I l 3 febbraio 2021 Mario Draghi, economista liberale, già banchiere per Banca d’Italia, Goldman Sachs e Banca Centrale Europea, accetta l’incarico del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di formare un governo dopo la caduta del governo Conte II. Il suo compito: gestire la spesa dell’enorme finanziamento (più di 200 miliardi di euro) stanziato dall’Unione Europea. Non appena la notizia diventa pubblica è come se un segnale segreto, udibile solo da alcuni, sia suonato in tutto il paese. All’improvviso l’intero mondo del giornalismo italiano scatta in perfetta coordinazione e inizia a produrre rapidamente, uniformemente, articoli su articoli dedicati a Draghi – e non c’è altro modo di descriverli che “dedicati a Draghi”.
Non si tratta solo di testi che hanno come argomento Draghi; e nemmeno solo di testi offerti in omaggio a Draghi; si tratta anche e soprattutto di testi che hanno la funzione di segnalare la propria dedizione (Treccani: “totale offerta di sé, delle proprie energie e del proprio tempo a un fine o a una persona”) a Draghi. La parola viene dal latino deditio e significa, alla lettera, “consegna di sé”, nel senso di resa ad un vincitore, di sottomissione fiduciosa nella clemenza. Quando una comunità, tribù o regno, veniva sconfitta dall’Impero Romano o voleva evitare un conflitto, poteva scegliere di sottomettersi al potere di Roma in cambio della vita, diventando così dedita, sottomessa, e inclusa nei possedimenti imperiali. Ancora: nell’Europa del primo Medioevo la deditio consisteva nell’atto di sottomissione al re, simboleggiato dal prostrarsi nudi o vestiti solo di corda davanti al trono.
Non c’è dubbio che l’atteggiamento del giornalismo italiano nei confronti di “Super Mario” (epiteto che come nei miti non ha origine certa e accompagna Draghi quasi naturalmente) rientri con buona evidenza nella tradizione descritta sopra. La totalità del discorso pubblico italiano, quell’insieme di voci che decide ed esprime di cosa si parla nel paese, ha accolto la proposta di un governo Draghi con un’ammirazione acritica, una piaggeria e un servilismo così unanimi che a memoria è difficile trovarne verso altri politici italiani. Ogni persona in grado di scrivere su un giornale si è scoperta dedita a Draghi, chi ammettendo la propria nuova folgorante vocazione, chi svelando un amore di lunga data, chi infine (la maggioranza) offrendo questa dedizione con nonchalance, come un dato di fatto.
Le ragioni di questa dedizione sono facilmente intuibili: il governo Draghi s’aveva da fare, e in fretta, e l’uomo non ha nessuna legittimazione politica né ha un posto nell’immaginario italiano. Nel 2020 le sue uscite pubbliche si limitano alla pubblicazione di due articoli (uno in inglese, sul Financial Times, poi tradotto in italiano), e il suo unico momento di fama vera e propria fu il giuramento di fare “tutto il necessario” per assicurare la stabilità finanziaria dell’UE nel 2012. Occorre costruire un consenso sulla sua persona, e per fare questo occorre costruire la sua persona pubblica. Tenuto conto della spettacolarizzazione totale della politica, questo equivale in parte a costruire la sua persona tout court.
Occorre costruire un consenso, e per fare questo occorre costruire la persona pubblica. Tenuto conto della spettacolarizzazione totale della politica, questo equivale a costruire la persona tout court.
Gli esponenti dei partiti hanno pure messo in pratica un rituale simile ma in modo diverso. Oltre alla prevedibile disponibilità di tutto l’arco parlamentare a fare parte, sostenere o collaborare con il futuro governo, i vari politici segnalano la propria compatibilità con il “progetto Draghi” (o la propria appetibilità) nei modi più vari: chi se ne dichiara da sempre ammiratore, chi ne riconosce le indubbie qualità, chi rinnega comicamente le proprie posizioni di ieri, chi cerca di assicurare al proprio elettorato che non c’è altra scelta che salire di corsa sul carro del vincitore.
A ben guardare, questa dedizione partitica non potrebbe esistere senza la dedizione giornalistica: per un politico sarebbe difficile, e imbarazzante, appoggiare Draghi senza una storia che giustifichi o almeno contestualizzi questa scelta. Non si può offrire la propria dedizione al vuoto – non si può dire “offro il mio servizio a un banchiere non eletto dagli italiani” (per usare un’espressione del nostro tempo). Più facile è collaborare con un “professore”, un “uomo buono”, un “gentiluomo”, uno che ama i cani e i frutti di mare, insomma una persona con un’identità e non un funzionario anonimo. Proviamo quindi a lasciare altrove l’analisi di come e perché Draghi sia diventato il vincitore (riassumibile nel fatto che la BCE vuole controllare il proprio investimento da vicino), e concentriamoci invece sull’incredibile accoglienza che ha ricevuto da parte del discorso pubblico italiano. Draghi ha già il potere sostanziale: nessuno, tranne pochi irriducibili, mette in dubbio il suo diritto al comando. Il discorso pubblico ha la funzione di aiutarlo a legittimare formalmente questo potere, e a rafforzarlo: l’autorità nata dai rapporti di forza non ha bisogno del consenso, ma senza consenso è possibile che cambino i rapporti di forza. Siamo nella situazione apparentemente contraddittoria in cui un potere che non ha bisogno di legittimazione esterna si trova ad avere un bisogno disperato di legittimazione.
Dall’analisi delle parole spese attorno a un evento è spesso possibile capire qualcosa di più su quell’evento, e se c’è qualcosa che non è mancato in questa storia sono le parole. Ho raccolto una serie di testi e dichiarazioni prodotte da giornalisti e politici italiani, e li ho divisi secondo tre categorie: religione/mito, razionalità e uomo comune/sentimenti. La costruzione della persona, o quel che è lo stesso del personaggio di Mario Draghi si basa su diverse narrazioni che, combinate, ci rendono un’immagine viva e relatable. Per l’abbondanza delle fonti e anche per dare conto della portata del fenomeno mi sono limitato a raccogliere materiale dai maggiori e più rispettati canali di informazione. Il lasso temporale è quello dei giorni a cavallo della formazione del governo, tra esaltazione a priori e celebrazione dell’avvento, quando la dedizione era più nuova e intensa.
Mito
La prima legittimazione dell’autorità deriva spesso dal suo accesso a una realtà superiore a quella fisica che noi comuni mortali abitiamo: capi tribali, sciamani e guerrieri; califfi che agiscono per ordine di Dio stesso; il Papa senza cui l’Impero è impensabile; e poi re taumaturghi, re etruschi e latini che leggono il futuro nelle viscere e nel volo degli uccelli, comandanti guidati alla vittoria dagli angeli, aristocratici nati sotto stelle fortunate o visitati in culla da aquile o api; e molti altri. Mario Draghi partecipa a questa illustre schiera fin dal suo stesso nome. Come ogni Mario famoso non può innanzitutto sfuggire all’appellativo di Super Mario; traducendo dal latino (sŭpĕr, aggettivo, I classe) alla lettera Mario il Superiore, e per estensione Mario il Celestiale, anche se chiaramente il riferimento è altrove. Non si può negare che i videogiochi facciano però parte dell’epica contemporanea, e Super Mario è di certo un eroe: ha una nobile missione, non si arrende mai, affronta nemici e sfide sempre più dure, e in più è un lavoratore e un italiano famoso nel mondo. Un buon inizio per costruire l’identità del prossimo uomo alla guida del Paese. Tra l’altro, come per gli eroi del mito, nessuno saprebbe dire quando e come e chi per la prima volta ha attribuito questo epiteto a Draghi: in quei giorni è stata ANSA a tirarlo fuori per prima (3 febbraio), ma tutti l’avevamo già sentito in passato. Non sono riuscito a ricostruire la genesi di questo primo mattone narrativo, e anche questo mistero è una forma di potere. Si può addirittura ipotizzare che “Super Mario” non sia tanto un nome o epiteto personale quanto un titolo onorifico che viene attribuito ai Presidenti del Consiglio dei governi tecnici, dato che anche Mario Monti ne venne insignito (pur con meno enfasi e successo). La cosa avrebbe diversi precedenti: il più famoso è certo la trasformazione di Caesar da nome proprio ad appellativo del sovrano, Kaiser o Czar.
Siamo nella situazione apparentemente contraddittoria in cui un potere che non ha bisogno di legittimazione esterna si trova ad avere un bisogno disperato di legittimazione.
Anche il cognome evoca potere e mistero. Creature mitologiche, custodi della sapienza nel mito cinese, dell’oro nelle leggende norrene, simboli del diavolo nell’iconografia cristiana, la loro comparsa annuncia cambiamenti epocali (addirittura in certi casi la fine del mondo). Curiosamente anche il boss finale di Super Mario è un drago, ma non so come giudicare questa coincidenza. Tuttavia i giornali al mito preferiscono la sua versione commerciale, il fantasy: “Draghi si scopre Dracarys”, titola un articolo di Repubblica (5 febbraio), che a dire il vero rende conto pure abbastanza bene dell’”ondata memetica” che accompagna l’incarico di formare un governo (la piaga del titolismo creativo meriterebbe uno spazio a sé). Giustamente l’autore segnala che “con le sue visioni immediate e semplificate, l’immaginario è una scorciatoia potente per la costruzione del senso”; ma attribuisce questa operazione a quella “turba selvaggia, assatanata di odio e di spettacolo, insieme manipolabile e truffaldina” che è il “pubblico italiano” – non accorgendosi del ruolo che il giornalismo professionale ha in questa costruzione del senso.
Immaginario che però non è meno ardito: Panorama (10 febbraio) incolla la faccia del banchiere sul corpo di Goku, dal manga di Akira Toriyama (in versione bambino forse per non rendere il risultato minaccioso), con tanto di titolo “Dragon Force” e Sfere del Drago sullo sfondo, forse ad intendere che il futuro Presidente del Consiglio non è solo in grado di salvare il mondo o l’Italia, ma può avverare magicamente i desideri evocando Shenron.
La mistica del cognome prende una deriva surreale infine per iniziativa di un Movimento Spontaneo Cittadino Draghi Presidente (ovviamente “né di destra né di sinistra”), che il 3 febbraio manifesta il proprio sostegno davanti al Quirinale dichiarando con completa serietà “noi siamo i draghetti e saremo sempre di più e tantissimi, e sempre più organizzati”. Resta il fatto che i “draghetti” professano di credere “fermamente nelle qualità uniche di quest’uomo che ha già salvato l’Italia”. Non stupisce che da queste premesse Mario Draghi diventi una figura messianica: “quest’uomo così mite mi è apparso come un Cristo”, mette sobriamente le mani avanti già il 5 febbraio il Presidente della Regione Campania De Luca. Più a nord il Corriere del Veneto va a scovare in provincia di Venezia la figlia della governante di Villa Draghi che conobbe il Mario ragazzo, e trasforma la sua prudente opinione “tutti dicono che salverà l’Italia” (nell’articolo) in un profetico “So che ci salverà” (nel titolo), in un bell’esempio di titolismo creativo e di come la dedizione non si faccia imbarazzare dalla realtà (6 febbraio). Il TG2 del 13 febbraio del resto commenta il giuramento del governo annunciando l’inizio dell’“era Draghi”. Intanto è già stata registrata la sua prima apparizione in sogno, a Luciano Duchi, ex presidente del Circolo Dopolavoro Bancario di Roma che racconta su Facebook di aver parlato con lui di corse podistiche durante una visione notturna (5 febbraio).
Se non proprio un redentore si tratta comunque almeno di un santo, un uomo senza una crepa “nella sua vita intemerata”, “una persona che ti viene voglia di chiamare personalità, per quel sorriso quasi angelico, (…) affabile ma inafferrabile”, che “ci riporta sulla retta via”, che “ci ha di colpo risvegliato il cuore, diradato il grigiore dei giorni, consentito una speranza” (Repubblica, 5 febbraio). Non potrebbe essere altrimenti per un cattolico devoto a Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’Ordine dei Gesuiti – presso cui, tengono a precisare tutti, ha frequentato le scuole superiori con ottimi risultati. Aver “studiato dai Gesuiti” non è solo aver fatto le scuole dai preti: è un’educazione sacra che ha valore intrinseco e che ha messo in contatto il “saggio amministratore ‘costruttore’ che nelle sacre stanze piace sempre” (Il Foglio, 4 febbraio) con dei Valori Superiori come “onestà e bene comune” (ANSA, 6 febbraio) ma anche con una rete internazionale che si immagina un po’ misteriosa. I Gesuiti sono infatti stati per secoli agenti internazionali del potere papale, con missioni e avamposti in tutto il mondo, infiltrati come spie alla corte dei re e come osservatori in terre pagane dove europei e cristiani erano pochi o assenti. Si può certo pensare a Draghi come a un emissario della Santa Banca Centrale Europea mandato a predicare ai pagani, e con buoni risultati: “Salvini convertito all’UE, “Di Maio si converte sulla via di Draghi”, “Bagnai si converte all’euro”, titolano variamente diversi giornali. L’Espresso si permette di dubitare e la definisce una “Mission Impossible” (copertina, 5 febbraio), sfiorando però il millenarismo qualche giorno dopo con un editoriale intitolato “Mario Draghi, l’ultima possibilità”, a metà tra la fine dei giorni e il catalogo Urania.
Tornando sulla Terra, Elsa Fornero sulla Stampa preferisce tenersi alla larga da paragoni eccessivi limitandosi a far notare la somiglianza con Mandela: “l’unità del Paese fu la richiesta che Nelson Mandela fece al Sud Africa dopo l’abolizione dell’apartheid. L’appello di Draghi (…) mostra la sua attitudine a svolgere un ruolo di alto profilo politico”. Non esattamente espressione di un approccio mitico/religioso infine la rivelazione dell’enigmista Bartezzaghi (unico a permettersi dell’ironia tra tutte le fonti raccolte), che ci informa che “le lettere di ‘transizione ecologica’ [nuovo ministero nominato dal governo Draghi] sono le stesse di ‘sognatori eccezionali’. Come opporsi, allora? Andrà tutto bene”.
Ragione
Un buon capo non può essere solo un uomo della Provvidenza. Deve essere anche un uomo con un piano, o almeno uno in grado di concepire un piano. L’onestà e l’attenzione al bene comune imparate grazie alla sacra educazione gesuita non sono solo qualità mitico/religiose ma anche una qualifica di affidabilità concreta. Ma non basta: ci vuole molto di più per convincere un pubblico esigente, e comunque “onestà” è già la parola-simbolo del Movimento 5 Stelle. Al Draghi sciamano/redentore bisogna affiancare un Draghi razionale; non solo leader spirituale ma amministratore autorevole. La sua “ottima pagella” dei tempi del liceo (ANSA, 3 febbraio) è un buon inizio, ma vale la pena di notare soprattutto l’attenzione che tutte le fonti riservano alla sua bravura in matematica. Che Draghi abbia passato la vita ai massimi livelli della finanza è già abbondantemente noto ma non è sufficiente garanzia di affidabilità e nemmeno di simpatia: “finanza” e “mercati” sono campi semantici ostili e poco amati dal pubblico, e quindi conviene metterla sul piano meno minaccioso della materia scolastica. Restando nell’ambito scolastico, Repubblica scrive che “nella zuffa da cortile piomba il preside: arriva Mario Draghi”, pronto a sferrare “un [sic] scappellotto fortissimo all’intera classe politica” provocando “sorpresa, sconcerto, sollievo” (3 febbraio).
Un buon capo non può essere solo un uomo della Provvidenza. Deve essere anche un uomo con un piano.
Il suo metodo si basa su “dialogo, leadership e competenza”(Eco di Bergamo, 5 febbraio), e nonostante ci venga assicurato che sappia essere cordiale si spinge molto sull’ineluttabilità del suo dominio, che si esprime soprattutto nei dettagli. Draghi è un buon capo prima di tutto perché è diverso dagli altri: da noi che comanda e dagli altri politici che si appresta a sostituire. “Strano perché normale: Mario il gentleman inafferrabile” titola un articolo di Repubblica (5 febbraio), in cui si loda “l’aria da gentleman affabile ma inafferrabile, la distanza educata, con una moglie di gran classe che non parla neppure se non interrogata come fanno tutti gli altri”, una dichiarazione d’amore allo status quo come stato d’animo che tradisce nostalgia per quando il potere stava in mano a chi spettava per diritto di nascita. È “un ‘tecnico’, che orrore, non insulta, non schernisce, non abbaia, non dice parolacce, non risponde alle domande inutili”, algido, distante, quasi marziale, non certo “uno di quei brutti giovanotti che rendono i talk show inguardabili”.
Mario Draghi ha classe, ovvero è classe, dirigente per la precisione, e questo va chiarito. In una lunga intervista Repubblica raccoglie la dedizione della proprietaria di un albergo dove lui e la moglie (ancora “una signora elegante, sobria, di grande classe”) sono andati in vacanza anni fa: “Draghi e la moglie rappresentano i clienti ideali. Signori veri non come quei caciaroni nei quali, ogni tanto, soprattutto ad agosto, è più facile imbattersi”. Poco dopo si nomina Di Maio, ed è ben chiaro che come Draghi cliente è superiore ai ‘caciaroni d’agosto’, Draghi politico è superiore ai ‘caciaroni della politica’, e per gli stessi motivi: è un “signore vero”, che sa comportarsi in società come in Parlamento. Il sollievo è più per il mancato danno d’immagine che per altri più immediati motivi: “per l’Italia sarà un onore essere rappresentati da lui. Ad ottobre ci sarà il G20. Chi meglio di lui avrebbe potuto farlo. Insomma basta fare qualche paragone. Con chi ci saremmo presentati? (…) Draghi, proprio per la sua preparazione e competenza, certo non può essere paragonato, faccio un esempio a Di Maio”. L’equazione ‘cliente ideale = signore vero = guida del paese’ suonerebbe forse un po’ eccessiva se fosse satira, con una troppo evidente identificazione dell’appartenenza di classe con qualità morali e capacità politiche. Giusto Balzac, Mann o Joseph Roth avrebbero potuto darle credibilità, ma trovare una così spontanea dichiarazione d’amore per la borghesia nel 2021 è in qualche modo tenero, oltre che spaventoso. Forse per questo ironizzare sulla costruzione della figura di Draghi è difficile (anche se c’è chi ci riesce, come il fumettista Dr. Pira): perché la realtà sembra superare l’iperbole satirica.
La distinzione di Draghi dalla massa rumorosa si esprime anche nel suo prodigioso silenzio pubblico, esemplificato dalla sua assenza dai social network che viene esibita a reti unificate come certificato di adeguatezza a guidare un governo. ‘Non posta foto in costume, è un uomo serio e quindi un buon politico’ è un ragionamento che ha alla base il postulato che esista una ‘buona politica’, buona in senso neutro e oggettivo, e che chi la pratica abbia ragione e chi ne diverge torto: ideologia che provoca per reazione nei governati la tendenza a percepire i professionisti come tiranni, e che da questa percezione si sente legittimata a farsi più elitaria.
Il governo Draghi si presenta come un tentativo di sintesi o almeno di alleanza tra queste due tendenze, un tecnico puro insieme ai maggiori partiti populisti italiani. Non potendo spingere troppo sui trascorsi in BCE o Goldman Sachs e sulle competenze professionali, la sua diversità dai ‘caciaroni’ si esprime molto a livello estetico, di stile. Lo si apprezza per quelle “poche parole misurate che i politici non sanno più dire” (Repubblica, 6 febbraio), dato che “dinanzi alla più drammatica crisi di sistema degli ultimi anni, quel che marca la differenza è di nuovo la semantica” e che “sapere serve, alla prova dei fatti comanda”. Si precisa che questo scomode verità vanno affermate contro “il coro” dei populisti nemici della competenza, che per la verità si è distinto per il suo silenzio, ma possiamo concedere che a inizio febbraio non era ancora chiara l’enormità della passione trasversale per Draghi.
Sorprende il trovare una così spontanea dichiarazione d’amore per la borghesia nel 2021.
Lo si apprezza però anche per dettagli meno evidenti ma non meno importanti, come “la riga [nella pettinatura] alla maniera tradizionale”, ovvero la scriminatura. Repubblica (10 febbraio) ci informa che “l’etimo di questa parola conduce a ‘discriminare: ‘distinguere una o più persone o cose da altre’. Non si può certo dire che all’ex banchiere centrale manchi questa dote”, la distinzione appunto. Distinzione che si rivela anche, ma solo ai più attenti, nel vestiario: apparentemente si tratta di un completo con camicia e cravatta, ma il Corriere della Sera (13 febbraio) fa notare che si tratta di un “abito nero da banchiere”, un “look rigorosamente istituzionale” (ADNKronos, 3 febbraio). Infine un filone poco battuto ma che potrebbe riservare grandi sorprese è la lotta di Draghi contro i poteri forti: Gianni Riotta su Twitter denuncia che “il poderoso PUSQ, Partito Unito Status Quo lo ostacolerà per difendere privilegi, rendite, prebende, pigrizie, ricatti” – anche se probabilmente sta parlando di pensionati, disoccupati e lavoratori dipendenti.
Umanità
Abbiamo visto finora come Mario Draghi abbia il diritto/dovere di governare, data la sua superiorità spirituale e tecnica. Ma siamo pur sempre in democrazia, e un Presidente del Consiglio non deve essere solo adatto al ruolo, ma anche (soprattutto?) espressione della volontà popolare. In altre parole, non basta che Draghi venga posto al comando, né che lo accettiamo: ci deve piacere, e mentre un redentore si venera e un professionista si rispetta, nessuna di queste due categorie suscita identificazione, basando anzi la propria identità sulla distanza e superiorità dalla massa. È l’uomo che si ama, e perché Draghi venga amato occorre che sia almeno un po’ come noi, che la sua vita sia paragonabile alla nostra. Per questo occorre raccontare la sua vita privata.
Qualcosa di simile venne tentato con Mario Monti, facendogli adottare un cane di nome Empatia in diretta TV e aprendo a nome suo un agghiacciante profilo Twitter, @Empy_Monti, il cui primo tweet provoca un imbarazzo epidermico. Bisogna ammettere che sono stati fatti dei passi avanti.
Si parte ancora una volta dall’adolescenza: Rai Radio 1 intervista in diretta (5 febbraio) un ex compagno di classe, che lo ricorda sì come “un ragazzo molto serio” e molto bravo nelle materie scientifiche, ma anche come giocatore di basket e calcio, in cui però “non eccelleva”, essendo “molto ragionatore e non irruento come giocatore”. Alla domanda del giornalista però lo paragona senza esitazione ad Agostino di Bartolomei, capitano della Roma dalla leggenda oscura, noto per i suoi silenzi, il gioco pulito, la precisione nei tiri piazzati, la finale persa contro il Liverpool nel 1984 e la morte suicida esattamente dieci anni dopo.
Restando in ambito sportivo Giancarlo Giorgetti dice che “è come Ronaldo”, mentre prima la Gazzetta (5 febbraio) e a ruota diversi altri giornali riferiscono delle sue quattro mezze maratone Roma – Ostia, della sua passione per il basket, della sua ammirazione per Totti, del suo tifare AS Roma. Viene ripescata un’intervista del 2016 a El Paìs in cui dichiara di preferire Francesco Totti (“un genio, un filosofo”) ad un’altra leggenda romanista degli anni ‘80, “Il Principe” Giuseppe Giannini, assumendo i panni familiari e rassicuranti dell’allenatore da divano. Intervistando il suo edicolante (Rai Radio 1, 5 febbraio) si apprende che Draghi passa ogni giorno in edicola, che parla spesso dei giallorossi (“come due tifosi al bar”), che preferisce il Corriere dello Sport alla Gazzetta, “è contento dell’allenatore Fonseca, gli piace perché è pacato ed educato. E poi gli piace molto anche Edin Dzeko”; che compra ogni giorno una decina di quotidiani (“una sorta di rassegna stampa”), compreso l’Herald Tribune nonostante abbia cessato di esistere con questo nome nel 2013; che sua moglie compra la Settimana Enigmistica e sudoku.
Siamo pur sempre in democrazia, e un Presidente del Consiglio non deve essere solo adatto al ruolo, ma anche espressione della volontà popolare.
Leggere il giornale e seguire il calcio sono attività che riportano l’ex presidente della BCE a un livello più terreno, anche se proprio perché così comuni non ci dicono molto sulla sua personalità. Abbiamo visto che Draghi è uno di cui si parla più che uno che parla di sè, e che questo aumenta la sua aura di mistero. Il fatto che Draghi sia totalmente non collaborativo in questo affannato character building non aiuta i suoi devoti, che sono costretti a venirsene fuori con informazioni un po’ surreali. È certo molto difficile restituire la personalità, l’intimità di qualcuno solo a partire dalla sua figura pubblica o da quello che ne dicono gli altri.
Comprensibilmente frustrati dalla mancanza di materiale, si finisce per ammassarne il più possibile. Immaginiamo di dover descrivere un amico a qualcuno che voglia sapere di che persona si tratti, non potendo però dare informazioni sulla sua vita privata, o meglio non potendo dire nulla di ciò che pensa e sente: quanto sarebbe utile o accurato un ritratto composto di cose come “guida una Golf blu del 2015” o “gioca a basket il mercoledì”?
In omaggio all’ossessione italiana per il cibo si provvede comunque a descrivere per quanto possibile i gusti culinari del futuro Presidente del Consiglio. Apprendiamo quindi che ha una passione per la pasta con i ricci di mare, piatto che ordina spesso in un ristorante di Sciacca (Agrigento). Intervistati dall’emittente locale TeleMonteKronio i gestori ci assicurano che nonostante sia “una persona molto raffinata” è anche “estremamente cordiale” verso gli avventori che lo riconoscono e lo salutano. Che uomo è uno che ama la pasta con i ricci di mare, che poi non è nemmeno un piatto così diffuso da far scattare un senso di identificazione nel pubblico? Ammettendo anche che nel tardo capitalismo l’individuo trae identità dall’essere consumatore e che la preferenza per un prodotto è percepita come un tratto caratteriale, che identità si ricava dai ricci di mare a parte quella di “persona benestante”?
Restando in ambito alimentare il Messaggero dedica un intero articolo a Draghi gastronomo, che in apertura dichiara l’intento di dimostrare che “è una persona davvero normale”: preferisce cappuccino al latte di soia e cornetto integrale, fa da solo la coda dal macellaio dove compra la carne per il brasato, d’estate cena in ristoranti di pesce al porto di Anzio. Repubblica intervista un compagno di classe degli immancabili Gesuiti che ricorda come fosse tradizione soffiarsi addosso a vicenda il ripieno dei cannoli per festeggiare i compleanni.
La costruzione del Draghi persona-davvero-normale è enormemente difficile perché come la distanza e il mistero del personaggio aiutano la costruzione del Draghi mitico e tecnico, privano quello umano della sua tridimensionalità. Il risultato finisce per ricordare un incrocio tra un personaggio di The Sims particolarmente strano e quella sorta di Facebook primitivo che era The Club su All Music nei primi 2000: a Mario piacciono i cannoli / il basket / l’AS Roma. Nessuna delle informazioni che ci vengono date è connessa ad altre informazioni. Non si forma un profilo coerente: se a Draghi i ricci di mare facessero schifo e amasse invece le cozze, non cambierebbe nulla per noi. Certo, l’essenziale è che si sappia che compie attività tipicamente umane come mangiare cibo e seguire il calcio, ma il modo in cui viene comunicato rivela tutta l’artificialità dell’operazione.
È molto difficile restituire la personalità, l’intimità di qualcuno solo a partire dalla sua figura pubblica o da quello che ne dicono gli altri.
E quindi ora sappiamo quello che la proprietaria di una pasticceria vicino ad Anzio sa di lui: secondo la signora “è molto goloso”. Sappiamo che nel 2005 ha corso una mezza maratona in 1 ora e 55 minuti, e sappiamo cosa ne pensa un giornalista di Repubblica: “un tempo che non si improvvisa”. È un fan dell’oro olimpico del basket americano Bill Bradley. Passava i compiti ai suoi compagni di classe. Aveva un buon tiro da tre. Mette più volte la stessa cravatta, a volte in occasioni importanti. Partecipa da anonimo a tornei di scacchi online.
Abbiamo testimonianze di una comicità involontaria, come questa: “Come altri podisti romani, anche io posso raccontare da vicino Draghi runner. (…) Mi capita di incontrarlo, mentre sotto gli sguardi attenti della scorta chiude il cancello di casa, si sistema il cappellino e inizia a correre. L’incedere di quel passo corto, lento e costante è lo stesso di tanti sportivi che la mattina presto escono per allenarsi. La democrazia del running” (Repubblica, 7 febbraio). Assistiamo a momenti in cui la trama della realtà sembra strapparsi e ci viene detto che vuole molto bene al suo bellissimo cane e “che chi ama gli animali così tanto, non può essere che una bella persona” (4 febbraio), secondo Wamiz, un sito dedicato agli animali domestici.
In un tentativo pressoché disperato di dirci qualcosa di vero e profondo di lui si finisce per tornare alla mistica, a parlare del suo segno zodiacale (vergine) e già che ci siamo pure di quello dei suoi ministri (è un governo a trazione gemelli, ce ne sono ben sei, chissà se saranno irrequieti e ameranno raccogliere informazioni preziose e versatili come suggerisce l’oroscopo).
Creare il lato umano di Draghi si rivela impossibile, e lo sforzo produce invece l’opposto, come tutte le volte che i PR di un membro dell’élite cercano di farlo passare per uno del popolo sotto elezioni. Quello che rende questo caso speciale è che a Mario Draghi non sembra importare del gioco: non si mette in posa con un gelato in mano, non visita case e non solleva neonati, non cerca di azzeccare il prezzo di un litro di latte. Spero che la lezione da ricavare da questo circo non sia che l’autorità nel nostro nuovo presente non abbia più bisogno nemmeno del consenso cosmetico di cui ha goduto finora, e che abbandonata anche la sua funzione di intrattenimento non resti che quella di potere sovrano.
Futuro
Una delle caratteristiche del nostro presente è la sua interminabile estensione, nel prima e nel dopo. Maggio è tra venti giorni, ma marzo scorso sembra finito ieri. Pochi riescono ad immaginare un futuro diverso dal presente, e il concetto stesso di futuro diventa quasi estraneo (Mark Fisher: “il tempo culturale si è ripiegato su se stesso, e la sensazione di sviluppo lineare ha ceduto il passo a una bizzarra simultaneità”). La vita viene vissuta sotto forma di costante emergenza, in cui occorre fare scelte immediate che non consentono una pianificazione.
Quando nessuno riesce più a immaginare un futuro, anche un futuro orribile è qualcosa a cui aggrapparsi.
L’enorme prestito concesso dall’Unione Europea all’Italia è un raro esempio di investimento sul futuro di questo Paese, ed è evidente che questo governo abbia la sola funzione di indirizzare questo investimento verso le sue sedi appropriate. Visto il curriculum del nuovo Presidente del Consiglio e dei suoi ministri è legittimo aspettarsi “forte sostegno alle imprese” (soldi a Confindustria), “liberalizzazione del mercato del lavoro” (sblocco dei licenziamenti, contratti più flessibili), “taglio degli sprechi” (revoca di sussidi e reddito di cittadinanza); il tutto da ripagarsi con privatizzazioni e tagli ai servizi pubblici. Non è semplificazione o populismo dire ciò: è il modello egemone in Europa, già visto all’opera dai primi anni ‘90 e diventato dogma dal 2008. Draghi stesso gestì da direttore generale del Ministero del Tesoro (1991 – 2001) le massicce privatizzazioni di società pubbliche richieste per l’accesso alla moneta comune europea. Tutti lo sappiamo. Tutto questo deve essere in qualche modo legittimato, almeno a livello di percezione. L’affannata costruzione del consenso di questi giorni non ha altro motivo, e tutti lo sanno, e pochi ne parlano, e non potrebbe funzionare se non ci fosse da parte del pubblico la volontà di crederci. Tanto è il desiderio che le cose vadano anche solo non catastroficamente, o che comunque ci sia un piano per affrontare la catastrofe annunciata, che può andare bene anche un banchiere che non fa nemmeno finta di volerci piacere.
Si è detto in apertura che un’autorità non basata sul consenso ha comunque bisogno del consenso per mantenere i rapporti di forza che l’hanno resa possibile. Forse quello che fa davvero paura è la sensazione che Mario Draghi, con quello che rappresenta, verrebbe accettato e approvato anche senza lo sforzo e la dedizione della stampa italiana: semplicemente per il fatto di avere, per quanto sgradevole, un piano. Quando nessuno riesce più a immaginare un futuro, anche un futuro orribile è qualcosa a cui aggrapparsi.