P ochi anni prima di morire nel 2020, Bruno Barbey, storico fotografo del maggio 1968, ha raccontato al Guardian le sue giornate tra i manifestanti nella capitale francese assieme ai colleghi Henri Cartier-Bresson e Marc Riboud. “All’inizio lavoravamo liberamente, ma poi Paris Match pubblicò delle foto che mostravano la violenza della polizia contro i manifestanti, e la polizia si mise a cercare i fotografi per sequestrargli le macchine fotografiche. Ci furono casi in cui foto di studenti che lanciavano pietre vennero usate dalla polizia per identificarli e arrestarli, e quindi anche gli studenti cominciarono a non gradire la nostra presenza. Mi sinceravo che qualsiasi volto riconoscibile nelle mie foto fosse coperto col pennarello”.
Ma la polizia francese aveva davvero bisogno delle immagini dei fotoreporter per sorvegliare e punire in quelle settimane di rivolta? Da pochi anni è stato reso pubblico il fondo dell’archivio della Prefettura della Polizia di Parigi, che raccoglie la documentazione fotografica realizzata dalle forze dell’ordine durante e dopo le grandi manifestazioni che invasero la città per circa un mese. Quel fondo, a lungo custodito in relativa segretezza, è oggi presentato in Taxonomy of the Barricade, un volume a cura del filosofo Wolfgang Scheppe pubblicato da Nero. Il sottotitolo del volume, Image Acts of Political Authority in Paris, May 1968, rivela l’intenzione di interpretare la strategia di controllo sociale sottesa a quegli atti di rappresentazione fotografica.
Il libro presenta centinaia di fotografie scattate per le strade di Parigi, divise in capitoli tematici. La maggior parte di queste sezioni ha titoli che rimandano a elementi concreti (“Folle”, “Polizia anti-sommossa”, “Veicoli incendiati”, “Marce di protesta”); altre descrizioni indicano realtà meno tangibili (“Fuoco, fumo”, “Oscurità”, “Osservatori”, “Politiche dello spazio”). Sono fotografie che non poggiano sulla forza iconica degli istanti decisivi di Barbey o Cartier-Bresson: non ci sono belle composizioni, nessun pugno chiuso levato in alto, non ci sono neanche sguardi intensi che rubano la scena. Il bianco e nero è spento, senza contrasti drammatici o scene madri. Sono asettiche come rilievi di una perizia: sfogliando le pagine del volume si incontrano scatti casualmente mossi o sfocati, l’obiettivo di frequente si ripara dietro gli elmetti dei poliziotti schierati. Vediamo poliziotti che sorridono rivolti all’obiettivo, manifestanti che cadono a terra mentre la folla si allontana da poliziotti che intuiamo essere dietro l’obiettivo che scatta. Nel volume sono raffigurati migliaia di volti di manifestanti, proprio quei volti che Barbey si preoccupava di non rivelare, ma li vediamo come una massa indistinta. Fotografie come raccolte di dati: il reportage di polizia è una narrazione senza climax, una grigia raccolta dati che ha il fascino cupo di una visione asettica e impersonale.
Sfogliando i capitoli si incontrano inserti di un formato diverso, piccole doppie pagine il cui esterno è rivestito come uno specchio e che al loro interno rivelano vedute aeree delle folle che invadono le strade. Si tratta della prima operazione in assoluto di documentazione fotografica aerea da parte di una forza di polizia: le masse che riempiono piazze e boulevard sono ridotte a decine di migliaia di punti neri, come un’eruzione cutanea sulla superficie della città. Nel saggio che conclude il libro, Scheppe descrive le settimane del Maggio Francese come uno spartiacque sia della storia delle pratiche di protesta che delle politiche di controllo e repressione. Le barricate dei manifestanti, fatte di grate divelte, pietre, pali abbattuti e veicoli capovolti, per Scheppe fanno qui la loro ultima apparizione significativa nella storia del conflitto sociale, proprio mentre il nuovo controllo esercitato dall’alto ne decreta l’obsolescenza. “La barricata incontra la sua fine quando il processo di sorveglianza visiva da una prospettiva divina si compie con il suo potenziale di visione assoluta”, scrive l’autore.
Scheppe vede nella sorveglianza del Maggio Francese la manifestazione di premesse annunciate sin dalla nascita stessa dell’immagine fotografica, unite ai prodromi della visione assoluta e onnipresente offerta dalla tecnologia contemporanea: individua nel drone armato il compimento di un disegno iniziato molto tempo fa, con la fotografia in mongolfiera messa a punto dal francese Nadar nella seconda metà dell’Ottocento. Celebrato ritrattista degli albori della fotografia, Nadar ha inseguito a lungo il sogno di fotografare dall’alto, sogno che però, come ci racconta Scheppe, sin dalla presentazione del brevetto si tinge di suggestioni militari: Nadar definisce il pallone aerostatico e la macchina fotografica le sue “sole armi”, paragonando la mongolfiera a una torre di osservazione, descrivendo generali intenti a studiare le fotografie appena arrivate sui loro tavoli direttamente dal cielo.
Mentre gli scatti dei fotografi della Magnum venivano portati fuori città in motocicletta per farli volare verso redazioni in giro per l’Europa o fino a New York, gli elicotteri della polizia portavano a terra riprese di piazze e strade invase dalle proteste perché venissero sviluppate, stampate e consegnate negli uffici della Préfecture de Police. Nel capitolo intitolato “The Authoritarian Gaze” vediamo fotografie di uomini che indossano cuffie dentro una sala di controllo, seduti a un grande tavolo dove sono posate mappe di Parigi, mentre una parete di schermi trasmette immagini dalle strade della città. Vediamo la foto di un funzionario che guarda nell’obiettivo indicando con una penna l’ora segnata dal suo orologio, in altri scatti ci sono manifestanti evidenziati da rettangoli tracciati a matita.
È l’alba della sorveglianza tecnologica, che in queste fotografie ancora si mostra abbozzata, goffa, ma che già esibisce i tratti distintivi dello sguardo del Leviatano contemporaneo, per parafrasare il titolo del saggio di Scheppe Under Leviathan’s Eye: ascoltare, osservare, individuare sempre e ovunque. All’inizio del suo scritto Scheppe sottolinea come con l’utilizzo del drone armato “l’interesse oculare” dell’autorità sovrana si compie in tutta la sua potenza: il drone è “un oggetto composito… una volontà complessa che si è esternata in uno strumento… l’occhio dello Stato si afferma come occhio che simultaneamente percepisce e agisce, diventando l’occhio che uccide”.
La fotografia stessa può essere descritta come un oggetto composito, frutto di istanze diverse che sono confluite in un unico strumento che le mette in opera: figlia della chimica e dell’ottica, desiderata dalla tipografia, dall’arte e dalla nascente comunicazione di massa, già poco dopo la sua nascita trova nella pratica giudiziaria una delle sue incarnazioni più importanti. A questa lo storico e fotografo italiano Ando Gilardi ha dedicato Wanted! Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria, libro pubblicato nel 1978. “Il fotoritratto unisce il sembiante di una persona al suo nome e attraverso il nome ai fatti della sua vita”, scrive Gilardi nella prefazione. “La fotografia di una cosa qualunque diventa giudiziaria se per una ragione qualsiasi passa per le mani di un poliziotto e di un giudice; in generale significa che giudiziarie possono diventarlo tutte le fotografie”.
Più avanti Gilardi racconta come Louis Daguerre, l’inventore del primo procedimento fotografico, trovò appoggio decisivo e “imprevedibile” alla diffusione del suo dagherrotipo (e alla concessione di un vitalizio per l’invenzione) nel ministro degli Interni (“o di Polizia, come allora si scriveva”) Tanneguy Duchâtel. Che l’annuncio della fotografia abbia avuto supporto decisivo dal responsabile dell’ordine pubblico è un fatto assente dalle storie ufficiali, che in genere si limitano a menzionare la perorazione fatta dal deputato liberale e uomo di scienze François Arago, figura più rassicurante di Duchâtel, che “nel gabinetto della Monarchia di Luglio rappresentava il peggior reazionario. O il migliore, secondo i punti di vista”.
La natura ibrida dell’immagine fotografica, il supporto poliziesco alla sua nascita e i sogni paramilitari della fotografia aerea ottocentesca sono i semi che porteranno al volo degli elicotteri della polizia parigina nel Maggio Francese, premessa dell’onnipotenza automatizzata del drone armato. Taxonomy of the Barricade illustra proprio quel momento di transizione in cui le tecnologie di sorveglianza visiva cominciano a fondersi tra loro in un nuovo unico strumento, capace sia di catalogare ogni volto che di librarsi in cielo e controllare lo spazio. Persino la nascita della fotografia istantanea, cioè scattata a mano, portava con sé una nota violenta dai suoi primi passi attorno al 1890: la parola inglese che indica l’istantanea è snapshot, il cui primo significato è l’atto di sparare a casaccio. A Parigi, tra le barricate dei manifestanti, l’istantanea prendeva la mira.