L ungi da essere la prima o l’ultima scrittrice a cimentarsi con l’internettese – il lessico familiare dell’intimità online, o con la disamina di microscopici meccanismi umani, Sally Rooney è senz’altro colei che ha perfezionato certe tecniche trasformandosi praticamente in un marchio. Anzi, al netto del terzo romanzo, in una franchise. Inoltre, presentando la scrittura in un contesto-contenuto ad alto tasso di consapevolezza socioeconomica, la franchise è nobilitata e accolta con autocompiacimento dai lettori, individui demograficamente vicini all’autrice. Non mi riferisco solo all’articolazione della sessualità – nella sua rappresentazione sia letterale che politica – ma anche alle tematiche con cui Rooney allaccia i suoi personaggi al mondo e tra di loro: la malattia, il conflitto di classe, la violenza, il precariato, la notorietà, eccetera. Eccetera è qui la parola chiave, soprattutto se la visualizzassimo come lo scorrere mesto e infinito dei nostri polpastrelli sul web. Rimanda alla genericità che scaturisce dal riconoscimento di massa, e al senso di sopraffazione che ci coglie in modo più o meno conscio quando ci accorgiamo di questa evidenza. La (parziale) complessità della realtà contemporanea viene registrata con esattezza da Rooney, che la evoca ma non vi ci si impregna, come dire, allineandosi così al desiderio dei suoi personaggi di venir accettati come persone che sfuggono a quelle complessità –per l’appunto “normali”. In un recente saggio intorno a Beautiful World, Where Are You, il critico Stephen Marche chiarisce alcune di queste impressioni, proponendo una dicotomia che trovo produttiva non solo per leggere certe tendenze del mondo letterario anglosassone, ma soprattutto per traghettare il dibattito all’altra forma artistica che è chiamata a dare eco del contemporaneo in modo globale, e cioè il cinema.
Marche individua nel presente un cambiamento di sensibilità che contrappone la scrittura “della voce” alla scrittura “della posa”. Quest’ultima definisce l’hit et nunc letterario ed è quella che si impone oggi a sfavore (perlopiù commerciale) della prima, sebbene non rimpiazzandola. Sally Rooney, Ottessa Moshfegh, Ben Lerner sono, secondo Marche, autori della posa. A questo tipo di scrittura preme “essere corretta, sia in termini di stile che di contenuto. Il primo obbiettivo è non commettere errori. Il suo gesto principale è la rimozione e il soggetto che preferisce è l’ansia sociale e l’auto-rappresentazione. In questa scrittura non ci si perde. Piuttosto, si ammira, un po’ da lontano, la precisione dell’impresa”. Dall’altra parte della sponda ci sono Margaret Atwood, Philip Roth, Michael Ondaatje, Joan Didion, Toni Morrison, Raymond Carver, che “condividevano un’idea di letteratura, un’intesa sulla loro funzione sociale, e addirittura una certezza morale. Si differenziavano grazie alla specificità delle loro voci (…). Le voci di donne, omosessuali, minoranze assumevano un’importanza senza precedenti. Lavori di traduzione diventavano centrali”. Marche resiste alla tentazione di cadere in una riduzione generazionale, scrittura boomer vs. scrittura millennial: se l’opposizione è permeata innegabilmente da un’inflessione storico-stilistica, non significa che oggigiorno non ci siano autori più o meno giovani che scrivono con una voce. Vengono citati Raven Leilani e Joshua Cohen; uno potrebbe aggiungere alla combriccola dei “controtendenza” voci come Catherine Lacey, Sarah Manguso (ma non Rachel Cusk o Tao Lin). Ovviamente le separazioni non sono così nette. Talvolta si può negoziare la posizione di uno o dell’altra secondo il proprio gusto, il che fa di questo discrimine un giochetto tutt’altro che attendibile. Ma una volta riconosciuti, pure nella familiarità che condividono, i due approcci appaiono in conflitto: “molto del dibattito contemporaneo in generale, non solo quello letterario, si parla addosso. La Voce e la Posa non riescono a comprendersi; occupano diverse sfere di significato. L’odio e il furore che infiammano la battaglia politica rispetto all’impiego del linguaggio – a cui ci si riferisce in modo intercambiabile con ‘politicamente corretto’ o ‘cancel culture’—provengono in larga parte da quel chiasmo”.
La polarizzazione che governa molti dibattiti culturali ha investito il cinema perlopiù nei suoi aspetti “esteriori”, cioè biografici o strutturali: il produttore-mostro e i suoi simili, le quote rosa e le quote nere, l’egemonia delle saghe e il monopolio della piattaforma-cannibale, la solitudine della sala. Proprio per la sua natura commerciale (che è vera anche per i film piccoli), il cinema è oggi raramente dibattuto nei suoi aspetti “interiori”, cioè il linguaggio visivo e la sua dialettica con la materia narrativa. Di fronte a molti dei film degli ultimi dieci-quindici anni, d’essai come blockbuster, lo spettatore sensibile si sarà sentito investito dal senso di spossatezza che emana dai prodotti culturali la cui cifra principale è “porsi rispetto al mondo” (anche quando questa tensione significa una rimozione, come nel caso di Rooney). Ovverosia tenere (e rendere) costantemente conto di dove e di come si situa l’identità autoriale, rispetto all’identità sociale, e rispetto all’altro uguale o diverso da sé, alla storia della cultura visiva, al sistema di riferimento. A costo di essere banale, l’esempio perfetto è qualsiasi produzione di Netflix o l’evoluzione del catalogo di A24, con molti talentuosi filmmaker indie che incorporano tale approccio e lo riproducono senza senso critico. Farò in seguito qualche esempio concreto, ma è un gioco, sia chiaro. Distinzioni basate sulla falsariga di “al mondo ci sono due gruppi di persone, uno così l’altro cosà” vanno promosse con riserbo. Eppure se alcuni di questi film fossero individui, sarebbero pieni di tic, divorati da nevrosi e manie tanto spiccate da renderli quasi delle creature antisociali.
Di fronte a molti dei film degli ultimi dieci-quindici anni, d’essai come blockbuster, lo spettatore sensibile si sarà sentito investito dal senso di spossatezza che emana dai prodotti culturali la cui cifra principale è “porsi rispetto al mondo”.
All’inizio di quest’anno sono state presentate rispettivamente al Sundance e alla Berlinale due opere prime salutate come novità importanti e che illustrano bene le tendenze di un “cinema della voce” e di un “cinema della posa”, per traslare la dicotomia proposta da Marche sul piano cinematografico. Sono Amalia Ulman con El Planeta e Dasha Nekrasova con The Scary of Sixty-First. Nate a pochi anni di distanza, la Ulman nel 1989 e la Nekrasova nel 1991, se vi sono familiari è perché entrambe approdano alla regia avendo acquistato notorietà altrove: la Ulman come enfant prodige dell’arte post-internet, la Nekrasova come co-ideatrice del popolare podcast di critica sociopolitica Red Scare. Se entrambe le esperienze suonano snob o fanno alzare gli occhi al cielo, tanto meglio, poiché se da una parte rivelano la prevedibilità dei retroterra eccentrici, dall’altra ci mostrano come questi retroterra eccentrici e prevedibili sappiano ancora permettere a voci – anzi, a visioni – artistiche originali di prendervi forma.
Nel suo atteggiamento sprezzante e ostentatamente anticonformista, The Scary of Sixty-First è chiaro parente del podcast. Dal 2018 Anna Khachiyan e Dasha Nekrasova – la prima di origine russa-armena, la seconda bielorussa, entrambe figlie di emigrati negli Stati Uniti post caduta del Muro – registrano le loro conversazioni sui temi più disparati, dal nuovo articolo di Judith Butler sul New Statesman all’improvvisa perdita di peso di Adele, passando per interviste con Adam Curtis, Slavoj Žižek o Glenn Greenwald. Bersagli principali sono il dogmatismo del nuovo politicamente corretto e un’opinione pubblica globale che rifiuta la presenza dei ceti popolari, a cui si contrappone un dissenso generalizzato e rivendicazioni socialiste. Tutto molto cool, ma a un orecchio poco esperto Red Scare può, e non a torto, suonare come comunismo di destra. Del podcast, The Scary – scritto, diretto e interpretato dalla Nekrasova da sola – eredita solo lo “scare”, il terrore, che però non è più la minaccia rossa ironicamente citata nel titolo, bensì un tributo formale e insieme un prestito semantico rispetto al genere horror. Girato in pellicola con grana palpabile, il film omaggia dalle prime scene Argento, il primo Polanski e lo Żuławski di Possession, inscenando una storia di possessione sessuale istigata dalle forze maligne di Jeffrey Epstein e/o di chi l’ha ucciso. Due amiche si trasferiscono in un appartamento un po’ troppo economico a Manhattan. Inquietanti oggetti appartenuti all’inquilino precedente fanno la loro apparizione e una ragazza senza nome suona alla porta. Si presenta come una detective freelance sulle tracce del traffico di minorenni operato da Epstein, che, sostiene lei, fu proprietario dello stabile. Mentre una delle due amiche viene colta da un invasamento satanico rivolto al principe Andrew (socio in malaffari con Epstein), la ragazza attira l’altra coinquilina in una frenesia di speed e teorie complottiste, coinvolgendola nelle indagini, prima online e poi in strada. Le immagini delle facciate gotiche di New York e l’imponente grigio dell’Upper East Side soddisfano, ma come un poliziottesco o un film di Mario Bava intercettato in televisione durante una notte insonne. Il messaggio di The Scary è chiaro: la vita di una giovane donna oggi, così come quella di un cittadino comune ignaro dei magheggi perversi ed egoisti della classe dirigente, è un film dell’orrore. Un esercizio interessante quanto naturale, quello di piegare un genere cinematografico tipicamente fantastico all’esemplificazione di una condizione storico-sociale molto reale. Operazione tanto politica quanto formale, non è diversa da quella messa in atto da Get Out di Jordan Peele. Ma al di là della mimesi stilistica e dell’estenuante parata di ammiccamenti al pubblico di riferimento, la sovrapposizione del piano metaforico con quello letterale (una trama c’è, con un finale molto violento) ci regala un’opera senza dimensione, tristemente piatta. Riprendendo la definizione di Marche sull’espressività della posa, qui non si ammira la precisione dell’impresa (tutt’altro che meticolosa), ma senz’altro la si osserva con curiosità – però a distanza, quasi mimando la postura dell’autrice rispetto al suo lavoro e al sistema che lo ha ispirato.
Passando invece all’altra sponda, ecco El Planeta di Amalia Ulman, battezzato col nome di un ristorante a Gijón, in Asturias, dove la regista – anche lei sceneggiatrice nonché attrice protagonista – è cresciuta dopo esservisi trasferita dalla nativa Argentina. Già il titolo riflette il respiro ampio del film, abbracciando in un solo gesto l’ambientazione periferica e una comprensione globale sullo stato delle cose. Solo la Spagna, a mio avviso, soprattutto grazie a un regista poco conosciuto come Jaime Rosales, è riuscita adeguatamente a rappresentare la crisi economica del 2008. El Planeta si situa felicemente in coda a questa tradizione socio-cinematografica raccontando la doppia vita di Marìa e Leo (interpretata dalla madre di Ulman, talento naturale alla prima esperienza), madre e figlia che ostentano sfarzi e lussi in pubblico mentre nel privato vivono di piccoli prestiti, furtarelli e un continuo inganno del tempo. Marìa cerca di prostituirsi, ma dopo aver capito i prezzi di mercato, rinuncia (“20 euro per un pompino? C’è un libro che voglio comprarmi che costa 19,99…”). Leo cerca la scalata sociale e sogna di sposare Martin Scorsese, in arrivo in città per un premio del Principe delle Asturie. Girato in digitale (ma in bianco e nero), El Planeta ha l’eleganza di un neorealismo millennial, in cui l’incedere comico delle due donne (Amalia Ulman soffre di una piccola disabilità motoria, mostrata con affettazione chapliniana) lascia il passo alla camera, che indugia sui molti negozi lasciati chiusi dalla crisi economica. È un film pieno di trovate umoristiche, dai vestiti assurdi che si cuce Marìa alle strane manie della madre, che relega simbolicamente i propri nemici a pezzettini di carta poi chiusi nel congelatore. Nello spettro emotivo e umano che contempla – dalla risata al dubbio alla commozione – El Planeta è tutto un cosmo, che include e supera le idiosincrasie particolari per rivelare esperienze condivise: l’impatto spietato del neoliberalismo sulla forza lavoro dei giovani, particolarmente in campo creativo; il diritto alla casa; l’angoscia strisciante di perdere tutto, soprattutto un’idea di qualità della vita a cui si era abituati o si poteva aspirare.
Forse un altro modo per dire posa e voce è parlare di un cinema della postura e di un cinema della distinzione.
Ulman e Nekrasova hanno molto in comune, sia tra di loro che con gli aspetti caratteristici della scrittura “della posa”: un po’ di autofiction, l’influenza della cultura americana arginata da un passato da migranti, una spiccata conoscenza dei problemi del presente, un “postmoderno post-internet” che cita i modelli con l’intimità di una tag su Instagram (in El Planeta compaiono nei ringraziamenti Hal Hartley e Miranda July – due ispirazioni abbastanza evidenti insieme alle screwball comedy del primo Whit Stillman, Ernst Lubitsch o Peter Bodganovich). Ma proprio a proposito di Instagram, su cui la Ulman ha peraltro costruito una delle sue performance più conosciute, è stato notato come El Planeta, pur filmato in una raffinata scala di grigi, ritragga un mondo senza filtri. Molto crudo, addirittura, vero e allo stesso tempo inedito – tutte qualità che si devono alla Voce di Amalia Ulman. Difficile far capire esattamente cosa si intende, essendo il film inedito in Italia.
Se continuassimo a usare il giochetto letterario di Marche nell’arena del cinema, un regista della voce potrebbe essere Pablo Larraìn, certamente non Noah Baumbach. Per quanto intollerabile sia la sua fanbase, Wes Anderson appartiene certamente ai registi con una voce, a differenza di Coppola Jr.. La simpatia che trasmette Greta Gerwig, soprattutto per il suo apporto all’indie dei primi Duemila, non la salva dall’appartenenza alla posa, contrariamente alla collega inglese Joanna Hogg. Un fotogramma di Eliza Hitmann o Celine Sciammà si riconosce subito; lo stesso non succede a un’intera sequenza di Andrea Arnold, sebbene agli inizi facesse ben sperare. Il cinema di Ari Aster o Sean Baker ci consegna delle immagini forti, ma una volta abbassato il volume, in cosa ci hanno sorpreso davvero? Xavier Dolan, i Safdie, Charlie Kaufman sono in transizione insieme al mercato da cui dipendono. Ma anche se dovessero passare dall’altra parte, li ricorderemo sempre come autori di film che, nei casi fortunati, abbiamo sperato non finissero mai.
Forse un altro modo per dire posa e voce è parlare di un cinema della postura e di un cinema della distinzione. Per il primo ciò che si mostra è connotato dalla posizione dello sguardo, che non è necessariamente sinonimo di engagement politico e che descrive la prepotenza della visione sul soggetto e sul rapporto che intercorre col sistema di riferimenti e gli altri osservatori. Occasionalmente ciò produce una specie di surplus di significato e auto-rappresentazione che risulta in un’esperienza sfibrante anziché nell’identificazione. Per il secondo ciò che si mostra è definito dalla singolarità – del contenuto o della forma, o di entrambi – con cui la novità o il conosciuto vengono raccontati, sapendo inoltre rivelare qualcosa dell’osservatore, che gli sia nota o meno. Talvolta sono opere nate grazie a un’ingenuità o una generosità che, raggiunto lo spettatore, assomigliano ad atti di libertà o conoscenza. Sono film che si distinguono davvero dall’oceano di immagini in movimento in cui siamo immersi, perché sono sia fuga che riposo. Per questo, nelle loro manifestazioni più felici, capita di desiderare che non finiscano mai.
Una verità con cui la letteratura sembra aver già fatto i conti, al contrario del cinema – forse la più lenta e conservatrice tra le arti? – è l’idea che il mondo stia andando a pezzi. Come scrive Marche, “si potrebbe anche interpretare la guerra sul linguaggio come una risposta collettiva all’esperienza della perdita—condividere il lutto rappresentandolo con rabbia lacerante. La posta in gioco non potrebbe essere più alta – come verrà creato il significato” del futuro? Forse, e il desiderio sta proprio lì, nella tensione verso un significato che non solo è frutto del suo tempo, ma che pure non ha tempo.