R onaldo è il titolo del documentario biografico, uscito nel 2015, in cui si racconta un anno di vita del calciatore portoghese Cristiano Ronaldo. Dato che molti si riferiscono a lui in quel modo quando vogliono confrontarlo a Ronaldo quello vero – e cioè il fenomeno brasiliano che ha giocato nell’Inter alla fine degli anni Novanta – e che in Italia si preferisce chiamarlo con la sigla CR7 o con il doppio nome, va detto subito che Ronaldo è come si rivolgono a lui in famiglia.
Questa è la prima cosa che si impara dalla visione di Ronaldo: che la madre, il fratello e il resto dell’entourage lo chiamano Ronaldo. Non lo chiamano Cristiano, come negli ultimi anni qualcuno ha iniziato a fare in segno d’affetto, come si fa anche con Messi chiamandolo semplicemente Leo.
Incinta del quarto figlio, dopo aver chiesto inutilmente a un dottore di abortire, e dopo aver provato su suggerimento di una maga a bere birra nera e a correre fino allo sfinimento, la madre Dolores ha deciso di chiamarlo Ronaldo in omaggio al presidente degli Stati Uniti in carica al momento della nascita, Ronald Reagan. Anzi: Ronald Reagan era l’attore preferito di suo padre, Dinis, traumatizzato dalla guerra in Angola e per questo diventato alcolista. In Brasile, dove i calciatori si fanno chiamare col soprannome, può capitare che si crei confusione tra giocatori omonimi. Ronaldo Luis Nazario de Lima, quello vero, ha giocato le Olimpiadi del ‘96 con il nome di Ronaldinho, per non essere confuso con il difensore Ronaldao, che si faceva chiamare Ronaldo. Poco dopo è uscito fuori un altro brasiliano di nome Ronaldo de Assis Moreira, che però dall’inizio è diventato Ronaldinho.
Il fatto che anche un giocatore portoghese, di nove anni più giovane dell’amatissimo brasiliano, si chiami Ronaldo, per quanto sia solo una coincidenza, non ci piace. Ci confonde le idee e ci sembra un’appropriazione. E in effetti, il nome Ronaldo, è un’appropriazione, solo non di chi pensiamo noi. Ronaldo è il nome ispirato a un attore diventato Presidente degli Stati Uniti, è la pretesa di successo universale di una famiglia povera e piena di problemi nei confronti del loro ultimo figlio maschio. A partire dal titolo, c’è uno strano contrasto tra lo scopo palese del film, quello di avvicinare gli appassionati alla star internazionale offrendo accesso alla sua intimità, e la strana distanza che sembra impossibile da colmare quando guardiamo Cristiano Ronaldo.
Un’agiografia?
Al tempo stesso, nella distanza che ci separa da Cristiano Ronaldo, non sembra esserci nessun mistero. Cristiano Ronaldo è sempre presente nella sua interezza davanti a noi. Per quanto non ci parli d’altro che del successo, di quanto era importante per lui avere successo, di quanto è stato duro avere successo, di quanto sia bello avere successo, in effetti non sembra avere altri pensieri da tenere nascosti. Diretto da Anthony Wonke e prodotto da James Gay-Rees, Ronaldo è l’unico documentario autorizzato da Cristiano Ronaldo, che si è fatto seguire un anno intero senza sapere che tipo di stagione sarebbe stata. Il film vuole essere un monumento al successo di una persona difficile da decifrare, appunto, al di fuori del suo successo. Ma anche un’apertura discreta sulla solitudine che il successo stesso richiede e crea. Per il Times è “un volgare esempio di agiografia acritica”.
Nella scena iniziale vediamo Ronaldo entrare in macchina, con un completo elegante e lo zainetto, che posa sul sedile posteriore. Alla luce dei lampioni, mentre guida, brillano i suoi occhi e brillano gli orecchini di diamante. “Vincere per me è la cosa più importante, è tutto qui”, dice la sua voce fuori campo. “Migliorare anno dopo anno, con più esperienza, con obiettivi più grandi, ancora con più voglia. Provare alla mia famiglia, a mio padre, che le decisioni che ho preso quando avevo 12 anni erano giuste”.
Anthony Wonke ha diretto anche Being AP, un altro documentario su uno sportivo ossessivo. Il fantino inglese Tony AP McCoy, è stato campione inglese per 20 stagioni consecutive, dalla prima all’ultima stagione da professionista. Per vincere una stagione un fantino deve arrivare primo in più corse dei suoi rivali. Nella stagione 1997-98, McCoy ha vinto 253 gare; nel 2001-02 ha fissato il record a 289 gare vinte. E bisogna tenere presenti due cose: (1) in un anno non bisestile ci sono 365 giorni; (2) McCoy non ha vinto a tutte le gare a cui ha partecipato, neanche nelle sue annate migliori. Anzi, McCoy in questi venti anni di successi ha subìto molti infortuni anche gravi . “Il dolore passa, la sconfitta resta”, dice AP nel film di Wonke, girato prima del ritiro. Vediamo la moglie di AP preoccupata, vediamo come AP si annoia quando non può correre, vediamo l’angoscia che prova a pensare a quando non potrà più correre. Per la stampa britannica Being Ap più che a un documentario sportivo somiglia a un “rehab movie”, un film su una dipendenza, cioè.
James Gay-Rees, invece, è conosciuto per aver prodotto Amy, il documentario su Amy Winehouse. Un’artista tormentata, oppressa da stampa e pubblico e sfruttata dalla famiglia, che si è autodistrutta dopo poco essere arrivata in cima. Una vittima del successo. Il documentario è il contrario di un’agiografia e il regista Asif Kapadia – che ha diretto anche il documentario Senna, sul mito della Formula 1 morto a causa di un incidente durante il Gran Premio di San Marino – è stato attaccato dal padre di Amy Winehouse.
Nonostante produttore e regista quindi abbiano dimostrato di saper manipolare una realtà complessa come quella di un’icona contemporanea, Ronaldo è senza dubbio un film meno problematico degli altri due citati – e l’entourage del calciatore non ha avuto nessun problema a promuoverlo all’uscita.
La ragione però è che è Ronaldo ad essere meno problematico. A 12 anni ha lasciato la scuola e la sua isola, Madeira, per andare a Lisbona e diventare il più forte calciatore al mondo. E ci è riuscito. Non ha cicatrici, non porta i segni della sofferenza. Dopo aver giocato, anche alle tre di notte, entra in vasche ghiacciate per ghiacciare i muscoli. A casa ha addirittura una criosauna di sua proprietà per curare il proprio corpo a – 150°. Sul fondo della piscina di casa ha una ciclette. Veste sempre alla perfezione e dorme dieci ore per notte. Mangia in modo talmente sano che i suoi compagni di squadra si lamentano quando li invita a cena.
In Ronaldo non c’è niente di autodistruttivo. Il suo corpo è perfetto, ed è con il suo corpo che si è guadagnato il successo, che ha fatto carriera.
Il successo fa miracoli
Il film comincia con l’ammissione, da parte di Ronaldo, del dolore che gli ha creato vedere Messi vincere il Pallone d’Oro al posto suo. Quattro volte di seguito. Con un candore quasi infantile dice: “Dopo il secondo e il terzo di seguito mi sono detto io qui non ci torno”. Il film poi accenna al fatto che l’anno prima Cristiano Ronaldo aveva vinto il suo secondo Pallone d’Oro, ma Ronaldo vuole “sempre di più”. Nell’annata di cui tratta il documentario, quella 2014, Ronaldo ha vinto il suo terzo Pallone d’Oro ma anche giocato un Mondiale da infortunato, in cui il Portogallo è uscito dopo tre partite. Il Real Madrid è arrivato terzo in campionato ma ha vinto la Copa del Rey e soprattutto la sua storica decima Champions League, con Cristiano Ronaldo che in finale ha fatto da comprimario, segnando il gol del 4-1, su rigore, a cose ormai fatte.
Il film però passa sopra i singoli eventi per raccontare una storia più semplice. La trama, se così la vogliamo chiamare, è la seguente: per Ronaldo è molto importante vincere il Pallone d’Oro, Ronaldo è infortunato durante il Mondiale ed è una grande sofferenza per la sua famiglia e per il Portogallo intero, Ronaldo torna in forma e vince di nuovo il Pallone d’Oro. A parte le scene girate in Brasile durante il Mondiale, e i festeggiamenti per la Champions League, le immagini di campo non restituiscono il contesto dell’annata sportiva 2014. Le esultanze di Ronaldo, sempre inquadrato da vicino, si sovrappongono l’una sull’altra, si mescolano alle esultanze della madre Dolores sul divano, a quelle del figlio, ma nessun momento sembra più importante degli altri. A parte il Pallone d’Oro, ovviamente.
Ronaldo ha costruito la sua leggenda sportiva sulla sua capacità di migliorare continuamente: sul fatto, inedito prima di lui e Messi, e forse irripetibile dopo di loro, che un calciatore possa avere ogni stagione lo stesso numero di gol segnati e di partite giocate, se non più gol che partite giocate. Restando eccezionali così a lungo, sia Messi che Ronaldo hanno dovuto modificare il loro modo di giocare. Messi ha un talento più atemporale: il Messi di oggi non è totalmente un altro giocatore rispetto a quello di dieci anni fa. Ronaldo lo è. Nel caso di Ronaldo i concetti di miglioramento e cambiamento si compenetrano. Il film però non tratta del calciatore straordinario Cristiano Ronaldo, l’ala dribblomane del Manchester United diventato uomo squadra a Madrid, ma della sua icona.
Oltre allo scorrere del tempo, Ronaldo il film taglia fuori un altro aspetto importante di Ronaldo il calciatore. Sportivamente parlando, Ronaldo è anche un esempio di come la grandezza individuale si accompagni e abbia bisogno della grandezza del sistema, di come lo scambio e l’adattamento reciproco siano costanti e la collaborazione sia fondamentale anche per gli individui di maggiore talento. Nel film a lui dedicato, invece, ci viene presentato come simbolo di un successo individuale più universale e uniforme – che poi è come l’icona di Ronaldo ci viene venduta comunemente nelle pubblicità.
A un certo punto, diciamo a ridosso della stagione 2013-2014, con la vittoria della sua prima Champions League con il Madrid, preceduta e seguita da due Palloni d’Oro, il potere sportivo di Ronaldo è entrato in una fase nuova, quella che stiamo vivendo in questi anni. Se fino a qualche anno prima il suo lato infantile fuoriusciva spesso e l’incapacità di accettare le delusioni si faceva bruciante, nelle ultime stagioni la sua capacità di mantenere alta la concentrazione e decidere le partite più importanti è arrivata a livelli mai visti. È diventato più difficile notare la sua frustrazione – persino quando ha vinto l’Europeo da spettatore, sbracciandosi da bordo campo dopo essersi infortunato in finale – e la sua maniacalità ha portato ad effetti sovrannaturali, la sua ossessione ha iniziato a sembrarci una forma di misticismo. Forse la scelta di girare il film proprio in quel momento viene da questo leggero slittamento interiore di Ronaldo, ma di questo il film non parla.
La scorsa stagione Ronaldo ha vinto il suo quinto Pallone d’Oro e la sua quinta Champions League, segnando un gol in rovesciata ad un’altezza spaventosa, andando a prendere la palla con il piede dove molti atleti professionisti sarebbero a mala pena arrivati con le mani. Un gol straordinario persino per i suoi standard. In un Mondiale tutto sommato deludente per il Portogallo come quello di questa estate, Ronaldo è riuscito comunque a giocare una partita monstre segnando 3 gol alla Spagna di pura e semplice forza di volontà.
In questo senso Ronaldo ha qualcosa in comune con le agiografie, perché come quelle ricordando le vite dei santi – e i loro miracoli – testimoniano la santità stessa, così il film su Cristiano Ronaldo è anche un film sul potere salvifico della competizione e della vittoria. Ronaldo è un frutto del suo successo tanto quanto il successo è frutto dei suoi miglioramenti.
Il successo ha riempito Ronaldo e lo ha modellato dall’interno a propria immagine e somiglianza, facendone un simbolo atemporale. Di più: il successo sta permettendo a Ronaldo di invertire il normale scorrere del tempo, facendolo ringiovanire. Non solo esteticamente, ma anche secondo quei parametri fisiologici – percentuali di massa grassa e muscoli – che gli permettono a 33 anni di proclamare un’età biologica di 23 anni. La competizione e il successo fanno miracoli, Ronaldo ne è una prova vivente. Questo aspetto della faccenda, il film Ronaldo lo coglie in pieno.
Cos’hanno in comune Michael Jackson e Cristiano Ronaldo?
Alle prese con il ritratto di una star problematica come Michael Jackson, lo scrittore statunitense John Jeremiah Sullivan è arrivato a ribaltare la prospettiva comune: il corpo di MJ, con i segni delle molteplici operazioni chirurgiche, il trucco e le parrucche, non era l’abominio che la cultura popolare americana andava dicendo, bensì “il suo vero volto. Ciò che è naturale. Il suo corpo è probabilmente, ma direi senza alcun dubbio, la più grande scultura postmoderna americana”.
Lo straniamento che ci creano notizie come quella sull’età biologica, o la vista stessa di una muscolatura con solo il 4% di massa grassa – cioè quella vista a cui Ronaldo ci costringe ogni volta che esulta togliendosi la maglietta e pompando la parte superiore del corpo – è lo stesso che proviamo guardando il non-naso di Michael Jackson.
Anche il lavoro di Ronaldo sul proprio corpo richiede creatività, capacità di immaginarsi diversi da come si è. Il corpo di Ronaldo è del tutto naturale, ma lui è andato oltre la nostre immaginazione e lo percepiamo – anche se non sappiamo bene perché – come un’esagerazione. Il fitness ha prodotto effetti estremi su di lui, anche se in maniera più sottile di quello che fa sui culturisti: se chi esagera con i pesi ottiene un effetto caricaturale, quello di Cristiano Ronaldo è un paradossale iperrealismo. Proviamo nei suoi confronti la distanza che proveremmo di fronte a una riproduzione artificiale di Cristiano Ronaldo. E forse per questo nessuna statua tra quelle a lui ispirate gli somiglia neanche un po’.
Una riflessione sul rapporto padre-figlio
Forse un altro modo per descrivere quello strano prodotto di non-fiction che è il film Ronaldo sarebbe parlarne come di un film sul rapporto tra Ronaldo e il figlio.
In una delle prime scene, Cristiano Ronaldo accompagna a scuola suo figlio, Cristiano Ronaldo Jr., che nel film il padre chiama semplicemente Cristiano (mentre scrivo è uscita la notizia che un’altra icona sportiva contemporanea, Lebron James, ha detto di essersi pentito di aver dato il proprio nome al figlio). Ronaldo dice al figlio: “Vediamo chi arriva prima a scuola”, poi lo lascia vincere. Più tardi, quando lo va a riprendere, incontra il padre di un compagno di classe di Cristiano, un tipo enorme che lo ferma per salutarlo. Ronaldo dice al figlio: “Era grosso eh”. “Più grosso di te”, dice il figlio di Ronaldo. “Nah… era più alto, ma papà è più forte, non lo sai?”.
Una volta a casa Ronaldo chiede al figlio quale macchina non è in garage. “La Rover?”, chiede Cristiano. “No, la Rover sta fuori. Quale manca? Controlla”. “La Porsche?”. “Guarda bene, guarda bene”. “La Royce?” “No. Una molto veloce”. “Lamborghini!!!” dice il figlio, faticando a pronunciare il nome della marca. “Ahhhhh, non lo sapevi”, aggiunge Ronaldo. “E dove sta?”, chiede il figlio. “A riparare, ho bucato una gomma”.
Più avanti lo vediamo passare un pomeriggio o una sera da solo con il figlio. Vediamo Ronaldo aiutare Cristiano a fare i compiti, dicendogli di sbrigarsi così possono andare a giocare a calcio. Quando gli dà una tazza di latte gli dice: “Questo è per farti diventare forte come papà. Guarda il mio braccio. Vuoi diventare come papà?”. Il bambino fa il muscolo, Ronaldo se ne felicita. Finiti i compiti giocano a fare i colpi di testa sul divano.
Il momento più intimo del documentario inizia subito dopo una scena totalmente senza significato, in cui vediamo Ronaldo con il suo entourage nel suo aereo privato. Un tizio si avvicina mentre giocano a carte , si tira su la maglia e mostra gli addominali. Qualcuno dice: “Sei quasi come Re Ronaldo”. Ronaldo si alza la maglietta e controlla lo stato dei suoi addominali. Poi, mentre Ronaldo fa stretching sdraiato a letto, allungando la gamba contro la fusoliera dell’aereo, lo sentiamo pensare: “Nel calcio non ho molti amici. Le persone in cui credo veramente sono poche. La maggior parte del tempo sono solo. Mi piace fare le cose mie. Vado a letto quando voglio, vado in piscina quando voglio”.
Dall’aereo passiamo di nuovo alla casa, dove Ronaldo conta gli addominali del figlio, e poi il figlio conta i suoi. Poi Ronaldo fa le flessioni con Cristiano sulla schiena. “Siamo pari, abbiamo vinto tutti e due”, gli dice. La casa è immensa e vuota e dato che ogni tanto la camera li riprende da dietro le pareti-vetrate l’impressione che ne conservo ora è quella di averli spiati. La voce fuori campo di Ronaldo che dice: “Mi considero una persona isolata. So quello che è meglio per me. E quello che è meglio per me è tornare a casa, completamente isolato dal mondo, dalla tv, dai giornali, dal calcio, perché so che il giorno dopo tornerò in quel mondo. Voglio stare tranquillo, senza pressioni, dopo essermi allenato, dopo le partite.” Mentre dice voglio stare tranquillo Ronaldo è in palestra con il figlio che, mentre lui si allena, gioca con i pesi o si annoia.
A questo punto rischierei di dare un’impressione sbagliata del rapporto tra Ronaldo e il figlio se non sottolineassi la tenerezza che si impossessa di Ronaldo quando è in presenza del figlio. Sembra addirittura muoversi con maggiore leggerezza quando interagisce con il figlio. Ronaldo dice: “Ho sempre sognato di avere un figlio, un successore. Volevo diventare padre da giovane, e l’ho fatto, a 25 anni, per seguirlo durante il suo sviluppo come uomo”. E non è difficile vedere in questo suo desiderio una forma di compensazione per non aver avuto, lui, un padre come gli altri.
Non mi vergogno di dire che non ho mai conosciuto veramente mio padre, col cuore. Non si è mai aperto, non mi ha mai raccontato come si sentiva. Se mi chiedi perché mio padre beveva, non lo so. E non lo voglio sapere. Sono frustrato perché ovviamente avrei voluto un padre diverso. Un padre che potesse essere presente durante le mie conquiste. Questa è la cosa più frustrante. Il fatto che non ha potuto vedere tutto il mio successo come giocatore, come persona e come padre.
Si cresce con i figli, oppure, per usare le parole di Ronaldo in una scena in cui fa lavare i denti al figlio: “Cristiano ha avuto una grande influenza su di me”. Lo ha aiutato a essere più tranquillo e calmo e non è detto che occuparsi dello sviluppo del figlio – che ai tempi del film aveva quattro anni – non abbia influito sul suo modo di stare in campo.
Anche l’affetto di Ronaldo è coltivato nella ripetizione, nell’esercizio quotidiano. L’equivalente emotivo della palestra sono le richieste di baci al figlio. Nella scena girata nel backstage del Pallone d’Oro, il figlio Cristiano è in imbarazzo davanti al suo eroe, Messi, che si china a salutarlo. Non c’è neanche l’ombra della gelosia in Ronaldo, che però quando vuole rassicurare il figlio lo chiama a sé chiedendogli un bacio. “Perché mi chiedi sempre i baci?”, chiede Cristiano.
È impossibile non chiedersi se l’ossessione per la competizione non sia una cosa tra uomini. Un gioco di specchi continuo, tra l’ineluttabilità del fallimenti – del padre, ma anche del fratello alcolista, che tornato sulla retta via si occupa del museo di Ronaldo – e il lavoro come unica possibilità di salvezza. È chiaro che Ronaldo vorrebbe che il figlio seguisse le sue tracce. Conoscendo le figure maschili con cui lui si è confrontato quando era giovane, chi può biasimarlo?
Mentre guardano una partita sul divano Cristiano dice di voler fare il portiere da grande. “Il portiere? Scherzi?”, risponde Ronaldo.
Da cosa scappa Cristiano Ronaldo?
A questo punto dovrebbe essere chiaro quale è il motore propulsivo di tutta la storia. In una scena, la madre di Ronaldo è in farmacia a prendere degli ansiolitici e in un’altra è Ronaldo stesso a dirle: “Stai tranquilla, è solo una partita, non è una questione di vita o morte”. Ma è una contraddizione troppo palese. Dietro a Ronaldo c’è sempre quella storia di povertà e di potenzialità sprecate, una famiglia ridotta così male che la madre pensava non fosse il caso di avere un altro figlio. Ronaldo ha scolpito se stesso e oggi può guardare indietro con una certa serenità, ma per la madre è più dura: “Era un figlio non voluto. Ma quel figlio mi ha dato molta gioia. Tutto quello che ho, lo devo a quel figlio”.
In Ronaldo, a parte la madre Dolores, le donne non esistono. La compagna precedente, Irina Shayk, ha confessato che vicina a Ronaldo si sentiva brutta. La loro storia è finita nel gennaio del 2015, il che significa che quando è stato girato il film i due erano ancora una coppia, ma Irina non compare neanche in un’inquadratura.
Questo era l’unico mistero di Cristiano Ronaldo, che non ha mai detto chi era la madre del suo primogenito: “Alcuni bambini non possono conoscere i genitori, né padre né madre. Un padre è più che sufficiente”. Da quando è uscito il film, Ronaldo ha avuto altri tre figli. Nel 2017 ha avuto due gemelli, un maschio e una femmina, probabilmente avuti da una madre surrogata; e appena sei mesi dopo ha avuto il quarto figlio, una bambina, stavolta con una compagna ufficiale, Georgina Rodriguez.
Del rapporto tra Ronaldo e Georgina Rodriguez non possiamo sapere niente, a parte che pur essendo una bella ragazza si è scelto un tipo di donna molto diversa da una modella russa. Forse non è un caso se Ronaldo ha scelto una ragazza conosciuta mentre faceva la commessa, un’ex-ballerina con un passato economicamente difficile, con un padre ex-calciatore che a un certo punto è uscito di scena (secondo alcuni per fare una vita “da eremita”). Sembra piuttosto che Ronaldo abbia chiuso il cerchio ricongiungendosi con le sue origini.
Ronaldo e David Foster Wallace
In un suo celebre pezzo intitolato Come Tracy Austin Mi Ha Spezzato Il Cuore, David Foster Wallace ragiona sul confine sottile tra consapevolezza razionale e consapevolezza profonda negli atleti. Deluso dalla banalità della biografia di una delle sue tenniste preferite, Foster Wallace riflette: “Il vero segreto dietro il genio dei grandi atleti, quindi, potrebbe essere esoterico e ovvio e noioso e profondo come il silenzio stesso”.
Chiedendosi se l’ottusità mostrata dagli atleti, la loro riluttanza o incapacità a trasformare in parole i pensieri, non fosse in realtà una forma di saggezza, DFW si dice che la risposta alla domanda cosa passa per la testa di un atleta, nel mezzo dello svolgimento delle sue potenzialità, dell’esercizio del suo talento, potrebbe essere: “Niente di niente”.
Vedendo Ronaldo però ho pensato che la risposta potrebbe essere anche quella opposta. Che anziché pensare a tutti i dettagli tecnici necessari per infilare la palla in porta, magari Ronaldo pensa al padre alcolizzato, al figlio che non gli dà abbastanza baci, alla madre che se è troppo nervosa non finisce di guardare la partita e se ne va da sola a casa nella notte, al fratello che deve avere altri successi da mostrare nel loro museo. Magari Ronaldo ha sempre presente queste cose, e sente lo sguardo di tutti gli occhi che ha addosso, e il rumore assordante di questi pensieri gli chiudono le orecchie e gli restringono la visuale sull’obiettivo.
Da questi pensieri nasce l’energia con cui compie gli sforzi e i sacrifici necessari per essere il migliore di tutti. Ogni giorno. Da dieci anni.
Cristiano Ronaldo e Gattaca
L’unico scopo artistico di Ronaldo, oltre allo scopo promozionale cioè, poteva essere solo quello di diradare un po’ di quella coltre che avvolge i personaggi famosi, facendoci vedere più da vicino com’è la vita di uno degli uomini più eccezionali del pianeta. Ma il film migliore per capire veramente Ronaldo è un altro.
Gattaca è un film di fantascienza del 1997 girato da Andrew Niccoll (lo sceneggiatore di The Truman Show) ambientato in un mondo in cui la più grande discriminante tra gli uomini è il codice genetico e le potenzialità in esso contenute. I genitori possono determinare il codice genetico dei propri figli per renderli il più competitivi possibile. Il protagonista, interpretato da Ethan Hawke, vuole fare l’astronauta e andare su Titano ma non ha il DNA all’altezza: i genitori lo hanno concepito spontaneamente ed è predisposto ad avere problemi cardiaci. Per questo compra il DNA di un ex-nuotatore rimasto paralizzato, interpretato da Jude Law, e cambia identità – la truffa funziona per due ragioni: l’incidente che ha paralizzato Jude Law non è registrato nei database americani e, nonostante l’avanzamento tecnologico, i monitor con cui controllare le facce fanno schifo e nessuno vede la differenza tra i due.
La trama del film ruota attorno a un omicidio e alla possibilità che Ethan Hawke venga smascherato, per una ciglia ritrovata in ufficio. Per entrare nell’agenzia spaziale ha dovuto fare una fatica doppia: non solo si è allenato e ha studiato più di chiunque altro, ma ha dovuto persino subire un’operazione alle gambe per allungarsi di due centimetri e somigliare all’ideale di perfezione di Jude Law – che nel frattempo sta a casa e si suicida bevendo.
In estrema sintesi, Gattaca è un film su quanto è difficile trovare lavoro se non si parte avvantaggiati. Ethan Hawke ha un fratello più piccolo, concepito con l’aiuto di un genetista e quindi “potenzialmente” migliore di lui, più perfetto. È significativo che la scena centrale del film sia una scena sportiva. Una gara di nuoto di resistenza, a chi va più lontano, in mare aperto, tra Ethan Hawke e il fratello – che, coincidenza, è anche il poliziotto che indaga sul crimine. Il fratello, battuto, chiede a Ethan Hawke come è possibile che nuoti più a lungo di lui: “Non ho mai risparmiato niente per la nuotata di ritorno”. Ovvero si giocava il tutto e per tutto. L’ideologia del mondo di Gattaca è espressa dal capo dell’agenzia spaziale: “nessuno supera il proprio potenziale”. E se lo supera: “Significa solo che abbiamo sbagliato a calcolarlo all’inizio”.
Anche se le previsioni dei dottori guardando il suo DNA lo vedevano morto intorno ai trent’anni, Ethan Hawke è uno dei migliori astronauti dell’agenzia esclusivamente per merito suo. Ma deve usare le urine e il sangue di Jude Law per superare i numerosissimi controlli e se venisse scoperto perderebbe tutto.
Gli sforzi di Ronaldo ricordano quelli del personaggio di Ethan Hawke. Anche Ronaldo ha lavorato il doppio, se non il triplo di chiunque altro sul proprio talento di base, partendo da una situazione svantaggiata, con “nel sangue” molte potenzialità pericolose. Eppure ce l’ha fatta, ha superato di molto le aspettative di chiunque. Si è costruito un’identità nuova, andando contro tutti quelli che lo consideravano un impostore, ed è entrato nella storia del calcio tra i migliori di sempre. Quello che vuole dirci Gattaca, che poi è quello che ci dice l’esperienza di Cristiano Ronaldo, è che quello che dovremmo apprezzare davvero sono l’applicazione e gli sforzi per andare al di là del talento e del patrimonio genetico di ognuno, l’immaginazione che ci vuole per vedersi come il migliore in qualcosa e la resistenza che ci vuole per riuscire a diventarlo.