime pagine di Esquisse d’une vie, histoire d’un système de pensée della storica e psicanalista Élisabeth Roudinesco, un racconto delle ultime ore di Jacques Lacan, dai toni sofferti e agiografici. Il pianto disperato in cui affonda Sibylle Lacan ripete il paradosso di un amore inspiegabile che sopravvive alla morte. In cerca di giustificazioni e spiegazioni, Sibylle confessa di aver iniziato a dare spazio alla scrittura per trattenere qualcosa che pareva scivolare.
Sentendo che quello era l’unico modo, per me, di non sprofondare completamente – scrivere dal momento che non riuscivo più a leggere, segnarmi le date perché non avevo più memoria, acchiappare le parole prima che mi sfuggissero, trovare un riflesso, una prova della mia esistenza su un pezzo di carta, dentro a qualche pagina buttata giù senza la minima preoccupazione stilistica. Tentare di sopravvivere, e basta.
La scrittura pare essere uno dei tentativi, chi può dire se tra i più riusciti, nonostante anni di psicanalisi, di farsi spazio nelle nebbie di quella che è stata diagnosticata come neurastenia, ma che viene sempre nominata attraverso i suoi sintomi: spossatezza e uno strano vuoto di emozioni. Nonostante tutto, però, la presenza del padre è sempre totalizzante, e mantiene un carattere eroico.
L’essenziale era lì, e io ero festosa, raggiante. […] Eravamo tutti e tre in visita a una fortezza. Thibaut scendeva di corsa la scala a chiocciola di una torre. Dove mi trovavo io, esattamente, rispetto a lui? e mio padre? Ma ecco che cosa vedo: a una svolta, sulla destra c’è un’apertura che dà direttamente sul vuoto, una porta senza zoccolo, e senza ringhiera. Thibaut, nella sua foga di bambino, vi precipita. Mio padre lo riacciuffa per i vestiti. Miracolo!
Ma l’episodio che più di tutti cattura quella che Sibylle definisce la bizzarria del padre, che sembra piuttosto goffaggine, per quanto commovente, è quello che lo vede fermo al binario a salutare la figlia in partenza per la Russia con un’enorme scatola trasparente a racchiudere un’orchidea: “cosa fare di quell’oggetto fragile e ingombrante per sessantadue ore e, in particolare al cambio alla frontiera sovietica?”. Sibylle se ne libererà. Contenta però, e compiaciuta, per quel regalo improvvisato e fuoriluogo. Entrambe avrebbero avuto bisogno di attenzioni quotidiane, cure domestiche e di un luogo sicuro; entrambe sono andate incontro all’abbandono.