M artin Scorsese viene spesso considerato un guru e l’incarnazione vivente dell’eredità del cinema Americano. La nota cinefilia e devozione per i maestri della grande Hollywood, visti come numi tutelari, insieme alla capacità di attraversare, mantenendo una certa sofferta indipendenza, intere ere e fasi della settima arte, senza citare la recente vena polemica (vedi le prese di posizione anti-Marvel), ne fanno una figura quasi leggendaria (e in questo anche abusata), un punto di riferimento fuori e dentro “il mainstream”. Ovviamente la sua fama è soprattutto legata alla fortuna delle sue gangsters stories, all’essere riuscito a riconfigurare un intero genere e mitologia con lo sguardo e la sensibilità derivanti dal proprio ambiente di origine. La colpa come motore di senso, il desiderio di redenzione, l’individualismo sfrenato e il comunitarismo si tengono stretti in percorsi di ascesa e caduta (rise and fall) in cui grazia, innocenza, corruzione, peccato e il tradimento come necessario rituale di passaggio si intersecano e relazionano nella loro profonda ambiguità. In questo senso, non è difficile vedere come, sia che si passi una serata di bengodi al “Copacabana” con Henry Hill in Goodfellas (1990), che si accompagni Cristo sul Golgota o dei missionari attraverso il Giappone del 1600, ci si trovi di fronte a personaggi accomunati da simili tensioni: “meglio morire da eroe o vivere da mostro?” si chiede l’investigatore Teddy Daniels alla fine di Shutter Island (2011), ponendo un quesito che è in sé stesso insolvibile dilemma esistenziale e condensazione di un intero percorso cinematografico; un enigma che rimane sospeso tanto più che, per quanto intriso di cattolicesimo, il mondo Scorsesiano rimane puramente materialista, privo di ogni consolazione metafisica.
A sostituire Dio morto è il Capitale, come del resto è implicito nella stessa iconografia del gangster movie (non a caso il genere più emblematicamente hollywoodiano insieme al Western).
Infatti, pochɜ come il regista Newyorkese hanno saputo raccontare l’American Dream dall’interno, entrando pienamente in contatto con i suoi aspetti più seducenti e, allo stesso tempo, distruttivi, rendendoci carnalmente complici dei lussi, degli eccessi e del senso di compimento e riconoscimento collettivo a cui si associano idee di successo individuale. Solo stando con lɜ peccatorɜ senza assumere alcuna posa moralista, trovando umane le pene di personaggi miserabili, grotteschi, crudeli o semplicemente stupidi, si possono non tanto capirne le ragioni, cosa in sé piuttosto convenzionale, quanto attraversarne e sentirne le contraddizioni e le banali assurdità. Proprio per questo motivo, il mondo scorsesiano appare contemporaneamente come disincantato, cinico, competitivo e consumista fino alla paranoia suicida e, nonostante questo, perseguitato dalla presenza del sacro. Tuttavia, non sono tanto forze trascendenti o una spiritualità ancestrale a dominare il fato di Travis in Taxi Driver (1976) o di Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street (2013), quanto nuove fedi e culti con i loro codici, la loro liturgia e riti a definirne azioni a valori. A sostituire Dio morto è il Capitale, come del resto è implicito nella stessa iconografia del gangster movie (non a caso il genere più emblematicamente hollywoodiano insieme al Western). I soldi, confessa Belfort, sono la droga più potente che esista, non comprano cose, ti rendono una persona migliore; la ricchezza ripulisce, beatifica, compie ed esalta socialmente. Essere qualcuno, quindi, è possibile solo in quanto si è in grado di avere fede, di accettare le regole di una comunità, o di un gruppo sociale, che possa, allo stesso tempo, offrire un tale riconoscimento. Per questo stesso motivo, i gangsters e i santi-peccatori di Scorsese non riescono mai a raggiungere una soluzione definitiva, né presentano un atteggiamento fatalista, rassegnato e tragico rispetto al mondo e agli eventi che li circondano; li ritroviamo, invece, costantemente alla ricerca di un elusivo assoluto, o sono essi stessi pronti a tradire la propria vocazione in modo da poter ricominciare e continuare, così, il proprio percorso spirituale.
La fede dei personaggi di Scorsese è un culto privo di teologia, un vuoto insieme di pratiche e presunta razionalità economiche – con il suo clero di tecnocrati – in cui la morale è espressa in puri termini di funzionalità.
Ma, appunto, l’ascesi scorsesiana non è fatta di pura meditazione: è un’esperienza carnale, completamente immersa nel dolore e nel piacere. La sofferenza, inflitta o ricevuta, è sempre ricercata e accolta come segno di beatitudine: in questo senso, è difficile non pensare alle spaventose sequenze di lotta in Raging Bull (1980), al martirio dell’orrendo Jack LaMotta, furioso con i propri avversari così come masochisticamente avvolto nella propria misoginia, invidia, e in un infinito senso d’inadeguatezza che non può trovare altro che consolazioni parziali. Le stesse orge di The Wolf of Wall Street ci appaiono completamente prive di erotismo e, al di là del compiacimento comico che raccontano, sono per lo più pensate come dimostrazioni pubbliche di “correttezza morale”, di fedeltà e adesione a un credo. La fede dei personaggi di Scorsese ricorda, in tal modo, quella che Walter Benjamin attribuisce in termini generali al capitalismo stesso: un culto privo di teologia, un vuoto insieme di pratiche e presunta razionalità economiche – con il suo clero di tecnocrati – in cui la morale è espressa in puri termini di funzionalità. Non solo ogni cosa esiste unicamente in quanto in grado di partecipare alla macchina di estrazione valoriale; debito e credito, ricchezza e povertà diventano categorie morali, e la competizione, come unico motore comportamentale, ci tiene tuttɜ strettɜ, in estasi di fronte a un mondo che brucia ad ogni passaggio, ad ogni crisi, sempre più intensamente. Le braccia aperte di Belfort durante le sue demenziali orazioni sono circondate da un’aura di santità, così come adorante è, come immagine di chiusura del film, lo sguardo in macchina dellɜ partecipanti al suo ennesimo workshop. Una conclusione riflessiva che rivela la nostra complicità, la nostra acquiescenza, la disturbante e inconfessata condivisione di una stessa fede.
Eppure, da The Wolf of Wall Street (incluso, direi) in poi, lo sguardo di Scorsese cambia: gli aspetti seduttivi del sogno Americano svaniscono; le sequenze di montaggio violente, veloci, i toni accattivanti e il lusso sfrenato lasciano la scena a toni più contemplativi e malinconici. Sebbene sia stata da sempre un’illusione, l’ascesa al successo non poteva che affascinare. Le splendide sale da gioco di Casinó (1994), cattedrali – appunto – nel deserto che circonda Las Vegas, città finta per eccellenza, non sono altro che grandi riproduzioni del trucco del mago di Oz. “Siamo qui per i vostri soldi”, confessa la voce narrante di Ace Rothstein, reo di aver perso “il paradiso sulla Terra”, cosciente, pur nella sua adesione al credo, che dietro i drink, gli spettacoli, e i trucchi per farti sentire un vincitore (e spendere perché il banco, alla fine, vince sempre), non si nascondano altro che grotteschi gangsters attempati che preferiscono mangiare soffritti e braciole piuttosto che fare la bella vita sullo strip. Laddove un tempo lo sguardo ammaliante di una magnifica Sharon Stone nei panni di Ginger ci conduceva nelle sale da gioco, l’ironia machista faceva da collante sociale nei club o rendeva le cene in prigione un evento non da poco, il lavoro di Scorsese sembra, ora, non credere più allo sfarzo e alla forza dell’eccesso.
Personaggi come Frank Sheeran in The Irishman (2019), più che simpatiche canaglie, capaci di un’insopportabile tendenza distruttiva (sia verso lɜ altrɜ che sè stessɜ), alla lunga ci si rivelano come ordinari burocrati. Afflitto dall’impossibilità di scegliere fra due figure paterne: fra il Russ Bufalino che, già salvandolo in prima istanza, l’ha riconosciuto come membro della propria cerchia (condividendo con lui pane e vino, donandogli un anello che solo lui e Angelo Bruno posseggono come ristretto gruppo di eletti); o l’esagerato Jimmy Hoffa, istrionico, irascibile, maniacalmente attaccato al proprio ruolo ma, allo stesso tempo, profondamente carismatico e mosso da un piuttosto caotico (ad essere buoni) progetto politico, Frank finirà per seguire la scelta più ovvia e sicura: accettare la decisione di altri, pensare al benessere immediato (“si fottano gli altri, ho scelto noi”, ricorda sempre Bufalino) e compiere il proprio dovere, da bravo assassino e picchiatore gregario, sacrificando il secondo, stretto nella perdita del precedente privilegio e rancorosamente ostile all’idea di sentirsi un sottoposto di banalissimi gangsters. Il famigerato capo del sindacato dei Teamsters, infatti, come riconosce la figlia di Sheeran, Peggy, è qualcuno che nella poco raccomandabile compagnia di collaboratori del padre, non porta soprannomi imbarazzanti; per quanto compromesso e complice (oltreché, in verità, responsabile di diverse sconfitte per la classe operaia) Hoffa agli occhi della ragazza appare come qualcuno mosso da qualcosa in più del proprio immediato tornaconto e legato ad una confusa e profondamente discutibile idea di giustizia sociale. Insieme a questa non-scelta, all’ovvia pratica del proprio dovere, a cui si associa la sofferta incapacità di riconoscere la propria colpa, o di ammetterla – in parte – solo una volta di fronte ad una vecchiaia avvolta in una gelida solitudine, viene anche la completa decostruzione dei piaceri della vita criminale. I colori sgargianti di Goodfellas lasciano spazio a una messa in scena sommessa se non fredda, a grigi appartamenti in cui Sheeran e i suoi sodali sembrano raramente in grado di godere alcunchè. Persino il rituale del pane, così liturgicamente legato alla tradizione cattolica, alla condivisione materiale dello stesso corpo e sangue, diventa, ripetuto in tarda età, poco più di un atto svuotato di tensione e di afflato emotivo, compiuto da due uomini ormai scissi dal mondo che li circonda (Peggy esiste come testimonianza di questa rottura) terrorizzati dall’incombere della morte.
Nel raccontare la tragedia, Scorsese sembra allargare in modo sistematico la propria riflessione sull’idea di tradimento come atto originario.
E arriviamo dunque al recente Killers of the Flower Moon (2023). Nei suoi 206 minuti, l’ultima opera di Scorsese sembra fare i conti con le diversissime e coesistenti anime del suo lavoro in modo ancor più deciso del precendente The Irishman, in cui, come accennato, assistiamo ad una radicale deglamourizzazione della “propria” mitologia criminale. Nell’ultimo lavoro troviamo, invece, insieme a ricorrenti motivi del gangster movie, anche diversi richiami al melodramma classico, all’epopea Americana (ancora, sulle orme dei maestri, si pensi soprattutto a Il Gigante [1956] di George Stevens), al thriller hitchcockiano fino, addirittura, al dramma giudiziario. In questo ritorno al passato è possibile constatare il desiderio di confrontarsi proprio con i miti fondativi del cinema e, in modo più ampio, dell’eccezionalismo made in USA. Nel raccontare la tragedia della nazione Osage, del “furto” coloniale della ricchezza nascosta nelle viscere di una terra già ridotta a riserva, Scorsese sembra allargare in modo sistematico la propria riflessione sull’idea di tradimento come atto originario. Non vi sono eroi, raramente appaiono nel cinema Scorsesiano, ma neanche veri villain. Come già sottolineato da Pietro Bianchi, Ernest Buckhart e lo zio William “King” Hale (rispettivamente Di Caprio e De Niro) non sono altro che miserabili uomini medi privati di una qualsivoglia statura drammatica; idioti che non fanno altro che affirdarsi alla banalità del senso comune nel continuare e perpetrare, in quasi assoluta impunità, il genocidio dei nativi allo scopo di appropriarsi dei diritti sul petrolio che attraverso il territorio Osage.
Fra i pochi a distinguersi c’è la nativa Molly, interpretata da Lily Gladstone, sulla quale ricade il ruolo tragico di essere testimone di questo tradimento, e vittima della stupidità del marito Ernest e della crudele ignavia che lo rende complice del più efferato dei crimini. Molly sa benissimo che dietro il corteggiamento di lui si nasconde la brama di soldi: “chi è che non è mosso dal denaro, in un modo o nell’altro?” risponde alle sorelle sospettose delle intenzioni di Ernest, non diverse da quelle di ogni altro pretendente “bianco”. Aggiunge anche che Il coyote (questo il nomignolo attribuito al protagonista durante uno dei loro primi incontri), però, pensa anche a sistemarsi (“to settle”, verbo che indica anche l’insediamento coloniale), vuole casa e stabilità e sarà pronto a fare tutto il necessario per prendersi cura della propria famiglia. È questo malposto buon senso, insieme alla “maledizione” del diabete, a impedire a Molly di vedere le forze che si muovono sotto gli ovvi desideri di Ernest e del suo genuino affetto e devozione per la compagna: quell’accumulazione primitiva (come sottolineato sapientemente da Tania Rispoli) che costituisce la vera storia d’origine e pratica continuata del capitalismo, quel misto di “sangue e sudiciume” con cui il capitale viene al mondo, per usare una nota espressione di Marx; si estrae valore dalla terra e da ogni bene comune ridotto a merce, dalla forza lavoro, ma anche dalla vita stessa, che diventa nient’altro che mero contenuto finanziario, oggetto di speculazione fino all’esaurimento stesso di ogni possibilità riproduttiva.
Una violenza che, in quanto sistema e relazione di potere, non ha necessariamente grandi burattinai e pianificatori alle spalle; non è perpetrata da personaggi eccezionalmente crudeli o consci della propria hybris, come nella migliore tradizione tragica; ma che viene quasi passivamente agita da mediocri carnefici per poi essere compresa da chi ha la possibilità di osservare sub-specie aeternitatis, con un minimo di coscienza storica, come ci lascia intendere la meravigliosa immagine di chiusura del film. Una ripresa dall’alto, in God’s eye view, appunto, in cui la nazione Osage, come in apertura, sembra ritornare non tanto da protagonista, ma come testimone di una mancanza. Non vi è giustizia che tenga: le istituzioni raramente nei film di Scorsese sembrano andare al di là del mero dovere burocratico e, anche qui, le finali indagini dell’FBI sembrano più avvenire come un atto di notifica dei crimini commessi, invece di produrre una qualsiasi soluzione catartica. Persino la voce narrante, tipico strumento immersivo e drammatico del cinema di Scorsese, viene qui rimossa, o è solo presente attraverso pochi commenti evocativi di Molly, quasi a enfatizzare una distanza, ma anche l’incapacità di seguire in pieno lɜ protagonistɜ del dramma. In questo senso, il film, infatti, non va assolutamente approcciato, a mio modo di vedere, come un tentativo revisionista di ricostruire, portare in superficie e omaggiare una storia, un popolo, e un’antropologia perduta, quanto come un’analisi delle forze che portano all’erosione e alla rottura di queste stesse comunità e forme di vita; di quella lenta e insistente violenza che colpisce i corpi così come la loro ecologia. Ciò che vediamo rivelato da questa “assenza” è forse la caduta e scomparsa – o la distruzione per mano di quella che Karl Polanyi avrebbe chiamato la grande trasformazione – ancora, di una dimensione esistenziale alternativa, che ci appare solo in forma di visioni e premonizioni luttuose. Questa scissione, tuttavia, rimane profondamente presente come coscienza di un fallimento, di un vuoto di senso di cui è difficile non prendere atto.
Il cinema di Scorsese vive di una particolare intensità soprattutto quando un amore costretto a riconoscere la sua stessa fine, ci appare di fronte agli occhi in maniera così palese e straziante.
Se Killers of the Flower Moon esiste come la versione scorsesiana di The Man Who Shot Liberty Valance (1962), capolavoro crepuscolare dell’ultimo e adorato John Ford, è proprio in quanto Scorsese stesso, apparendo in un finale cameo, ammette tristemente la propria incapacità di fronte ad una storia cancellata e non può che farlo rivelando il suo amore sofferto per la mitologia Americana. Come per Ford, ricordava Robin Wood, il cinema di Scorsese vive di una particolare intensità soprattutto quando questa ambigua appartenenza, un amore costretto a riconoscere la sua stessa fine, ci appare di fronte agli occhi in maniera così palese e straziante. E l’ammissione di questa impotenza non porta perdono, non fornisce chiarimenti o vere spiegazioni. Come Ernest, infine, decide di confessare, illuminato da bianca luce salvifica sul banco dei testimoni, la propria complicità nel continuato genocidio dei nativi, così anche noi cerchiamo inutilmente redenzione, approvazione e rassicurazioni che non hanno nulla a che vedere con una trasformazione soggettiva (per non parlare di traiettoria politica). Per questo, pur riconoscendosi colpevole (ma pur sempre vittima delle trame dello zio) Ernest non è in grado di ammettere le propria responsabilità a Molly. Il suo unico modo di sentirsi coinvolto in crimini e orrori è sempre protetto e consolatorio. Il suo (e nostro) fallimento diviene così completo, al santo-peccatore non viene lasciata neanche l’estasi carnale, ma solo un’incommensurabile miseria esistenziale. Anche lo splendore della composta fotografia di Rodrigo Prieto o delle immagini del latifondo di William Hale avvolto da metafisiche fiamme (distruggere per aumentare valore e estensione) sono rigorosamente prive di ogni compiacimento virtuoso nel presentarci un lamento funebre scevro anche della possibilità della rivolta e della resistenza.
Quando il Capitale include, lo fa solo per trasformare la differenza in valore, per subito negare l’esistenza di ogni alterità.
L’ultimo lavoro di Scorsese ci appare radicale nel suo pessimismo, nel presentarci la Storia come un grande prodotto di potente mitologia e finzione, di drammi intensi e sofferti, raccontati – direbbe Shakespeare – da idioti con cui è possibile tentare di fare i conti solo a posteriori. Eppure, nonostante questa intensa dichiarazione di impotenza (o forse forte di tale consapevolezza) rispetto ad un passato irrisolto, Killers of the Flower Moon diventa uno strumento potentissimo per attraversare il presente e per identificare diverse dolorose contraddizioni del nostro contesto sociale. Non solo il film mostra senza pietà come dietro ogni illusione creativa e emancipatoria del capitalismo non vi sia altro (oggi come ieri) che la costruzione di un’economia della rendita, spesso familistica (Hale è ossessionato dal benessere della “stirpe”) e sempre parassitaria, in cui il dominio e la violenza si mascherano dietro paternalistiche immagini di compartecipazione e benevolenza. Il padrone che dice al dipendente scioperante “siamo tutti una stessa famiglia, perché ribellarsi?” ha la stessa smorfia indecente di Hale/De Niro e la stessa compiaciuta convinzione di agire in modo retto e appropriato. Insieme a questo, il genocidio degli Osage ci ricorda che, sempre, per continuare a espandersi, il Capitale ha bisogno di creare non-popoli, di indicare terre di nessuno da recintare, anche all’interno di presunti “primi mondi” ormai in rovina; che quando include, lo fa solo per trasformare la differenza in valore, per subito negare l’esistenza di ogni alterità; che la violenza coloniale, quella che il popolo Palestinese soffre da cento anni fino alla seconda orrenda e prolungata Nakba a cui ancora si assiste, non è pagina di libri di storia, ma l’incubo che insegue il nostro presente. Il capitalismo in fondo, come il petrolio che esplode quasi come una condanna metafisica sui corpi dei nativi danzanti, non è nient’altro che sangue e merda.