U n tardo pomeriggio di novembre, dopo il lavoro, esco di casa e m’incammino verso un piccolo spazio teatrale per partecipare a uno spettacolo. Il titolo dello spettacolo, ideato da Giacomo Lilliù con la curatela drammaturgica di Pier Lorenzo Pisano, è “Teatropostaggio”. Il termine nasce da un incontro tra “teatro” e “postaggio”, storpiatura di “postare” che allude all’uso dei meme su Internet. Lo spettacolo è in programma alle sei del pomeriggio. A quell’ora mi trovo di solito in un deprecabile stato di disarmonia e annebbiamento. Sono appannato, affaticato, prostrato. Mi sento uno straccio. Per recuperare devo camminare all’aria aperta, entrare in un bar e bermi un bicchiere di vino. Il vino restituisce al mio povero cervello un poco di brillantezza ed elasticità.
Lo spettacolo era tutto lì, su Telegram.
La mia giornata lavorativa, soprattutto a partire dalla pandemia, si svolge tutta da casa. Inizia piuttosto presto. Faccio colazione ascoltando la radio, mi vesto, mi accomodo sul divano e accendo il computer. Mi occupo di più progetti per diversi datori di lavoro. Mando un certo numero di email e rispondo ad altre email, scrivo testi, eseguo ricerche su Internet. Fra i testi rientrano anche i messaggi destinati ai gruppi WhatsApp con i colleghi di questo o quel progetto. Anche i brevi testi per i gruppi WhatsApp sono una parte di lavoro. Poi mi collego a una riunione su Zoom. Una volta scollegato, ascolto un file audio o guardo una clip annotando su un documento i time code di entrata e di uscita. Nel frattempo rispondo a un test Captcha, digito password e codici OTP, clicco qua e là “accetta” per sbloccare una pagina. Tempo fa mi sono imbattuto per la prima volta in un test Captcha in versione audio. Per certificare di non essere un robot, dovevo riconoscere una serie di numeri e lettere dell’alfabeto pronunciati in mezzo a un rumore di fondo che somigliava a quello di una grande stazione ferroviaria.
Insomma, passo le mie giornate a svolgere le stesse operazioni che svolgono molte altre persone nel mondo, ma nel mio caso in solitudine. Nel lavoro in solitudine il semplice gesto di trascinare un file da una cartella all’altra può innescare un’epifania e intensificare la percezione del proprio isolamento. Da una parte il cervello è iperstimolato e vaga in un labirinto di segnali, dall’altra il corpo, scisso e dimenticato, giace in una condizione di apatia e stasi. Anche per queste ragioni ho vissuto con disagio i primi minuti di “Teatropostaggio”. Forse non era la catarsi di cui avevano bisogno il mio corpo e il mio sistema nervoso dopo otto ore passate davanti a file e cartelle sparse su uno schermo. Poi mano a mano mi sono ricreduto e in “Teatropostaggio” ho riconosciuto quel particolare godimento, quel moto sentimentale che si prova a volte entrando in Internet e nel puro abbandonarsi a Internet.
Forse non era la catarsi di cui avevano bisogno il mio corpo e il mio sistema nervoso dopo otto ore passate davanti a file e cartelle sparse su uno schermo. Poi mano a mano mi sono ricreduto.
“Teatropostaggio” si è tenuto negli spazi dell’associazione culturale Zona K, a Milano. Il pubblico, quello in presenza, era composto da una decina di persone. Ci siamo seduti sulle seggioline di legno disposte nel corridoio che fa da foyer, mentre gli attori si trovavano in scena, al di là di una porta di metallo. Ci è stato chiesto di prendere lo smartphone e aprire la mail dove qualche giorno prima avevamo ricevuto un link alla piattaforma Zoom. Quindi abbiamo indossato le cuffie e abbiamo partecipato a una formazione su Zoom di una decina di minuti.
Una ragazza con una montatura da vista in metallo, seduta dietro una scrivania, ci ha istruito sulle procedure e il da farsi, quindi abbiamo ricevuto un link Telegram. Lo spettacolo era tutto lì, su Telegram. Un altro centinaio di persone assistevano a “Teatropostaggio” da casa, con i loro smartphone. Ero convinto che solo un pezzo dello spettacolo sarebbe andato in scena su Telegram, e che poi a un certo punto ci saremmo tolti gli auricolari e avremmo spento il telefono, per poi sederci finalmente in una platea, di fronte alle scenografie e agli attori in carne e ossa. Invece no. Il primo messaggio arrivato sul gruppo Telegram era quello di Giacomo Lilliù, l’ideatore di “Teatropostaggio”: “Questa è una performance teatrale su Telegram”. Secondo messaggio: “Chi scrive è l’amministratore del canale e l’ideatore del progetto”. Terzo messaggio: “Mi chiamo Giacomo, sono un regista teatrale”. Lilliù ha premesso che a lui le “nuove tecnologie” non piacciono e che la modalità di rappresentazione e fruizione che stavamo sperimentando non potevano definirsi “teatro”. Ma forse il tono era sarcastico.
Al posto della voce umana, vedevo apparire sullo schermo una riga di testo, poi un’altra riga di testo. Aspettavo l’apparizione delle lettere sullo schermo con un filo di trepidazione, come quando si chatta con qualcuno che ci piace e restiamo lì appesi, in attesa della sua parola. L’ingresso in scena del regista è avvenuto in modo informale, ironico, diretto, trasparente, come se fossimo su Internet. E in effetti eravamo su Internet, anche se tutta l’operazione si presentava come un lavoro teatrale. Mano a mano arrivavano sullo schermo le notifiche di chi si stava unendo in quel momento al gruppo, ovvero gli altri spettatori, quelli un po’ più ritardatari. Poco dopo essersi presentato, il regista ha postato una foto, una foto dove era in mutande. Si è scusato. Ha detto che si era sbagliato a selezionare la foto dalla gallery del telefono. Insomma aveva fatto una gaffe, proprio come succede, a volte, quando chattiamo. La gaffe era parte del copione ed era un modo, suppongo, per aderire al registro comico della vita on line, per riprodurlo, comprese goffaggini ed equivoci.
Aspettavo l’apparizione delle lettere sullo schermo con un filo di trepidazione, come quando si chatta con qualcuno che ci piace e restiamo lì appesi, in attesa della sua parola.
Poi il regista ha annunciato che lo spettacolo a cui avremmo assistito da lì a breve sarebbe stato un adattamento della “Trilogia della villeggiatura”. La “Trilogia della villeggiatura” era stata preferita a “La tempesta” di William Shakespeare, scartata perché troppo impegnativa. Sul momento il titolo “Trilogia della villeggiatura” è risuonato nelle mie orecchie con un accento fresco e pop. Perfino tondelliano. Ho pensato che potesse trattarsi di una legittima fantasia partorita dalla mente di un trentenne, nato e cresciuto dentro il prisma colorato di Internet. Errore. In realtà, come mi ha fatto notare Mario, un amico incontrato per caso tra il pubblico, “Trilogia della villeggiatura” è un classico del teatro. Mi sono tolto le cuffie, mi sono voltato verso Mario e gli ho rivolto il gesto delle mani raccolte “a tulipano”, il gesto della “ipotiposi digito-interrogativa” descritto nel Pasticciaccio da Carlo Emilio Gadda. Mario allora ridacchiando mi ha sussurrato: “Goldoni, Goldoni… è una commedia di Goldoni”. “La trilogia della villeggiatura”, insomma, è un ciclo di commedie di Carlo Goldoni (vennero rappresentate per la prima volta nell’autunno 1761, a Venezia, sul palcoscenico del Teatro San Luca).
Attori ed attrici continuavano a recitare, ma le immagini dello spettacolo venivano prese, usate e trasformate in meme. E i meme trollavano gli attori, il teatro e Goldoni.
Dopo l’annuncio è iniziato lo spettacolo. Abbiamo visto apparire i primi post con foto, video e GIF. Erano foto, video e GIF di quanto stava andando in scena oltre la porta, con gli attori e le attrici in parrucca settecentesca. Ma poco dopo, sorpresa, hanno fatto irruzione in chat alcuni disturbatori che hanno cominciato a memare le foto di “Trilogia della villeggiatura”. Lo spettacolo ha preso una china e un’accelerazione imprevista. È diventato un vortice, una spirale memetica. La messa in scena è stata interrotta. O meglio, attori ed attrici continuavano a recitare, ma le immagini dello spettacolo venivano prese, usate e trasformate in meme. E i meme trollavano gli attori, il teatro e Goldoni. I molestatori erano cinque celebri e geniali memer italiani: Giulio Armeni (Filosofia Coatta), Davide Palandri (Affermazioni), Piastrelle sexy, Daniele Zinni (Inchiestagram), Loren Zonardo (Merdapostaggio).
Giacomo Lilliù è nato ad Osimo, in provincia di Ancona, ha studiato presso la Scuola del Teatro Stabile delle Marche e poi alla LAMDA (London Academy of Music and Dramatic Arts). Pier Lorenzo Pisano è nato a Napoli, si è diplomato in regia al Centro Sperimentale di Roma ed è autore del romanzo “Il buio non fa paura”, definito “una favola nera” sul sito di NN Editore. Ci siamo sentiti per telefono e via email. Lilliù mi ha raccontato di essere un fan dei meme e di aver apprezzato in passato il profilo di un artista finalandese, Jaakko Pallasvuo, ovvero @avocado_ibuprofen. “Teatropostaggio” è probabilmente il primo tentativo italiano di combinare il linguaggio dei meme con quello del teatro . È nato con la fellowship del Network FONDO del Festival di Santarcangelo e grazie al programma Residenze Digitali. Pisano ha pensato alla “Trilogia della villeggiatura” per la sua immediata leggibilità. “Goldoni”, dice Lilliù, “è uno degli autori più istituzionali che ci siano. Se il progetto si basa su un deragliamento del discorso, bisogna avere un mezzo da schiantare. Ed è anche divertente innescare una sorta di rivincita delle dinamiche anarchiche sulla visione goldoniana e l’irreggimentazione della Commedia dell’Arte”.
Non è la prima volta che la tradizione teatrale viene maltrattata e smontata, ma in questo caso accade qualcosa di diverso: è “shitpostata”. “Le parti più fisse a livello di testo sono l’inizio e la fine”, dice Lilliù, “i meme sono pensati e postati praticamente live, non potrebbe essere altrimenti. C’è ovviamente una cabina di regia, parallelamente alla performance, che organizza il flusso di chi posta in modo da evitare accavallamenti e rispettare gli snodi del canovaccio, ma è uno strumento di orientamento più che di controllo”. Carlo Goldoni è la cornice. Dentro la cornice precipita la cascata dei meme realizzati sul momento da Filosofia Coatta, Piastrelle sexy e gli altri memer.
La cornice è l’espediente drammatico che offre un minimo di unità aristotelica, se non di spazio o di tempo, quantomeno di azione. Nel nostro caso è Goldoni su Telegram. La cornice ovviamente ci interessa solo nella misura in cui la possiamo forzare e infine infrangere. Con “cascata” invece intendiamo la modalità propria di certo shitposting. La cascata avviene quando i contenuti arrivano a un ritmo crescente, quando non c’è più neanche l’intenzione di leggere quanto è appena arrivato, ma solo di contribuire al caos con un nuovo messaggio. Attraverso lo shitposting la conversazione continua a deragliare.
Il quadro descritto da Giacomo mi ricorda le dinamiche di un gruppo chiuso su Facebook che frequentavo anni fa durante il Festival di Sanremo. Eravamo una trentina di amici. Tutti commentavano in diretta e postavano a grande velocità screenshot della performance di Arisa o di Boomdabash, in una corsa sul tempo a chi riusciva a formulare il commento più brillante, anche se non si trattava di una competizione vera e propria. Non aveva gli aspetti egotisti e ridicoli della competizione. In realtà avevo la sensazione di partecipare al tour de force di un cervello collettivo, all’attività di una schizoide e ironica mente alveare, grazie alla quale ogni fotogramma sanremese veniva processato e restituito in forma di battuta. Era un party per persone colte e intelligenti. Poi all’una di notte spegnevo il computer, ma mi sentivo svuotato e stordito. Pensavo perfino di averci rimesso qualche neurone in tutta quella foga di dire, scrivere e commentare.
Lo shitposting si basa su una rete unificante di significato, ma per chi shitposta l’elemento cruciale non sta nel rafforzarne le connessioni, quanto nell’allargarne il più possibile le maglie.
“È pressoché impossibile descrivere nel dettaglio tutti i layer di un meme”, mi dice Giacomo, “figuriamoci spiegare perché un meme venga scelto come risposta a un altro meme all’interno di un momento di shitposting. Lo shitposting si basa in parte su una vaghissima rete unificante di significato, una ragnatela, se vuoi, ma per chi shitposta l’elemento cruciale non sta nel rafforzare le connessioni di questa ragnatela, quanto nell’allargarne il più possibile le maglie”. Quel che Lilliù descrive deve avere a che fare con un’espressione, “nichilismo semantico”, che ho trovato menzionata sul sito di Zona K. Chiedo a Giacomo di dirmi qualcosa a proposito di un’altra frase: “Tu lo chiami schizoposting, io lo chiamo essere la Sarah Kane del digitale (Sarah Kane è stata una drammaturga inglese, morta ad appena 28 anni, suicida, nel 1999, Nda)». Si tratta, mi spiega Giacomo, di una frase presa da un meme di @lacanyewest. “@lacanyewest è una delle migliori memer che abbiamo in Italia, capace di connettere in modo vertiginoso James Joyce e i cinepanettoni. Una maestra vera. Il meme a cui ti riferisci incapsula benissimo i punti di contatto fra shitposting e certe prerogative del teatro postdrammatico. Purtroppo @lacanyewest ha cancellato il suo profilo poco prima che il progetto partisse. E, giustamente, se ha scelto di rendersi irreperibile, chi siamo noi per non rispettarlo? Ma io spero davvero in un suo ritorno <3”.
Durante “Teatropostaggio”, in un paio di occasioni gli attori sono entrati nel foyer e si sono scattati un paio di selfie insieme al pubblico per poi scomparire di nuovo dietro la porta di metallo. Le foto scattate sono finite in chat e sono diventate la base per un meme. Ho visto il mio faccione trasformato in un meme su Telegram. Ho avvertito questo salto di layer e dimensione come un sbalzo ulteriore e un motivo di disorientamento. Ero un po’ frastornato, come il Philip Seymour Hoffman del film “Synechdoche”, mentre vaga nel set di un film su un film, senza più sapere chi è e che cos’è la realtà. Alla fine dello spettacolo era previsto un incontro con gli attori, ma ero di fretta e sono dovuto scappare. Peccato. Il doomscrolling su Telegram mi aveva sfiancato, ma anche molto divertito e assorbito, non posso negarlo.
Abbandonarsi al flusso informativo di Internet, alla corrente inesauribile di stimoli e contenuti, offre un piacere inconfondibile, speciale, che nel mio caso comporta una certa dose di schizofrenia e di sarcasmo. Proverò a spiegarmi servendomi di una metafora. O ancora meglio, di un meme. Vediamo. Quando m’immergo in Internet è un po’ come se decidessi di mandare a quel paese Byung-Chul Han, un filosofo molto di moda e molto critico verso le piattaforme e la capacità delle piattaforme di rapire la nostra attenzione e trasformarci in sonnambuli. In passato ho letto e apprezzato i libri di Byung-Chul Han, così come ho letto e apprezzato altri pensatori che hanno espresso il proprio disagio nei confronti dell’azione dei social network e delle mutazioni che hanno determinato nei comportamenti dell’Homo Sapiens. Eppure, è come se scegliessi d’ignorare una serie di assunti e considerazioni, anzi di sfotterli, pur sapendo che Byung-Chul Han non ha tutti i torti quando, per esempio, afferma che lo smartphone è un “campo di lavoro digitale mobile”. Eppure…
Abbandonarsi al flusso di stimoli di Internet offre un piacere che nel mio caso comporta una certa dose di schizofrenia e di sarcasmo.
C’è un vecchio e glorioso meme che può rappresentare la mia scissione e il mio momentaneo rifiuto di Byung-Chul Han. Quel meme è il celebre “Distracted boyfriend meme”. Lo abbiamo visto tutti almeno una volta nella vita: una coppia formata da un ragazzo e una ragazza, lui in camicia a scacchi e lei in canotta celeste, camminano per strada in una bella giornata primaverile, quando al passaggio di una ragazza carina lui si volta, provocando la reazione indignata della fidanzata, che perciò lancia al suo lui un’occhiataccia. La foto era stata scattata nel 2015 in Spagna, a Girona, da un fotografo di Barcellona, tale Antonio Guillem, con lo scopo di esemplificare visivamente, in modo spiritoso, il meccanismo dell’infedeltà. Poi Guillem aveva caricato il file su Shutterstock con la didascalia: “Disloyal man walking with his girlfriend and looking amazed at another seductive girl”. Ebbene il mio rapporto con Internet, così come quello di molti altri utenti, potrebbe essere rappresentato da un’immagine simile a quella scattata dal fotografo di Barcellona. Nell’immagine un uomo passeggia per strada in una bella giornata accanto alla fidanzata, Byung-Chul Hanna, se non fosse che viene distratto dal passaggio di una ragazza davvero molto carina, una certa Internet; perciò si volta a guardare Internet, venendo però rimproverato con lo sguardo da una Byung-Chul Hanna dall’aria parecchio offesa e arrabbiata. A quel punto, che fine farà la coppia? Si lasceranno? Litigheranno per l’ennesima volta? E se l’uomo correrà dietro la gonnella di Internet e delle piattaforme, lei con chi si fidanzerà?