N el suo ultimo libro, La crisi della narrazione, Byung-chul Han racconta la storia di Psammetico III, faraone egiziano sconfitto dal re persiano Cambise. È la narrazione di una narrazione, in realtà: Han riprende l’interpretazione di Walter Benjamin, che in un saggio che si intitola “L’arte di raccontare”, contenuto nella raccolta postuma Piccoli pezzi di arte, interpreta la vicenda a partire dal racconto che ne fa Erodoto. In breve, Psammetico viene sconfitto e catturato da Cambise che, per umiliarlo, gli fa sfilare davanti i figli, uno dopo l’altro, condotti verso la schiavitù o a morte. Psammetico non reagisce. Si scompone poco dopo, al passaggio di un vecchio compagno di mensa, un anziano diventato mendico: Psammetico lo vede e inizia a disperarsi, a battersi la testa con i pugni. È nel nostro tentativo di trovare una spiegazione che, secondo Benjamin, sta l’arte del raccontare storie. La narrazione autentica ha il merito di “mantenere libera da spiegazioni una storia mentre la si racconta”. E poco importa che, in realtà, Erodoto una spiegazione la dia, quando fa dire a Psammetico di essere stato toccato dalle sventure del compagno perché anziano e caduto in disgrazia. Resta uno spazio di apertura, un oggetto di interpretazione, una necessità individuale e collettiva di riempire uno spazio. Se davvero la narrazione è in crisi, come scrive Han, la chiave per interpretare la crisi sta in questo spazio aperto, in questo bisogno di interpretazione. Una necessità che, oggi, appare ingegnerizzata, resa sistema, in un’economia e un dibattito pubblico basati sulla reazione, sulla pretesa algoritmica di un bisogno informativo e relazionale costante, incessante.
Nicchie all’interno delle quali quelle interpretazioni corrono talmente tanto da diventare definitorie, oggetto di un interesse esclusivo da parte di soggetti che su quelle nicchie vogliono guadagnare, creare un posizionamento. È lo storyselling.
Davanti a una narrazione, un film, una serie, una notizia, oggi la reazione e l’interpretazione è immediata. Gli utenti immaginano scenari alternativi, riempiono i vuoti, cercano e offrono spiegazioni, in un contesto solo apparentemente collettivo: quella realtà che vedo nel mio smartphone sembra tutto il mondo, ma è solo una porzione di mondo — individualizzato. Nicchie, in altre parole, all’interno delle quali quelle interpretazioni corrono talmente tanto da diventare definitorie, oggetto di un interesse esclusivo da parte di soggetti che su quelle nicchie vogliono guadagnare, creare un posizionamento. È lo storyselling, per usare una definizione sempre di Han: l’uso di storie per vendere, per creare community, non comunità. È qui che, a partire quelle interpretazioni, possono emergere nuove narrazioni, in un processo virtualmente infinito, almeno fino alla prossima storia. È l’economia della reazione, un dibattito pubblico, culturale, sociale, alimentato attraverso la coazione a reagire, ad aggiungere un nuovo elemento, un punto di vista, una spiegazione alternativa. I social media, come Neil Postman immaginava per il telegrafo in Divertirsi da morire, hanno creato un nuovo discorso: hanno imposto una conversazione, a prescindere dalla necessità effettiva che quella conversazione ci fosse.
Le storie sono una forma di tecnologia, un mezzo per la trasmissione o la comunicazione di idee. Una tecnologia particolare, immateriale, elaborata perché l’essere umano potesse provare a spiegarsi la sua presenza sulla terra.
E non è facile, in questo contesto, immaginare un posto per l’interpretazione di un finale, per una storia intesa come un oggetto di senso compiuto in grado di dare senso e contribuire all’interpretazione della realtà. Eppure, dalla sua comparsa sulla terra, l’essere umano ha avuto un bisogno disperato di storie. Un aedo vissuto, presumibilmente, intorno all’VIII secolo d.C. fu tra i primi a capirlo. Per dare il senso di un mondo, di un evento storico, di un contesto sociale, bisogna che una ‘Diva’ ne canti le gesta, ne racconti la storia. Le storie sono una forma di tecnologia, un mezzo per la trasmissione o la comunicazione di idee.
Una tecnologia particolare, immateriale, elaborata perché l’essere umano potesse provare a spiegarsi la sua presenza sulla terra. Secondo la studiosa Katherine Hayles, del resto, siamo animali caratterizzati dall’essere “alla ricerca continua di significati”. Insomma, la narrazione è una tecnica che abbiamo sviluppato per attribuire senso a ciò che abbiamo intorno, a ciò che ci succede ogni giorno. E che, mentre lo fa, ci insegna qualcosa, ci intrattiene, ci aiuta a ricordare meglio fatti, situazioni, momenti. La narrazione ha avuto, per buona parte della storia umana, il monopolio assoluto dell’informazione, dell’intrattenimento, dell’accesso al mondo, in particolare a quelle porzioni di mondo che non abbiamo davanti agli occhi. Si è adattata senza particolari problemi a differenti strumenti, che l’hanno cambiata a loro volta, ma senza snaturarne il senso. L’abbiamo stravolta, ne abbiamo invertito gli addendi, l’abbiamo annullata nell’introspezione del romanzo novecentesco — ma le caratteristiche sono rimaste: una storia inizia, ha uno svolgimento e poi finisce, magari insegnandoci qualcosa. E lo fa al cinema, a casa davanti a un romanzo, mentre ascoltiamo un telegiornale, quando leggiamo un articolo.
Viviamo in un contesto storico, sociale, tecnologico, in cui le storie non sono più il modo principale in cui ci relazioniamo con il mondo. Viviamo in una cultura presentista, che genera un approccio postnarrativo al racconto di storie.
Secondo Doug Rushkoff, siamo nell’era del collasso narrativo. In altre parole, viviamo in un contesto storico, sociale, tecnologico, in cui le storie non sono più il modo principale in cui ci relazioniamo con il mondo. Viviamo, secondo lo studioso americano, in una cultura presentista, che genera un approccio postnarrativo al racconto di storie. Un approccio che non prevede premesse né conseguenze, ma si concentra sull’esperienza stessa, che così sostituisce lo sviluppo di una trama. “Non si tratta di cosa succederà dopo o di come finirà la storia – scrive Rushkoff – ma di capire cosa sta succedendo in questo momento, e goderselo”. È un altro modo per considerare un neologismo recente: doomscrolling, vale a dire quella pratica che prevede lo scorrere dello smartphone così, senza una vera direzione, preda un contenuto dopo l’altro degli algoritmi che decidono per noi cosa è importante. C’è un aspetto del doomscrolling che, in particolare, racconta molto bene come ci rapportiamo alla realtà – e alle rappresentazioni della realtà – all’interno dello spazio digitale. Il feed, la home page del social network, è infinito: non importa quanti movimenti di pollice facciamo, ci sarà sempre un contenuto ad aspettarci. Il senso di doom, di rovina, di catastrofe, ce lo dà proprio questo scrollare via dal senso, questo accumulo di presenti senza scioglimento.
Come nei giochi di ruolo fantasy – continua – la postnarrazione non riguarda la creazione di risoluzioni soddisfacenti dell’intreccio, ma punta a tenere viva l’attenzione e a sviluppare quanti più argomenti possibile. C’è la trama – ce ne sono tante – ma non c’è una storia complessiva, non c’è una fine. In realtà, ci sono così tante trame che anche il solo pensare di legare tutto è inconcepibile.
La dice in modo leggermente diverso, ma simile nella sostanza, Byung-chul Han. Nella visione del filosofo coreano, è stato il mercato ad appropriarsi delle tecniche della narrazione. Che, però, sono diventate così strumento al servizio del consumo, merci. “Lo storytelling – scrive Han — produce racconti che hanno la forma di oggetti di consumo. Con il supporto dello storytelling i prodotti si caricano emotivamente, così da promettere esperienze uniche. E così ci troviamo a comprare, vendere, consumare racconti ed emozioni. Le storie vendono. Raccontare storie coincide con il vendere storie”.
Vivere in un’era postnarrativa vuol dire fare più fatica a tenere insieme i punti, a collegare i sensi, a individuare la fine, la morale, l’insegnamento.
Oppure, troppe storie conducono a nessuna storia. Troppe esperienze, troppi racconti, troppa vita narrata portano al punto per cui niente ha più un senso profondo, generale. Vivere in un’era postnarrativa vuol dire fare più fatica a tenere insieme i punti, a collegare i sensi, a individuare la fine, la morale, l’insegnamento. Non c’è fine su Internet, perché la rete è un archivio, una specie di schedario a cui chiunque in tutto il mondo può accedere. E in cui, allo stesso tempo, chiunque può inserire documenti, scartoffie, soprammobili.
Internet è talmente tanto un archivio che, a un certo punto, per capirci qualcosa abbiamo avuto bisogno di qualcuno che tirasse fuori in modo efficace per noi gli oggetti di cui avevamo bisogno in quel momento. A Google chiediamo di estrarre qualcosa, il suo algoritmo la cerca per noi e tira fuori quella che ritiene potrebbe esserci più utile. Gli algoritmi dei social network fanno lo stesso lavoro, anche se non gli facciamo domande specifiche: sono loro a estrarre dalla scatola gli oggetti che credono possano piacerci di più in quel momento. Quando siamo online, abbiamo a che fare con insiemi, organizzati o meno, di informazioni, di oggetti estratti dalla scatola della nostra sgangherata similitudine. Questi feed non hanno un significato in sé stessi, non hanno un senso logico, che non sia l’effetto che vogliono ottenere: farci cliccare, tenerci il più possibile davanti allo schermo. Inoltre, mentre scorriamo questo insieme di oggetti siamo liberi. Possiamo guardarne uno, guardarli tutti, guardarli a pezzi. Non siamo obbligati, in altre parole, a seguire un percorso che abbia anche solo un’immaginata linearità. Quando siamo online non accediamo al mondo attraverso le storie, attraverso la narrazione. Accediamo al mondo attraverso un database.
Un contenuto è una registrazione in un database, una riga di Excel che, ogni giorno e più volte al giorno, l’umanità inserisce nello spazio digitale che abita.
E il concetto di database è uno dei pochi modi per spiegarsi il significato della parola contenuto (e soprattutto content), la vera buzzword di questi primi 24 anni del ventunesimo secolo. Su Internet, tutto è un contenuto (e, senza articolo, tutto è content), da un film di Truffaut ospitato da Netflix a un video su TikTok, fino a un articolo sul New Yorker. È un contenuto anche la foto di un uovo su sfondo bianco, il famoso Instagram Egg, tra i post con più ‘mi piace’ (circa 60 milioni) della storia di Instagram. Secondo Katie Eichorn, che sul tema ha scritto un libro per la collana Essentials del MIT, “un contenuto può includere un’informazione di vario genere, raccontare una storia, intrattenere, ma non deve fare nessuna di queste cose per circolare in maniera efficace”. L’importante, spiega Eichorn parlando proprio dell’Instagram Egg, è che si diffonda, che sia potenzialmente disponibile a un numero ampio di persone. La definizione resta fumosa o, quantomeno, pericolosamente ampia. E allora si potrebbe dire che un contenuto è una registrazione in un database, una riga di Excel che, ogni giorno e più volte al giorno, l’umanità inserisce nello spazio digitale che abita.
Per sua natura, il database è frenetico, presentista. Ciascuno di noi è chiamato ad aggiungere un pezzettino, alla continua ricerca di un senso, della costruzione di un’identità sociale, in relazione agli altri e al presente che abitiamo, in uno sforzo di che rende ogni storia potenzialmente infinita.
Non è un assunto senza conseguenze: avere esperienza del mondo attraverso un database, un archivio, cambia completamente il nostro approccio rispetto alla realtà che ci circonda. Uno studioso americano che si chiama L.M. Sacasas ha raccontato in uno splendido articolo le differenze tra la narrazione e i database. “Il database – scrive Sacasas — espande drammaticamente l’accesso alle informazioni, sfidando anche l’autorità dei professionisti delle narrazioni. Ma le narrazioni ufficiali sono solo un altro data entry, un’altra voce nel database, un modo tra i tanti di tracciare una storia nelle righe di un archivio”. Nel database non esiste verità: esistono elementi che hanno lo stesso valore, anche se possono essere organizzati in maniera diversa. L’archivio, per sua natura, non dà giudizi di valore. Memorizza e, sulla base di come si decide di interrogarlo, restituisce una serie di risultati. Risultati che, ogni giorno, ci troviamo davanti agli occhi ogni volta che apriamo lo smartphone. Porzioni di archivio, frammenti di storie, accenni di narrazioni che non si concludono, rimangono aperte. Del resto, continua Sacasas, “il database non può sostenere lo sviluppo attraverso il tempo. La redenzione, ad esempio, è una categoria che ha senso solo in termini narrativi. Solo le storie possono dare una dimensione temporale a parole e fatti. Il database non può offrire questa possibilità. Ogni dato ha lo stesso peso”.
Per sua natura, il database è frenetico, presentista. Ciascuno di noi è chiamato ad aggiungere un pezzettino, alla continua ricerca di un senso, della costruzione di un’identità sociale, in relazione agli altri e al presente che abitiamo, in uno sforzo di che rende ogni storia, collettiva e personale, potenzialmente infinita. “Raccontare – scrive ancora Han – consiste nel dare allo scorrere del tempo un senso, dargli un inizio e una fine. Senza narrazione, la vita è meramente cumulativa”. Vivere, così, diventa accumulare. Accumulare esperienze, ricordi, pensieri, punti di vista. Accumulare versioni di una determinata storia, interpretazioni del presente: tutto inizia, continuamente, nulla finisce. Le informazioni uccidono le narrazioni perché riempiono ogni vuoto, chiedono una continua necessità di spiegazione”.
Il tutto in una pretesa di autenticità, di trasparenza, che i social network hanno reso canone: esiste, ed è degno di fiducia, solo quello che è autentico. È una reazione al database: in un contesto che appare sempre più privo di senso, accumulazione di significati e immagini, è quasi scontato provare a rintracciare qualcosa di umano, di vero. Il punto è che perché possano essere in grado di darci qualcosa, di offrire senso, le storie devono essere una bugia. Nabokov faceva risalire l’inizio della letteratura alla storia di “Al lupo al lupo”. All’episodio, però, in cui del lupo non c’era traccia. La letteratura, come scrive anche Giorgio Manganelli, è una menzogna: “Obiettivo costante delle invenzioni retoriche – dice uno dei più importanti critici italiani del ‘900 — è sempre il conseguimento di una irriducibile ambiguità. Il destino dello scrittore è lavorare con sempre maggior coscienza su di un testo sempre più estraneo al senso”.
Non esiste pretesa di realtà, quando si racconta una storia. Esiste il rovesciamento del senso comune, come scrive ancora Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura, quel concentrarsi sulle “note a piè di pagina nel volume della vita” che “sono le supreme forme di consapevolezza”. O, al massimo, esiste il verosimile, un taglio, una selezione, un realismo che, attraverso la menzogna, sia in grado di raccontare verità più profonde. Ne Il realismo è l’impossibile, Walter Siti riporta una lettera di Emile Zola a Henry Ceard, a proposito di Germinal. “Noi mentiamo tutti – scrive Zola -, più o meno, ma quali sono la meccanica e l’obiettivo della nostra menzogna? Io, per quanto mi riguarda, credo ancora di mentire nel senso della verità”. Parafrasando il celebre cartello introduttivo di Le mani sulla città di Francesco Rosi, i personaggi e i fatti narrati possono essere immaginari: a essere autentica, se davvero l’obiettivo è raccontarla, deve essere la realtà sociale e ambientale che li produce. Ma il contesto nel database finisce con lo scomparire: l’archivio, una voce dopo l’altra, costruisce bolle inspiegabili, correla le nostre abitudini a porzioni di mondo che non sapevamo di voler abitare. Tutto succede per caso, nulla finisce. E la realtà rimane sfondo di frammenti di narrazioni, solo un’altra riga nel database.