Davide Grillo: “Due assistenti universitari non sono stati arrestati perché nel cassetto della loro scrivania c’era l’arma del delitto, perché avevano un movente per uccidere o perché hanno confessato di aver sparato in testa a una ragazza. Sono stati arrestati per un granello di polvere.” Si apre così la serie podcast Polvere, otto puntate nelle quali Chiara Lalli e Cecilia Sala ricostruiscono il caso dell’omicidio di Marta Russo (Lalli era all’università la mattina dell’omicidio, Cecilia Sala ha avuto come insegnante Giovanni Scattone) avvenuto il 9 maggio 1997 in una stradina interna della città universitaria della Sapienza di Roma.
Polvere è il risultato di un anno di studio e di ricerca tra le carte, le registrazioni delle udienze e degli interrogatori, le registrazioni telefoniche, le interviste agli esperti, ai protagonisti, agli amici, ai testimoni, agli inquirenti e a tutte le persone coinvolte direttamente o indirettamente che si sono prestate. Una controindagine scritta ventitré anni dopo, a partire da una storia straordinaria, tanto da essere una fiction perfetta, in alcuni casi perfino esagerata nella quantità di piste possibili e incredibili dettagli (la scoperta di arsenali nascosti alla Sapienza, una testimone chiave sospettata di essere una collaboratrice della polizia, perizie basate su forzature quasi risibili), con il solo inconveniente di essere una storia vera.
Christian Raimo: Il fatto che Polvere sia una storia vera non soltanto riesce a appassionarci di più, ma in quanto storia vera ci pone diversi problemi sullo stesso fare narrazione, sul fare storia, sul fare inchiesta.
Il 9 maggio 1997 avrei potuto essere l’alibi di Giovanni Scattone. Avevo ventidue anni e mi trascinavo da mesi l’esame di Storia della filosofia morale con Eugenio Lecaldano, dovevo consegnare una tesina su On Liberty di Mill, che mi ero convinto di scrivere in terzine dantesche. Ma anche quella mattina mi ero alzato troppo tardi per l’orario di ricevimento, e come ripiego mi ero risolto a smaltire un po’ di ore di una borsa di collaborazione: quale parte eletta di quella generazione di amanuensi postmoderni che, a comodo uso degli uomini futuri, negli anni ’90 ha trasformato sesquipedali masse cartacee in infinite linee di zeri e uni, digitando ore su ore, quella mattina avevo codificato una quarantina di pagine della Luna e i falò di Cesare Pavese. All’una ero uscito da quella silenziosa stanza-bunker del dipartimento di informatica umanistica della Sapienza e mi ero infilato nella cappella universitaria, spazio di un’afonia ancora più assoluta; mi ero messo a pregare nell’abside. Sapevo pregare molto meglio allora perché avevo capito che l’unica condizione necessaria alla preghiera è inginocchiarsi e stare fermi almeno cinque minuti. Poi ero riemerso dalla chiesa al mondo fornito di audio, avevo preso il 310 e ero andato a Villa Mirafiori, la sede staccata di filosofia sulla Nomentana. Avrei trascorso un altro pomeriggio a cercare qualcosa che accomunasse me e le altre facce che vedevo ogni giorno ordinare orzi in tazza grande al bar, ma una lettrice di inglese che conoscevo (una ragazza impercettibilmente strabica, con gli occhi come vibratili verso due fuochi diversi) mi aveva fermato con le dita strette a gancio sul mio polso e mi aveva chiesto: “Ma tu hai sentito ‘sta storia che hanno sparato a una tizia alla città universitaria?”
Quando arrestano Scattone, mesi dopo, il suo alibi è di essere andato al ricevimento di Lecaldano. Il professore viene più volte interrogato: non soltanto non si ricorda ma dice di essersi sbarazzato dell’agendina su cui segna gli appuntamenti. Nell’ambiente universitario la fama di Lecaldano è quella di essere un professore straordinario e un grande dimenticone, un distratto. Quando sento che Scattone lo chiama a essere il suo alibi, penso: merda!
Davide Grillo: Nella prima puntata vengono raccontati i fatti della giornata del 9 maggio. Marta Russo sta camminando nella città universitaria, a un certo punto si accascia a terra come per un malore. La sua amica Iolanda Ricci che le sta a fianco si accorge quasi subito che invece perde sangue da un buco in testa. Marta viene portata d’urgenza al Policlinico, dove morirà qualche giorno dopo senza aver ripreso conoscenza.
È impossibile ricostruire la traiettoria del proiettile, si presume sia partito da una delle più di cento finestre che si affacciano sul vialetto. La recente vittoria dell’estrema destra insieme alla ricorrenza inquietante (9 maggio) del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro fa pensare a un atto di terrorismo delle nuove Br; in quel momento stava infatti passando sul viale un professore universitario. Iolanda Ricci, che camminava insieme a Marta, aveva ricevuto delle chiamate anonime, così come il padre direttore del carcere di Capraia e Rebibbia, e si pensa ad una vendetta di un ex detenuto. Vengono ritrovate anche altre armi di proprietà di professori e collaboratori. Uno studente, infine, Adriano Leoni riferisce alla polizia di aver notato quella mattina una finestra aperta in un bagno disabili al primo piano di statistica normalmente chiusa. Questo bagno si trova proprio davanti a dove è accaduto il delitto, accanto al ripostiglio della ditta di pulizie Pultra, soprannominato “il deposito”, dove vengono ritrovati bossoli e silenziatori. Dalle registrazioni viene anche fuori che i dipendenti della Pultra avevano già precedentemente sparato alla Sapienza da quel bagno; vengono ritrovati dei bossoli e delle scalfitture sul muro di fronte, molti di loro hanno il porto d’armi, sparano al poligono. Tutte queste piste vengono abbandonate all’arrivo della perizia che certifica il ritrovamento certo di un residuo di sparo in aula 6 (aula assistenti di filosofia del diritto). Da quel momento le indagini e i sospetti si concentrano unicamente sull’aula 6 e su Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro che non hanno un alibi. La perizia sul granello di polvere però è inaffidabile: quella particella non è univoca, potrebbe trattarsi del residuo di una frenata.
Christian Raimo: Tutto il processo, uno dei processi più noti della storia contemporanea italiana, un processo sicuramente paradigmatico per come è stato raccontato, in realtà – come viene ricostruito nell’ultima puntata di Polvere – si fonda su un presupposto inconsistente. Le ipotesi delle altre piste investigative sono per me la parte meno interessante della ricostruzione che fanno Lalli e Sala; anche loro credo lo sappiano. La questione importante non è trovare i colpevoli che scagionino Scattone e Ferraro, ma riportare passo passo le varie tappe delle indagini e del processo che hanno portato alla loro condanna. Quello che viene fuori è il ritratto di un’epoca.
Il modo di fare ricerca e narrare di Lalli e Sala è di integrare tre metodi, tre modelli epistemologici: l’indagine storica, l’inchiesta giornalistica, l’indagine giuridica. Polvere diventa così una riflessione sulla verità, sullo statuto della verità all’interno del dibattito pubblico.
La serie segue diversi piani narrativi, come se desse retta a Bachtin e alle sue tesi sulla polivocità del romanzo. Polvere assomiglia per molti versi a un romanzo: la sua cifra più interessante è proprio la verosimiglianza del vero. C’è la ricostruzione degli interrogatori, quella delle indagini, quella del processo, il racconto dei media, e – questa è per me la parte più interessante – il racconto di come Lalli e Sala hanno ripercorso la vicenda: senza nessun vezzo metanarrativo, ma con la consapevolezza che non si può non entrare in questa storia per raccontarla.
Davide Grillo: Le registrazioni e le ricostruzioni degli interrogatori degli inquirenti, così come le registrazioni dei processi: forse li abbiamo dimenticati, molti si possono ascoltare per intero su Youtube, ma anche i brani che vengono inseriti in Polvere sono eloquenti. Sembrano un manuale di come non andrebbe svolta un’indagine e un interrogatorio. Durano ore e ore fino allo sfinimento, i teste vengono messi sotto pressione, minacciati direttamente e forzati a fornire dei nomi (quando non ne hanno in mente gli vengono consigliati) o si trovano costretti a avallare una versione dei fatti per non rischiare ritorsioni.
Il podcast si sofferma parecchio sul problema dell’attendibilità della memoria e dei ricordi di test posti sotto pressione e minacce. Uno dei principali gravi difetti degli inquirenti e dell’accusa è quello di basarsi su ricordi di tipo ricostruttivo, ricordi ricostruiti a posteriori spesso sotto pressioni e minacce. Come fa notare Piergiorgio Strada, neuroscienziato e professore emerito di neurofisiologia: “La memoria non vale niente, la memoria deve solo indicare qualcosa in cui si scopre la prova del delitto. La memoria di per sé non può costituire prova del delitto, questo è il punto fondamentale. Anche nell’invitare a ricordare bisogna stare molto attenti. Quella è una vera e propria manipolazione. E questo è molto frequente.”
La memoria dei teste deve solo portare alle prove. L’affidabilità della memoria nelle testimonianze oculari è l’argomento della sesta puntata. Qui sempre da Strada apprendiamo che le identificazioni erronee dei testimoni oculari sono la principale causa degli errori giudiziari. Per il Giudice Rakoff si tratta del settanta per cento su trecentosessanta casi di condanne ingiuste.
L’immagine che viene fuori da questa serie è quella quantomeno di una giustizia non in grado di riconoscere i propri errori, di riflettere sulla legittimità delle sue pratiche. Che non pensa neanche per un attimo che l’errore possa essere proprio, neanche nel caso di un referto sbagliato. Non contempla la possibilità della propria ignoranza.
Definire gli inquirenti di questo caso psico-rigidi sarebbe riduttivo, sarebbe riduttivo anche definirli ottusi. Certo sono anche loro sotto pressione mediatica e agiscono in base a un referto che ritengono incontrovertibile, sono in parte il prodotto storico di una mancata riforma della giustizia, di un mancato aggiornamento dei progressi psicologici degli ultimi cinquant’anni. Ma non si tratta solamente di questo: in alcuni momenti l’atteggiamento sembra quello di qualcuno che vuole per forza riempire un cruciverba con parole troppo lunghe o troppo corte.
Christian Raimo: Il 1997 è un anno che sta a metà tra la fine della prima repubblica e Genova 2001. La magistratura dopo Tangentopoli e gli attentati omicidi a Falcone e Borsellino gode di un’aura quasi sacra: il suo ruolo nel dibattito pubblico ha quasi sostituito completamente quello della classe politica a sinistra. Il 1 gennaio 1997 esce per Micromega un pamphlet firmato da Antonio Di Pietro, s’intitola La mia politica, il 17 novembre diventa senatore della repubblica, compiendo una kenosis del corpo giudico in quello politico. I migliori della mia generazione si iscrivono a giurisprudenza, che da facoltà storicamente di destra contrapposta – anche da un punto di vista urbanistico – a lettere, diventa invece un luogo dove emergono altre tensioni politiche. Gli indagati, Scattone e Ferraro, non vengono riconosciuti antropologicamente come portatori di un’aria di famiglia. L’immagine che viene costruita su di loro è quella di due figli di papà fascistelli. Sui giornali si sprecano i paragoni: come gli assassini stupratori del Circeo, come la setta Ludwig. Gli occhi chiari di Scattone diventano occhi di ghiaccio, l’accennata impertinenza di Ferraro mancanza di scrupoli. Quando si comincia a legittimare il movente del delitto perfetto (ossia, come bene sottolineano Sala e Lalli, il movente della mancanza di movente), l’immagine dei fascistelli arricchiti figli di papà si colora di nero attraverso citazioni, estrapolate dai diari, di Heidegger o altri pensatori conservatori.
Davide Grillo: Dalla seconda alla quarta puntata vengono ricostruite e raccontate le settimane che passano dai risultati del referto dell’aula 6 a quando viene risolto il caso. Sono in larga parte la storia del perché le due testimonianze principali, quella di Maria Chiara Lipari e quella di Gabriella Alletto sono molto inattendibili.
La testimonianza di Maria Chiara Lipari è forse la più surreale, contraddittoria e confusa. Nega di aver visto alcunché, poi sostiene che forse poteva esserci una persona, Mancini (che le viene suggerito dagli inquirenti), che però – bastano semplici accertamenti – non poteva esserci; allora sostiene che ci fossero con lei anche Alletto e Liparota e infine, ma solo dopo aver scambiato due poliziotti in borghese per pedinatori calabresi, fa il nome di Ferraro, calabrese anche lui, pur ammettendo di non poter dire nulla sulla sua presenza nella stanza.
Salvatore Ferraro nell’intervista in Polvere fa notare il livello di attendibilità che può avere un teste dopo aver messo a verbale la presenza di una persona poi non presente. Lipari passa la notte al commissariato, i poliziotti durante l’interrogatorio la minacciano di “sputtanare” lei e suo padre, la inchiodano al “mors tua vita mea”, minacciano di incolpare lei dell’omicidio. Al telefono dirà ad un suo amico: “Fino alle cinque di mattina hanno voluto che dal subconscio dall’ano proprio del cervello mi venisse in mente qualche faccia, qualche immagine. Ma cosa devo dire se non mi ricordo?”
La mattina dopo il primo interrogatorio il Tempo titola: Università, superteste ha visto il killer! Perché la polizia non protegge l’identità del teste, perché finisce sui giornali?
Alletto da parte sua sostiene per giorni e giura sui suoi figli di non essere mai entrata in aula 6; gli inquirenti minacciano di fare luce sulla sua assunzione per invalidità, dopo le minacce la fanno veramente visitare da un medico legale la cui perizia viene consegnata al pm La Speranza. Lo stesso La Speranza le dirà: “Signora per quanto mi riguarda io l’ho chiarito come è successo il fatto ma io la devo tirare fuori da quell’altra aula dall’aula quattro se no mi incasina tutto il resto”.
Su Repubblica esce una notizia della presunta assunzione illegale per invalidità civile del personale a Filosofia del Diritto.
Agli interrogatori successivi accompagnata dalla presenza anche questa farsesca di un suo cognato commissario al quale gli inquirenti promettono un encomio scritto per servizio svolto (in cosa consistesse quest’ultimo non è chiaro), Alletto viene minacciata di venire condannata per favoreggiamento o per omicidio. “La prenderemo per omicidio!”, continuano a ripetere; Alletto piange e continua a giurare sui suoi figli che non è mai entrata in quella stanza. Passano altre quattro ore prima di rimandarla a casa, la mattina dopo nell’informativa della questura la presenza di Alletto nella stanza viene data per certa.
Christian Raimo: Polvere ricorda moltissimo Amanda Knox, il documentario di Netflix sul delitto di Perugia. L’anomalia felice di Polvere è quella di raccontare la cronaca nera con uno sguardo a tutto tondo, non privilegiando la prospettiva di chi indaga o di chi riporta, ma provando a avere uno sguardo più largo. Quello che emerge è come l’alleanza tra racconto giornalistico e indagine giudiziaria sia stato uno storytelling fortissimo capace di occupare lo spazio del dibattito pubblico in assenza degli altri attori per tre decenni. Semplicemente i giudici – i magistrati inquirenti – e i giornalisti erano più credibili, e non tanto i processi mediatici, quanto le indagini mediatiche sono diventate da Tangentopoli in poi un modello di narrazione davvero potente e egemone.
La narrazione di Sala e Lalli è un’antifrasi perché arriva dopo e arriva lenta. Si dà tempo, al contrario di un racconto giornalistico e giudiziario, che, come viene ricostruito da Polvere, è adrenalinico.
Le puntate continuano con una gragnola di colpi di scena: arresti, accuse non verificate, smentite, confessioni. Finché non si arriva all’incriminazione di Giovanni Scattone. La cronaca del caso Marta Russo sembra dover rispondere soprattutto alla fame dei media di notizie e di colpevoli. Come funziona una giustizia e un giornalismo, che ogni giorno educano al consumo e che non sopportano il fallimento che è una base della ricerca? Anche in questo il caso Marta Russo è stato un caso spartiacque.
Gli errori sembrano poter far parte di una narrazione avvincente, i fallimenti no.
Davide Grillo: In quarantotto ore gli inquirenti risolvono il caso. Succede di tutto. Il direttore di Filosofia del diritto Bruno Romano viene arrestato per favoreggiamento. Pensano faccia pressioni sui teste per non farli parlare. Arrestano il complice senza conoscere il colpevole, fa notare Gaetano Carcaterra. Alcuni assistenti anonimi commentano all’Ansa: “Sembra che questo arresto serva soltanto a convincerci a dire il falso perché, non sapendo niente dell’omicida, ce lo dobbiamo inventare.” Alletto viene interrogata insieme a Maria Chiara Lipari e continua a sostenere che non è mai entrata in Aula 6. Nella versione della Lipari emergono oggi nuove contraddizioni da un testimone anonimo che le due autrici intervistano. Le due testimonianze sono inconciliabili. In uno dei tanti interrogatori gli inquirenti dicono a Alletto: “Ogni volta che senti suonare il telefono devi tremare. Devi pensare che stiamo arrestando”.
Alletto continua a chiedersi perché inspiegabilmente la Lipari si ostini a volerla coinvolgere. Viene nuovamente interrogata dalla Digos accompagnata da un collega e sostiene ancora di non essere mai stata presente in aula 6. Passa un altro giorno di interrogatorio, di notte la Alletto cambia versione: “Ho visto Scattone sparare e Ferraro mettersi le mani nei capelli”.
Christian Raimo: Quanto lo storyelling influenza la ricerca della verità? Come nel delitto di Perugia abbiamo un complice senza colpevoli, nel caso Marta Russo abbiamo dei colpevoli che come movente hanno la mancanza di moventi.
La parte più interessante di Polvere sembra proprio non lo svelamento degli errori, ma il racconto del dubbio, di tutta quella gamma di esitazioni, di rimozioni, di mezze menzogne. (Per questo i minuti meno convincenti sono gli ultimi dell’ultima puntata che alludono alle piste non seguite).
Dopo più di un anno passato a parlare con i protagonisti di questa storia a leggere le carte, a riascoltare il processo e a fare domande agli esperti per capire qualcosa in più, ci siamo rese conto che ad ogni telefonata ad ogni verbale ad ogni racconto i nostri dubbi invece di sparire aumentavano. Insieme ad una sensazione di vuoto, insoluto e di angoscia forse proprio la stessa sensazione di cui gli inquirenti volevano liberarsi concentrandosi sull’aula sei e abbandonando le altre ipotesi.
Come lo storytelling giuridico e giornalistico influenza lo statuto della verità? È interessante come molti dei protagonisti di Polvere si giustifichino rispetto alle loro mancate dichiarazioni o alle proprie smentite. La verità non è qualcosa da ricostruire, da scoprire, ma qualcosa da costruire, da elaborare.
Il caso Marta Russo sembra proprio raccontare un momento paradigmatico della fine del Novecento. Quando le grandi interpretazioni vengono sostituite dalle narrazioni avvincenti (è forse un caso il successo del noir che sostituisce il giallo speculativo?), i maestri del sospetto lasciano il campo ai campioni della narrazione, i dubbiosi ai mitopoietici. Il nuovo secolo nasce lì, ci siamo ancora dentro.