S iamo la prima fiera al mondo per numero di visitatori, circa quattro milioni ogni anno. E la seconda, dopo Francoforte, per spazio espositivo, con una superficie coperta di 136 chilometri quadrati. I paesi rappresentati sono più di quaranta, dall’Afghanistan alla Serbia, passando per la Cina e ovviamente l’Italia, ospite d’onore quest’anno. Le case editrici sono circa 3.000, più di 110 straniere”. Il direttore della Tehran International Book Fair, Amir Masoud Shahramnia, snocciola con orgoglio i primati della sua fiera, “un’occasione unica per mettere in contatto lettori ed editori, in un sistema come quello iraniano in cui la distribuzione è carente”. Lo incontro all’interno della Città del Sole, Shahr-e-Aftab, un complesso fieristico monumentale costruito alla periferia meridionale di Tehran, megalopoli inquinata e caotica da almeno dieci milioni di abitanti. Uno dei motivi per cui, continua il direttore, “l’organizzazione non è semplice ma nel corso del tempo abbiamo imparato a prendere le misure: siamo alla trentesima edizione”.
Per l’Italia, invece, è la prima volta. “La prima volta che un Paese occidentale viene chiamato come ospite d’onore della Fiera”. Nei discorsi inaugurali viene presentato come “un successo della diplomazia culturale”, precisano sia l’ambasciatore italiano, Mauro Conciatori, che Carlo Cereti, consigliere culturale dell’ambasciata e docente di studi iraniani all’Università di Roma La Sapienza. Anche al netto del linguaggio del protocollo ufficiale, è un risultato non scontato, parte di una collaborazione che tutti inevitabilmente definiscono “storica” e “destinata a consolidarsi in futuro”.
Così recita per esempio il testo finale della seconda edizione del “Dialogo culturale tra Iran ed Europa-Italia”. Mezza giornata di discussioni accademiche affidate a una quindicina di relatori, italiani e iraniani, chiamati dall’università di Tehran e da Treccani (che è anche l’editore di questa rivista, NdR) a ragionare su “Il ruolo dell’arte nello sviluppo delle relazioni e collaborazioni scientifiche e culturali”.
Se la presenza dell’Italia rappresenta una novità, la mostra “Libri sulla via della seta” rientra nella valorizzazione del passato. Trentanove edizioni rare provenienti dalla Biblioteca Angelica di Roma, esposte in uno dei locali della Biblioteca nazionale di Tehran, un’altra opera architettonicamente ambiziosa e monumentale (cinque milioni di volumi, quattro chilometri di binari per trasportarli, quattro piani interrati e quattro in superficie) nella parte nord della città, ai piedi dei monti ancora innevati. La mostra raccoglie libri di viaggio e carte geografiche, alcune datate alla metà del XVI secolo, una storia topografica dei rapporti tra Occidente e Persia e un esempio degli scambi secolari che legano Iran e Italia. Intermittenti negli anni dell’isolamento più impermeabile del regime di Tehran, oggi sono stati rilanciati grazie alle aperture del presidente Hassan Rouhani.
Il 19 maggio Rouhani si gioca il secondo mandato: 56 milioni di potenziali elettori sono chiamati a una sorta di referendum: dire sì alla “svolta conciliatrice” condensata nell’accordo sul nucleare del luglio 2015, come auspicano i centristi-riformatori che sostengono Rouhani, o voltargli le spalle, come propongono i conservatori fedeli ai principi del 1979, sostenitori di Ebrahim Raisi. Clerico, già procuratore, pupillo del leader supremo Khamenei, Raisi è a capo di una fondazione religiosa con un patrimonio da 15-20 miliardi di dollari e interessi economici dall’edilizia alla farmaceutica. La sua candidatura è partita in sordina ma ha ricevuto il sostegno dello “stato profondo”, di pezzi importanti delle Guardie della rivoluzione, del leader supremo e dell’altro candidato-forte dei “principialisti”, il sindaco di Tehran Ghalibaf, che si è ritirato per sostenere Raisi contro Rouhani.
“Le presidenziali sono un rebus qui in Iran, ma non credo che le aperture verranno interrotte, anche se Rouhani non dovesse essere rieletto. Le aperture sono espressione della società, che è giovane, dinamica, istruita, non solo di un governo”, sostiene Felicetta Ferraro. Già docente di Storia dell’Iran all’Orientale di Napoli e addetta culturale dell’ambasciata per otto anni, Ferraro svolge un ruolo cruciale nel traghettare la cultura iraniana in Italia, e viceversa. Alcuni anni fa ha fondato con Bianca Maria Filippini Ponte33, una casa editrice specializzata nella traduzione della letteratura persiana e a lei si deve la scelta degli ospiti iraniani del programma del padiglione Italia. La formula è quella del dialogo tra un italiano e un iraniano, con una nutrita delegazione partita dal nostro Paese. Tra gli altri ci sono Michela Murgia, Michele Serra, Valerio Magrelli, Marco Belpoliti, Marianna Mazzucco, Guido Scarabattolo: volti che campeggiano sulle pareti della “Via degli scrittori”, dove i giovani iraniani accumulano selfie su selfie.
Più di venti, invece, sono le casa editrici che hanno aderito alla Fiera, ma “solo quattro quelle presenti”, precisa Paola Seghi dell’associazione italiana editori. C’è la Brioschi, che punta molto sui libri per ragazzi e sulla nuova collana di narrativa persiana, diretta da Anna Vanzan; ci sono le edizioni Guerra, con i testi di insegnamento dell’italiano; c’è Edra, specializzata nella manualistica di medicina e veterinaria. E c’è Ponte33. Mancano le grandi case editrici.
“Ed è un peccato”, sostiene Giacomo Longhi. Laureato in letteratura persiana e araba alla Ca’ Foscari di Venezia, Longhi è un giovane traduttore che cerca di scovare buoni autori da far conoscere al pubblico italiano: “il lavoro di selezione è complicato. Affido le letture anche ad altri amici e provo a bussare alle porte dei grandi editori”. Per ora, perlopiù chiuse.
Non credo si tratti di pregiudizi culturali, piuttosto di pregiudizi commerciali. Le grandi case editrici italiane devono essere sicure di ciò che mettono sul mercato. Quello degli stereotipi orientalisti è già saturo, gli editori lo sanno. Ma trovare autori sufficientemente maturi per il mercato italiano non è facile. Qui c’è una buona generazione di scrittori e scrittrici 30-40enni, ma alcuni devono ancora tirar fuori il romanzo della maturità.
Nell’attesa, si traduce poco. Un dato: dagli anni Venti del Novecento a oggi, sono stati tradotti in italiano meno di cinquanta titoli della narrativa persiana contemporanea. “Sembra sorprendente, ma va contestualizzato: in Italia si traduce molto dall’inglese, dal francese, pochissimo dalle lingue extraeuropee. Dall’arabo – che include una realtà geografica molto più ampia del persiano dell’Iran – sono state tradotte trecento opere circa. A paragone, il dato sull’Iran è ragionevole”, precisa Longhi, che per Ponte33 ha già tradotto Non ti preoccupare, romanzo pluripremiato della scrittrice Masha Mohebali.
Qui alla Fiera Masha Mohebali è stata chiamata a discutere con Michele Serra intorno al tema “Ogni giovane potrebbe…”. Serra si presenta come “uno scrittore quasi vecchio, di un Paese certamente vecchio, dal punto di vista demografico e sociale”. Chiede al pubblico e alla sua interlocutrice se, “qui in Iran, il futuro è ancora integro, non già consumato come da noi, in Europa”, continente “esausto”, “alla fine di un ciclo cominciato con la rivoluzione industriale e con le rivoluzioni democratiche”. Masha Mohebali nota che negli ultimi romanzi di Serra il punto di vista è sempre quello del vecchio, del genitore, mentre lei ha optato per la strada opposta, complementare alla sua. Protagonista di Non ti preoccupare, per esempio, è la giovane Shadi, che durante una serie di scosse telluriche a Terhan “non pensa ad altro che a rimediare un po’ d’oppio”. Rappresenta “i giovani che non seguono più nessun ‘ismo’, che vogliono godersi la vita, e che contestano ai padri l’eredità difficile di una rivoluzione di cui non sanno molto e che finisce per emarginarli, in un Paese dove ogni momento è lecito aspettarsi qualche terremoto”.
Alla fine dell’incontro chiedo a Mohebali di spiegarmi meglio la questione generazionale, così centrale in tanta letteratura persiana contemporanea, e il modo in cui la narrativa mette in forma la società che cambia. Parte da lontano: “Negli anni Sessanta e Settanta c’era una letteratura nuova, promettente. Negli anni successivi, con la rivoluzione, la guerra con l’Iraq, l’uccisione di molti intellettuali dissidenti, è come se si fosse fermata”. Per rifiorire soltanto a partire dagli anni Duemila, “quando alcuni giovani scrittori hanno ripreso il lavoro interrotto decenni prima”. Progressivamente, “le donne hanno cominciato ad affermarsi. Non è dipeso da un’azione politica vera e propria, ma dalla voglia di esprimersi. E di raccontare nuovi aspetti della vita quotidiana”.
La questione generazionale è un tema letterario ricorrente a ogni latitudine, “un po’ come l’amore, i tradimenti”, ma qui in Iran ha un significato particolare: “perché una generazione ha deciso di fare la rivoluzione, e quelle successive, che non hanno avuto alcun ruolo, devono viverne le conseguenze”. Mohebali conferma quello che mi sembra il principale paradosso iraniano: un’architettura politico-istituzionale ancora rivoluzionaria, perlomeno sulla carta, e una società in cui tre quarti della popolazione è post-rivoluzionaria, perché nata dopo il 1979 e poco ricettiva verso le parole d’ordine del regime. “Le nuove generazioni non sono più disposte al martirio, a sacrificarsi per la causa rivoluzionaria. Hanno visto un’intera generazione morire. Aspirano al cambiamento. Ma in modo pacifico, non-violento, e graduale. È un segno di maturità della nostra società”.
“Una società che guarda al futuro, al mondo esterno”, aggiunge Felicetta Ferraro. Per lei, “la presenza dell’Italia come ospite d’onore, oltre che un importante riconoscimento reciproco, è un segnale politico importante, rivolto all’Occidente e in particolare all’Europa”. Il segno che il governo iraniano – e prima ancora la società: “è pronto ad aprire un dialogo serio, onesto, a mantenere aperta quella finestra che l’elezione di Trump negli Stati Uniti rischia di chiudere”. Ma “dove la politica latita, la cultura supplisce”, mi dice Antonia Shoraka, critico cinematografico, traduttrice e responsabile del dipartimento di Italianistica alla Islamic Azad University di Tehran. “Anche nei momenti peggiori, quelli della guerra e dell’isolamento quasi completo, la cultura – in particolare il cinema – è riuscita a fornire un’immagine dell’Iran diversa da quella stereotipata offerta dai media”. E l’Italia, “più e meglio di altri Paesi europei, come la Francia e la Germania, ha sempre mantenuto canali aperti”. Un legame che può essere rafforzato grazie alla letteratura, “ma serve tempo per recuperare le occasioni perdute e per aggiornare le conoscenze”.