N ella primavera del 1930 inaugurò a Milano, presso la casa del Fascio di piazza Belgioioso, un istituto dalla denominazione roboante: la Scuola di Mistica Fascista. Della Scuola oggi si è persa memoria, ma una traccia della sua esistenza si trova tuttora a Varese, custodita in un vano della locale Biblioteca Civica. Lì è conservato “Il Fondo Scuola di Mistica Fascista”, catalogato nel 1984 dalla storica Daniela Franchetti. Si tratta di 1.143 volumi, tutti consultabili ed elencati in un file Excel. Da Aspetti atletici dell’eroe di Cesare Bonacossa, fino a Voi, tu e non più lei: manuale di corrispondenza, opera della contessa Elena Morozzo della Rocca Muzzati.
La Scuola nacque su iniziativa di un giovane studente di giurisprudenza triestino, Niccolò Giani, con il patrocinio del GUF milanese e il sostegno di Arnaldo Mussolini, fratello minore di Benito. Debuttò nel clima montante di sacralizzazione del fascismo e venne intitolata a Sandro Italico Mussolini, figlio di Arnaldo, morto ventenne di leucemia. Sandro Italico nella sua breve vita fu un dirigente dell’“Opera Nazionale Balilla”. In un dipinto che lo ritrae, nello stile moraviano e rarefatto di certa pittura dell’epoca, si mostra in primo piano. È sofferente, gracile e cadaverico. E in effetti morì giovanissimo. Mentre il volto dello zio è minaccioso e squadrato, quello di Sandro Italico è magico e triangolare. Se la testa di Mussolini è un blocco spigoloso di granito, quella diafana del nipote è come la fiamma violetta di un gas.
La scuola fu impegnata soprattutto nell’organizzazione di conferenze pubbliche. Lo scopo fu quello di avviare una riflessione, a beneficio della futura classe dirigente, sulla dimensione morale e spirituale del fascismo. Come risulta anche dai giudizi messi a confronto tra le pagine di Niccolò Giani e la Scuola di Mistica Fascista (Tomas Carini, Ugo Mursia Editore, 2009), l’influenza della Scuola sul dibattito politico-culturale fu circoscritta. E neppure si può considerare la Scuola alla stregua di un centro studi organico al regime. Tuttavia la sua attività fu duratura e proseguì fino al luglio del 1943. Con il trasferimento nel 1939 in via Paolo Da Cannobio 35, le venne riconosciuta una sede di un certo prestigio simbolico. Era presso quel civico che un tempo si trovava, nel malfamato quartiere del Bottonuto, il cosiddetto “Covo Numero 2”, cioè la redazione del quotidiano Il popolo d’Italia, il cui accesso, scrive Antonio Scurati in M Il figlio del secolo, era protetto da un reticolo di filo spinato. La Scuola era frequentata in maggioranza da giovani che per ragioni anagrafiche avevano mancato la Marcia su Roma e che della Marcia su Roma avevano costruito un culto. Del resto ogni regime vive nel mito delle proprie origini. A partire dal 1940 vennero istituite le lecturae ducis, cioè un ciclo di letture pubbliche con commento dei discorsi di Mussolini. Si devono alla scuola la pubblicazione di libri, quaderni e di un periodico, Dottrina fascista, al quale collaborò anche Julius Evola.
Il fondatore Niccolò Giani morì soldato nel 1941 sul fronte-greco albanese. In precedenza era stato direttore del quotidiano di Varese La prealpina, ma non è chiaro se è a questo fatto che si deve lo spostamento a Varese, nel dopoguerra, della vecchia biblioteca appartenuta alla Scuola.
Il fondo conserva solo una piccola parte dei circa 10.000 testi che formavano la biblioteca, costituita nel 1938 per stimolare “l’esegesi della dottrina fascista, la divulgazione dei principi e la conoscenza della diuturna attività delle Istituzioni Fasciste”. Al suo interno erano conservati fondamentalmente materiali pubblicati durante il ventennio. Saggi, atti di convegni, diari, tesi universitarie. Riviste periodiche come Augustea o la tematica Antieuropa, distribuita un po’ ovunque nel mondo: dalla libreria Minerva di Tripoli al Palacio del libro di Buenos Aires.
Oggi il Fondo offre la possibilità d’intraprendere una ricognizione dentro quell’epoca che ha preceduto la Repubblica. Per compiere questo viaggio, questa flanerie nella pubblicistica e nella produzione editoriale di epoca fascista, si può partire inserendo una parola chiave sulla finestra di ricerca del file Excel. Quindi occorre verificare il risultato, dopodiché, magari, andarsene un giorno a Varese, in via Sacco 9, e fare richiesta di consultazione al gentile personale della biblioteca civica. Le possibilità di navigazione sono infinite.
Scelgo un paio di parole che in qualche modo riguardano l’attualità del nostro tempo: Africa e razza. Ecco che una ventina di vecchi libri, dove le due parole cercate compaiono nel titolo o nella descrizione dell’opera, si materializzano sopra un carrellino spinto da una cortese e premurosa bibliotecaria. Il primato della razza italiana, Gli annali dell’Africa italiana, Il concetto di razza nell’etica fascista, Politica fascista della razza, La razza di Roma, Politica economica fascista in Africa orientale italiana, etc. Proviamo a sfogliarli. Il primato della razza, saggio del medico, antropologo, massone e Senatore del Regno Giovanni Marro, indaga le caratteristiche della razza italiana e le ragioni della sua eccellenza. Si concentra su una serie di oggetti di studio, come la conformazione del cranio di Dante Alighieri. Le pagine sono inframmezzate da 48 tavole. Comprendono, tra le altre, la fotografia di un avanguardista ritratto in posa plastica davanti a una cosiddetta tavola “somatometrica” e la fotografia di un soggetto seduto di fronte a un profilometro (strumento già ampiamente usato da Cesare Lombroso).
In una tavola successiva, un ritratto fotografico di Benito Mussolini viene sottoposto a valutazioni di tipo antropometrico. La prosa è accurata ed elegante, ma deformata dall’intento celebrativo. Quella stessa fisionomia mussoliniana che oggi, osservata nelle fotografie o nei filmati tremolanti dell’Istituto Luce, ispira un misto di nausea e spavento, nel 1940 veniva descritta così da Giovanni Marro:
Testa eretta su collo forte e torace ampio, di vigorosa prestanza. Tipico brachimorfo romagnolo; domina l’architettura della fronte, dalle curve ampie e regolari, possente ed euritmica; faccia robustamente modellata, con particolare fermezza nel disegno della mandibola. Fisionomia aperta e serena, volitiva e sicura, espressiva di vita interiore larga ed intensa; con gioco mimico vivace e sguardo penetrante, fiero e buono. Sintesi: abito somatico d’ordine superiore, in connubio armonico col suggello di spiritualità alta e comprensiva.
Il Kodo e la concezione fascista dello Stato, opera del 1939, è un volume dalla copertina di gusto moderno e gradevole, dove una griglia a quadretti si stende su uno sfondo arancione. Nel testo vengono analizzati i rapporti tra fascismo e cultura giapponese. Già nelle prime righe emerge la tensione e il clima vischioso – oggi potremmo dire passivo-aggressivo – nel quale, viene da pensare, le diverse civiltà dell’epoca si guardavano e reciprocamente, guardinghe, si studiavano: “Gli Amici del Giappone […], come altri orientali, non si mostrano lusingati dalla ricca bibliografia occidentale che li riguarda, in quanto lamentano la superficialità dimostrata da molti scrittori i quali non si sono preoccupati di penetrare nell’intimo della loro vita, ma si sono fermati ad alcune manifestazioni di carattere secondario. Il rimprovero in realtà può essere giustificato ed a nostro conforto dobbiamo ricordare che anche gli orientali non hanno sempre dimostrato una maggiore acutezza ed un più equo apprezzamento della nostra civiltà”.
In La razza e l’impero di Angelo Piccioli – insegnante, scrittore e sovrintendente all’istruzione in Tripolitania – il tema della razza è discusso nel contesto della missione coloniale. Tra le preoccupazioni di Piccioli ci sono i rischi provocati dalla promiscuità con i popoli non europei. E così, nel brano che segue, allo svolgimento di una premessa segue l’approvazione entusiasta per un clamoroso provvedimento preso dallo stato fascista e diventato legge:
Nelle nazioni in cui non esistesse la coscienza di razza, ovvero per una ragione d’improvvisa decadenza essa venisse a mancare, la colonizzazione non potrebbe avere altro risultato che un pericoloso decadimento dei valori etnici. Questa coscienza, diretta alla salvaguardia del carattere nazionale ed alla tutela delle condizioni biologiche del popolo dominatore, è altresì il lievito morale che dà diritto a una nazione civile di colonizzare regioni meno evolute […] Non saranno mai pertanto abbastanza lodate le disposizioni che, all’indomani della conquista, il Governo fascista prese per proibire i rapporti coniugali fra bianchi e gente di colore. Dal punto di vista legale, esse non hanno precedenti nella storia della colonizzazione. L’Italia dunque ha preso, prima fra le nazioni europee, posizione per il principio universale della difesa del bianco dalla degenerazione del suo sangue.
A distanza di quasi un secolo, oggi può stupire e indignare anche il mero testo di una convenzione stipulata tra il Regno d’Italia e l’Impero di Etiopia. Riguarda “la costruzione di una strada automobilistica da Assab a Dessiè e la concessione al Governo Etiopico di una zona franca del porto di Assab”. Il documento, scritto in lingua amarica e in lingua italiana, è riportato nel volume II degli Annali dell’Africa italiana. La convenzione stabilisce che a partire dal 1928 il Regno d’Italia s’impegnerà a dare in concessione al Governo Etiopico una zona di terreno in una località “utile all’approdo delle navi”.
La convenzione sarebbe dovuta restare valida “per anni centotrenta”, quindi fino al 2058 prossimo venturo. Dietro la lingua apparentemente neutra del lessico diplomatico e commerciale, si nasconde uno smaccato rapporto di sudditanza tra stati. Altrettanto abnormi risuonano le parole tratte da un’opera in versi di Gabriele D’Annunzio – citate nello stesso volume sotto il disegno di una lupa circondata da vanghe e spighe di grano – in cui un continente intero viene, sostanzialmente, ridotto a una cosa: “L’Africa, non è se non la cote\ Ove affilammo il ferro per l’acquisto\ Supremo, contra le fortune ignote”.
Ne Il problema dei meticci di Nicola Marchitto, pubblicato nel 1939, il razzismo è così netto, bruciante, da produrre nell’autore un tombale pessimismo antropologico: “negli incroci si verifica dunque impossibilità per la razza di colore di evolvere verso quella bianca superiore ed al contrario certezza per quest’ultima di decadere verso l’inferiore. Pertanto per i bianchi è assolutamente sconsigliabile il mescolamento con altre razze […] Della superiorità della razza bianca d’altronde non si discute: infatti il culmine delle affermazioni delle razze umane fu raggiunto ad opera della razza bianca, senza il concorso della quale nessuna potrebbe esistere”.
In fondo a un volumone pesante che contiene gli Atti del Terzo Congresso di studi coloniali, tenutosi nel 1934 a Napoli, è contenuta una foto di gruppo del consiglio direttivo del Centro di Studi Coloniali dell’Università Orientale di Napoli. Potrebbe sembrare banale, superfluo, inutile, perfino sciocco osservare che tra quei quattordici uomini di diversa età, raccolti attorno a una scrivania, non c’è neppure un consulente o un letterato indigeno, dalla pelle scura (e tantomeno una donna), eppure appare doveroso segnalare, in quella fotografia, un’assenza, un vuoto, che col senno di poi dovrebbe apparirci come una voragine e uno scandalo.
Sul carrellino è presente anche un altro volume di cui ho fatto richiesta, sebbene le parole “razza” e “Africa” non figurino nel titolo e nella descrizione dell’opera. Si tratta di La scrittura di Mussolini, libro di Guido Mazza, con prefazione del deputato Paolo Orano. Come nel ritratto antropometrico del duce contenuto ne Il primato della razza, anche in questo testo si cerca di entrare dentro il presunto mistero rappresentato dal genio e dalla personalità di Mussolini. In questo caso servendosi dell’analisi della calligrafia, grazie all’esame di più di cinquanta autografi. Dunque che cosa rivela l’analisi di questo mistero?
È bensì vero che la fretta dello scrivere dovrebbe costringerlo ad allungare il tracciato verso destra, cosa che d’altronde tutti noi osiamo fare quando abbiamo urgenza. Però la sua esuberanza è tale che malgrado la fretta egli non può esimersi dall’allungare verticalmente i moti della mano, per approfittare delle più piccole occasioni, anche di quelle grafiche, per addestrarsi allo sforzo. E anche quando la mano scende, si sente che non vi è nel gesto il desiderio dell’abbandono. Se non sembrasse un paradosso, si potrebbe dire della sua natura, come della sua scrittura, che le sincopi che vi si notano sono vertiginose cadute, atte a dargli di nuovo la gioia dell’ascesa.
C’è una frase attribuita a Mussolini, che dice: “Ogni rivoluzione ha tre momenti: si comincia con la mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione. Quando una rivoluzione diventa amministrazione, si può dire che è terminata, liquidata”. Pare che Mussolini pronunciò queste parole rivolgendosi proprio a Niccolò Giani e agli altri dirigenti della Scuola di Mistica Fascista. Nella frase, quasi un motto mussoliniano, sembra di avvertire una constatazione dal sapore amaro, nostalgico, magari per dire: tutto viene dalla mistica, mistica è stata la trincea e la Marcia su Roma e quel momento è purtroppo perduto; ma forse, al tempo stesso e ambiguamente, Mussolini intende suggerire che tutto ciò che è iniziato con la mistica, con la trincea e la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, necessariamente trova un naturale e auspicabile compimento nell’amministrazione quotidiana dello Stato. È una frase inventata per accontentare tutti: gli asceti e i fascisti della prima ora, quanto gli ignavi e i burocrati; i sanguigni di temperamento, quanto i miti per natura. Perché forse ciò che si è rimescolato dietro quella “fronte, dalle curve ampie e regolari, possente ed euritmica” non è stato altro che una calcolata ambiguità, volta a un continuo e sistematico inganno del popolo.
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