È difficile immaginare un termine più vago di “contenuto”, una parola che funziona come un passe-partout con cui è possibile indicare praticamente tutto, dal tweet di uno sconosciuto all’Ulisse di Joyce. Eppure, malgrado la sua vacuità, il termine si è imposto in molti settori, spesso nell’inglese “content”. Lo usano i social media manager e i copywriter ma anche, ormai, i giornalisti; è nella bocca dei filmmaker ed è essenziale ai content creator, che gli devono il nome. Duttile e camaleontica, la parola risulta perfetta per il momento sconvolgente che sta vivendo la produzione culturale.
Secondo l’Enciclopedia Treccani – la quale è a sua volta content, a ben guardare – con contenuto si indica “ciò che è contenuto in qualche cosa”, oppure, più precisamente: “di uno scritto, di una comunicazione in genere, l’argomento, il soggetto, la materia”. A seconda del contesto, può essere usata come sinonimo di sostanza, con accezione positiva (ad esempio: “Luigi ha fatto un discorso di contenuto”). Negli ultimi anni, però, un processo di erosione semantica ci consegna una cornice modesta e neutra: un contenuto che si fa inaspettatamente tara, pronta a raccogliere qualsiasi oggetto culturale.
La parola content viene dal marketing, settore famigerato per il gergo specializzato e una certa dipendenza dagli anglicismi. Engagement, post, schedule, back-end, ad e thumbnail sono solo lo strato superficiale di un humus gergale ricco di tecnicismi e in continua evoluzione. Tra tutti i termini e neologismi possibili, però, il settore sembra aver puntato proprio su questo termine così “normale”. Umile.
Secondo il dizionario di marketing curato da Hubspot, un servizio digitale di gestione delle vendite e della promozione, per content si intende qualsiasi “pezzo di informazione che esiste con lo scopo di essere digested (non letteralmente), engaged e shared”. Tale oggetto “assume di solito la forma di un blog, video, post di social media, foto, slideshow o podcast, anche se ne esistono di altri tipi”. Nemmeno questa definizione tecnica riesce a scrollarsi di dosso il dovere di elencare tutte le possibili manifestazioni del content, che si conferma un’immagine difficile da mettere a fuoco.
Il motivo di questa ambiguità è quello a cui alludono anche gli autori della voce stessa: tutto è content, e tutto può diventarlo. Per questo è un termine perfetto per l’ambito pubblicitario-comunicativo, dove i “creativi” devono interagire con il lato corporate, più freddo e calcolatore. Content è una parola buona per i calcoli, la ragioneria; il suo habitat naturale sono le slide di Powerpoint – o una fattura.
La parola content viene dal marketing, settore famigerato per il gergo specializzato e una certa dipendenza dagli anglicismi.
Secondo Valerio Bassan, consulente strategico editoriale e autore di una newsletter sui media, Ellissi, c’è un’altra ragione del successo settoriale della parola: “In Italia, il termine contenuto nasce e si diffonde prima di tutto tra i marketer, parallelamente all’idea che ogni azienda debba per forza ‘diventare una media company’”. Insomma, la parola risulta preziosa quando si vuole costruire un ponte tra il marketing, la finanza, l’imprenditoria e il mondo culturale. Il Contenuto è quindi il mattone fondamentale della monetizzazione della cultura, un concetto in cui sono i numeri – non “le belle parole” – a contare.
Lo scorso marzo il mensile americano Harper’s ha pubblicato un elogio di Federico Fellini scritto da Martin Scorsese. L’articolo, intitolato “Il Maestro”, è un omaggio al regista italiano oltre che una dura riflessione sullo stato del cinema d’oggi. A preoccupare Scorsese è proprio il ruolo prevaricante assunto dal marketing in questo settore: “L’arte del cinema”, scrive, “è stata sistematicamente svalutata, intralciata, umiliata e ridotta al suo minimo comune denominatore: il ‘content’.” Una parola che “non [è] legata all’esperienza teatrale ma alla visione da casa, nelle piattaforme di streaming, che hanno completamente surclassato l’esperienza dell’andare al cinema”.
L’egemonia raggiunta dal marketing rispetto alla cultura è un evento recente, anche se non è semplice definire un preciso punto di svolta. Secondo Scorsese, la trasformazione sarebbe avvenuta nel corso degli “ultimi quindici anni”, per esempio. Comunque sia, il content si è imposto in un periodo di profonda crisi per il giornalismo e l’industria culturale in un contesto turbolento nel quale il settore culturale ha perso smalto, potere e indipendenza, venendo costretto a cercare nuove forme di sostentamento sempre più ibride. Ad aprirsi al marketing.
Nel frattempo il settore dei media – e, inevitabilmente, il mondo – veniva scosso da rivoluzioni tecnologiche come la diffusione di internet, dei social network e degli smartphone, il triumvirato che ha posto fine all’ancien régime. Anche la digitalizzazione ha aiutato a rendere la parola così importante e cruciale: “content” è gergo da macchine. Da algoritmi. Un termine perfetto se si vuole indicare un determinato elemento multimediale, ben sapendo che al pezzo di latta poco importa se sia un articolo di cronaca, un tweet, una foto, un complesso longform interattivo o un TikTok. O ancora un podcast, uno screenshot, un file in pdf, un poema in turco. Agli occhi della macchine tutto è content. Per questo usiamo quella parola: per farci capire dai computer, andando incontro alle loro esigenze – e sperando che questi ricambino i nostri sforzi linguistici con una buona reach.
Il content si è imposto in un periodo di profonda crisi per il giornalismo e l’industria culturale, nel quale il settore culturale è stato costretto a cercare nuove forme di sostentamento sempre più ibride.
Non è una novità. La cultura è da sempre stata influenzata, in qualche modo causata, dal progresso tecnologico. Ciascuna innovazione ha però indici di permeabilità diversi: la stampa a caratteri mobili di Gutenberg, ad esempio, non era un affare tascabile, luminoso, carico di sensori e cookies pronti a raccogliere informazioni sui suoi utenti. Il legame tra uomo e interfaccia si è fatto più problematico e intimo negli ultimi anni, cambiando non solo il processo culturale ma anche i risultati finali: la cultura stessa. Lev Manovich, autore de Il linguaggio dei nuovi Media (in Italia edito da Edizioni Olivares, 2011) se lo domandava nell’ormai lontano 2002: “Se l’interfaccia uomo-computer diventa un codice semiotico essenziale per la società delle informazioni, come incide tutto questo sul funzionamento degli oggetti culturali e delle creazioni artistiche?”
Tra i cortocircuiti più vistosi di questa fusione tra produzione culturale e tecnologia, possiamo citare quello del sito medium.com, fondato nel 2012 da Ev Williams (già co-fondatore di Blogger e Twitter) con l’obiettivo di offrire una piattaforma per i contenuti scritti nel web. Nel corso della sua esistenza, la startup ha cambiato più volte business model, inseguendo gli imperscrutabili desideri del Content. Nonostante 700mila iscritti al suo programma di abbonamenti e 35 milioni di dollari di ricavi, Williams ha recentemente licenziato il team editoriale del sito per l’ennesimo cambio di strategia di business (pivot). Agli occhi di Williams, ha scritto il giornalista Casey Newton, “Medium è prima di tutto un prodotto tecnologico”: qualcosa di neutro, nelle ingenue speranze del suo fondatore. Nata come piattaforma giornalistica per il nuovo millennio, il sito “è cresciuto fino a includere testi d’ogni tipo”, dai post virali sul Covid-19 alla pornografia. Se tutto è content, del resto, il Contenuto non è più qualcosa di definito, una categoria su cui basare una chiara strategia editoriale. Il terreno si fa scivoloso.
La parola “contenuto”, nota Bassan, “ci ricorda correttamente che c’è un’interconnessione con un ‘contenitore’ — cosa più che mai vera nella comunicazione digitale, in cui nessuna esperienza di utilizzo esiste e prospera in un vuoto. E in cui, sempre più spesso, il formato è il messaggio”. È anche a questo che Scorsese alludeva nel suo saggio. I semi del suo saggio per Harper’s sono stati probabilmente piantati nel 2019, quando durante un’intervista il regista liquidò i film dei Marvel Studios in poche parole: “Non sono cinema”. Seguì prevedibile vespaio. Pochi giorni dopo il regista decise di spiegarsi meglio in un editoriale per il New York Times:
Il fatto che quei film non mi interessino è questione di gusto personale o carattere. So che se fossi giovane, se fossi diventato maggiorenne più tardi, potrei essere stato interessato a questi film e forse avrei addirittura voluto farne uno. Ma sono cresciuto in un altro momento storico e ho sviluppato un senso cinematografico – nel senso di quello che i film sono e di quello che potrebbero essere – che è lontano dall’universo Marvel quanto la Terra da Alpha Centauri.
Da qualche parte nel vuoto interstellare indicato da Scorsese riposa la chiave del content, la sua unicità. A ben guardare il Contenuto si distingue da un banale scritto pubblicato online per il ruolo commerciale che esso ha all’interno di una strategia editoriale più o meno complessa (che sia quella di una rivista letteraria italiana o della Walt Disney Company). Ogni pezzo di contenuto è parte di un organismo più grande, che deve in qualche modo rappresentare e promuovere. Questo elemento organico del content è più importante della sua stessa forma. La produzione Marvel Studios è un esempio eclatante di questo fenomeno, perché ogni film o episodio che la compone è anche trailer, teaser, prequel e sequel dell’ecosistema a cui appartiene, in un complesso canone che è anche e soprattutto un piano strategico decennale.
Non si può dire lo stesso della filmografia di Fellini o di Scorsese.
Se tutto è content, cosa succede alle piattaforme che lo ospitano? Quanto possono reggere le barriere di genere e delle categorie di fronte a questa pressione informe? Non molto, come dimostrano la spinta uniformatrice che caratterizza i social network, le cui straordinarietà vengono presto imitate e assorbite dalla concorrenza. Basta pensare al formato “Stories”, creato da Snapchat nel 2013 e diventato un tratto universale di quasi tutti i social network, da Instagram a LinkedIn. Oppure a Spotify, piattaforma per lo streaming di musica che dal 2018 distribuisce anche podcast e audiolibri (e pare stia lavorando a delle Stories). O ancora a Facebook e Twitter, che stanno progettando a un loro servizio per le newsletter ispirato a Substack. O a Instagram che da “social per le foto” è diventato una sorta di YouTube, grazie al formato lungo di IGTV, ma che ha copiato anche TikTok creando i Reels, proprio mentre YouTube propone Stories e contenuti brevi per fare concorrenza a, rispettivamente, Instagram e TikTok.
Il content è un oggetto che si ripete continuamente: ogni volta che riusciamo a ingrandirlo e osservarlo meglio, scorgiamo la stessa struttura. Content che genera altro content.
Sul versante umano avviene qualcosa di simile, con la scomparsa – già figlia del web 2.0 – della differenza tra autore “attivo” e pubblico “passivo”. Tutti noi, collettivamente, viviamo di content e nel content. Siamo content creators: c’è chi lo fa professionalmente e chi solo nel tempo libero, anche solo inconsciamente, pubblicando aggiornamenti sulla sua vita alla sua cerchia di contatti, alimentando la macchina dei contenuti. Il Content è un frattale, un oggetto che si ripete continuamente: ogni volta che riusciamo a ingrandirlo e osservarlo meglio, scorgiamo la stessa struttura. Content che genera altro content.
Le implicazioni di questa rivoluzione tecnologica sono visibili in ogni fase della produzione culturale. La SEO. La produzione di un video per Facebook Watch o IGTV. Il clickbait che divora il giornalismo. Sintassi breve per seguire le direttive di Yoast. La produzione di “carousel”, le slide di foto, per Instagram. Il montaggio alla TikTok. Le canzoni pop che diventano più brevi sotto il peso dell’algoritmo di Spotify. Le assurde thumbnail per promuovere i video su YouTube. L’esplosione della musica lo-fi rilassante come elemento accessorio allo studio e al lavoro. I sottotitoli diventati prassi ormai universale. I video in formato verticale per favorire la fruizione da smartphone.
“La maggior parte della cultura odierna sembra essere stata creata da un algoritmo” ha scritto recentemente il critico d’arte Dean Kissick, “e il motivo è che gli umani hanno cominciato a comportarsi come algoritmi”. Il content è quindi l’interfaccia tra noi e loro, tra persone e macchine, in quanto perfetta manifestazione delle capacità umane che (finora) i computer non riescono a replicare, e che diventa carburante per un’industria che di umano, ormai, sembra avere poco.