C ominciamo dall’immagine di un uovo aperto, una siringa inocula qualcosa all’interno del tuorlo, in pochi secondi si genera un secondo tuorlo, identico al primo. L’unica cosa che racconta Coralie Fargeat – vale a dire lo sdoppiamento per partenogenesi della protagonista – sarà la nenia didascalica che accompagnerà tutto la pellicola.
Seconda sequenza, mostrata subito dopo: si dedica a Elisabeth Sparkle, star finzionale glorificata e poi dimenticata, una delle stelle che accendono i marciapiedi di Hollywood. È una didascalia lunga due minuti su una cosa che sappiamo a memoria: la retorica americana di ascesa e discesa dei divi. Il tema: l’ossessione per la propria immagine; il declino della propria immagine per colpa dell’invecchiamento del corpo; l’inutilità del ruolo di Sparkle nell’industria cinematografica e televisiva superati i cinquant’anni. Siamo al minuto cinque e abbiamo già esaurito tema e meccanismo drammaturgico – e la protagonista di cognome fa la parola inglese per “scintilla”.
Cosa succede nei restanti 135 minuti? The Substance è stato descritto in vari modi: nuovo body horror, beauty horror, satira splatter, film drammatico contemporaneo e via dicendo. Il film racconta la storia, per l’appunto, di Elisabeth Sparkle (Demi Moore), star sulla soglia dei cinquant’anni che viene licenziata dal canale televisivo per il quale lavora da anni perché ormai troppo vecchia e non più abbastanza bella e performante. Gli unici uomini che Fargeat ci mostra sono vecchi in posizioni di potere: il suo capo o coloro che lavorano ai “piani alti” del canale. Nonostante siano brutti e anziani, questi vecchi possono continuare a lavorare perché non vengono giudicati per la propria immagine.
La regista tradisce le sue premesse e finisce per raccontare l’ossessione di un singolo e non un problema sociale.
Ed ecco la premessa banale che innesca la narrazione: Elisabeth non vuole invecchiare, vuole continuare a essere amata per la sua bellezza. Dopo un drammaturgicamente provvidenziale incidente in macchina incontra un giovane medico che le lascia una drammaturgicamente provvidenziale pennetta usb con scritto sopra “the substance” (è solo una delle didascalie che accompagnano tutto il film, come se la regista imboccasse continuamente un pubblico disattento mentre il film si muove con fastidiosa linearità). Bene, ovviamente la protagonista vuole usare questa “sostanza” e ne deve imparare le regole precise: il suo corpo si sdoppierà e ne uscirà una “versione migliore” di lei (ossia più giovane e bella) che potrà vivere una settimana sì e una settimana no, alternandosi con lei. Un equilibrio pericoloso che porterà Sparkle, e il suo doppio-giovane, Sue (Margaret Qualley), a odiarsi e mangiarsi il corpo a vicenda.
Il problema del film è il seguente: a questo punto la critica sociale e politica con cui siamo stati imboccati fin qui, come ormai ci sta succedendo con ogni forma di narrazione di moda tagliata in modo sartoriale dagli algoritmi – in questo caso il corpo delle donne è sfruttato da un capitalismo di uomini vecchi non soggetti a nessuno sguardo – sparisce completamente su entrambi i livelli, sia narrativo che di messa in scena. Sparkle, come molti altri personaggi femminili e wannabefemministi (Bella di Povere creature! di Lanthimos ne è un esempio), non è veramente calata in una riproduzione funzionale della nostra società, è invece pigramente fatta circolare in un mondo che non esiste e non ci significa niente: un mondo dove non ci sono telefoni, social, non c’è prossimità con la contemporaneità.
Il secondo problema è a livello di messa in scena: dove si posiziona lo sguardo in questo film? La risposta è da nessuna parte.
La regista tradisce le sue premesse e finisce per raccontare comodamente – e soprattutto dopo aver sfruttato la promessa scaltra di fare ben altro – l’ossessione di un singolo e non un problema sociale. Non c’è aderenza con la complessità e la stratificazione del binomio bellezza-vecchiaia, che si dovrebbe ampliare al mondo che si è scelto di rappresentare, quindi al mondo della riproducibilità infinita e pervasiva delle immagini, che oggi è anche quello della dipendenza da sostanze dimagranti (la vicenda di Ozempic, il farmaco antidiabetico che ha spopolato su Tik Tok con relativa ossessione per la cadaverica Ozempic Face è uno dei trend degli ultimi anni).
Prendiamo un film recente che affronta gli stessi temi: Sick of Myself di Kristoffer Brogli, regista norvegese che come opera seconda racconta la storia di una donna, sì ossessionata dalla sua bellezza e dalla sua immagine, ma soprattutto dalle false narrazioni su di sé e sugli altri. Il film ha uno sguardo preciso, come una sorta di documentario che osserva petulante la miseria della protagonista, e fa una scelta: la protagonista esiste solo quando viene guardata o messa al centro di una discussione, la sua vita coincide con la produzione nuove immagini in cui è sempre più bella, più performante, in cui la confusione tra quello che è reale e quello che è nella sua testa diventa una linea sottilissima. È la storia di una malattia. Infatti entriamo nella sua testa più volte: la camera ci mostra le sue illusioni – diventare una scrittrice famosa o una top model – che coincidono sempre con il riconoscimento attraverso uno sguardo pubblico. La protagonista potrebbe essere una mia amica, una mia parente, una donna qualunque, mentre Sparkle non è nient’altro che sé stessa e questo è ciò che rende il film Fargeat autoreferenziale e astratto.
Il secondo problema è a livello di messa in scena: dove si posiziona lo sguardo in questo film? La risposta è da nessuna parte. Non c’è una scelta formale, l’ossessione – perché il film vuole essere un film sulle ossessioni – non è in nessun modo incarnata, la camera sceglie solo i movimenti e gli oggetti funzionali a un suo esercizio di stile peraltro neanche tanto originale. Se da una parte prova a mostrarci lo sguardo maschile, a spiegarci come il corpo della donna venga dissezionato e guardato in maniera assillante durante le riprese del programma tv cui lavora Sparkle, dall’altro non riesce a prendere una posizione precisa nei confronti della doppia protagonista.
Ci troviamo davanti al paradosso di una regia che è didascalica solo quando si tratta di impostare moralisticamente il discorso.
C’è una scena in cui Sparkle è entrata in un diner dopo aver preso la nuova fornitura di substance; di fronte a lei c’è un vecchio che conosce e che come lei è dipendente dalla sostanza e che le chiede se effettivamente ha seguito il suo consiglio: capiamo che il vecchio è la versione invecchiata/reale/originale del dottore che all’inizio del film l’ha introdotta alla sostanza. In ordine viene mostrato: un close-up di una macchia che il vecchio ha sulla mano, un flashback del dottore giovane in cui viene mostrata di nuovo la macchia, una scena in cui vediamo il numero che gli è stato assegnato dall’organizzazione della sostanza, un’altra scena in cui vediamo la cicatrice del vecchio dietro la schiena a sottolineare la partenogenesi avvenuta. Tutto questo solo per far sapere al pubblico: anche lui usa la sostanza! Era lui il medico che abbiamo visto all’inizio! E lì verrebbe da chiedersi, in un film che dura 140 minuti, come è possibile che nessuno abbia detto “ma forse questa ridondanza può essere eliminata, no?”
Secondo me, spiegoni ondivaghi come questo derivano dal problema di non aver saputo decidere che sguardo avere. Così ci troviamo davanti al paradosso di una regia che è didascalica solo quando si tratta di impostare moralisticamente il discorso e poi di tenerci nella storia – tante didascalie che però non ci raccontano niente davvero.
Il terzo problema, da cui in fondo potrebbero derivare i primi due, è che questo film rimane incastrato nella rete luccicante che vuole mettere in questione. Un film contro Hollywood che finisce per mostrarsi come intrinsecamente hollywoodiano, dalla direzione delle attrici (non c’è veramente un momento in cui si riesce a empatizzare con una Demi Moore che vorrebbe esprimere dolore eppure finisce per recitarlo, perché la finzione si svela in un secondo, diventa una performance sulla performance, non credibile) alla rappresentazione patinata di un mondo che si vuole criticare ma che forse si ammira feticisticamente, come ci suggerisce il tentativo del film di essere altrettanto scintillante e patinato.
Il terzo problema, da cui potrebbero derivare i primi due, è che questo film rimane incastrato nella rete luccicante che vuole criticare.
Se nella messa in scena non c’è la scelta di uno sguardo, c’è sicuramente una scelta estetica: The Substance mostra il mondo delle star e lo fa attraverso il suo stesso dispositivo: close-up forzati, suono che puntella i momenti di tensione più alti (non se ne può più di questa strategia, liberateci dalla cassa inesorabile a palla di cannone per dire la tensione), un contrasto telefonato tra il mondo esterno – coloratissimo – e il mondo privato – la casa dell’attrice – cupo e claustrofobico.
Il quarto problema è la confusione finale: dopo aver raccontato come la ragazza fagociti la vecchia, non rispettando più l’equilibrio biochimico dei sette giorni e portando Sparkle ad avere un corpo non conforme, il film cambia tema. Il binomio bellezza-vecchiaia viene teso fino all’estremo e ne ingloba un terzo, quello dei freak, quello dei Lynch e dei Browning. Ma cosa ne resta del corpo mostruoso? Una condanna retorica, vista e rivista, ma soprattutto improvvisata. The Substance non è un film sui corpi non conformi o ibridi, è un film che sfrutta questi corpi per creare una favola nera su Hollywood, sospesa nel tempo e nello spazio.
La resa visiva dell’ultima trasformazione fisica di Sparkle è l’unica cosa apprezzabile di tutto il film, finalmente qualcosa di disturbante dopo due ore di sola vernice rossa (come scrive Pezzotta citando Godard). Purtroppo il film nemmeno finisce qui, dobbiamo vedere, di nuovo, la stella sul pavimento losangelino con adesso solo il volto smostrato di Sparkle a sottolineare, ancora, quanto costi essere dive, giovani e belle e poi smettere di esserlo. A questo punto il film finisce e mi chiedo se non sarebbe bastato farne solamente un corto.