D olores Abernathy è un’affascinante ragazza bionda che soffre (nomen omen) perché non è padrona del proprio destino. Dolores è il personaggio principale di “Westworld”, la famosa serie tv americana andata in onda nel 2016, ma è solo uno degli ultimi esemplari di una lunga genealogia di “esseri” che dal servo automatico di Filone di Bisanzio (III sec a. C.) arriva fino Roy Batty/Rutger Hauer, il replicante che dal ciglio di un grattacielo, in una cupa notte piovosa, pronuncia una sorta di monologo shakespeariano diventato famosissimo. In mezzo ci sono giocatori di scacchi automatici (contenenti nani), monaci meccanici, diversi musicisti a manovella, cadaveri rianimati elettricamente, innumerevoli donne finte che fanno innamorare uomini veri (da Villiers de l’Isle-Adam a Hoffman, Dick, fino a Realdoll), intelligenze artificiali, uomini bicentenari e simpatici robottini disneyani.
Quello dell’androide è un tema vecchio quanto la civiltà e oggi sempre più presente nelle produzioni letterarie, e soprattutto filmiche. Eppure, almeno a livello di grande divulgazione, l’immaginario robotico sembra viziato da un peccato originale. Prendiamo Dolores: per quanto robotica, non fa altro che scimmiottare le movenze del pensiero di eroi letterari che da secoli si domandano se la vita è un sogno.
Attraverso il lavoro e la tecnica l’uomo ha sognato di rubare il posto a dio – o alla natura – e costruire esseri viventi e senzienti in tutto e per tutto simili a lui. Le domande sollevate da questo progetto prometeico ruotano attorno a cosa consideriamo “umano”. È impossibile entrare qui nel merito di una questione così eminentemente filosofica ma se ci atteniamo a un livello superficialmente tematico, se guardiamo ai racconti che ne sono emersi in tempi più recenti (e non solo), non è difficile riconoscere questa costante: che si tratti di Westworld (la serie, poiché il film originale del 1973 scansava abilmente la questione per raccontare una storia diversa), di un’altra serie andata in onda nei mesi scorsi come la britannica Humans (remake della svedese Äkta människor), della ormai canonica Battlestar Galactica e di innumerevoli produzioni minori e maggiori che girano intorno al futuro degli automi, il punto sembra sempre quello di replicare la vita umana non solo negli aspetti esteriori e operativi, ma in quanto di più specificamente esistenziale definisce la nostra “condizione”.
Immaginare macchine dotate di sentimento e autocoscienza porta molti autori di fantascienza a ricalcare le orme di una lunga tradizione narrativa che ha fatto del tutto a meno dei robot. Westworld in questo senso è esemplare: Dolores, come dicevamo sopra, si chiede se siamo liberi, se siamo uno nessuno o centomila, se valga la pena di vivere un’esistenza piena di sofferenze, se esista qualcosa oltre al mondo fenomenico, eccetera. Insomma le questioni cruciali di una vulgata filosofico-culturale che è parte fondante dell’umanesimo occidentale. Niente di nuovo sotto il sole. Niente per cui sia strettamente necessario rivolgersi ai recenti progressi tecnologici, o avere per protagonisti di una storia dei robot.
Uncanny valley
Il problema estetico di questa fantascienza è connesso a un altro problema, di ordine conoscitivo, che riguarda le macchine e il nostro modo di relazionarci con esse. Esiste una teoria chiamata “Uncanny valley”, elaborata nel 1970 da uno studioso di robotica giapponese, secondo cui oltre un certo grado di somiglianza con l’uomo il robot smette di essere percepito positivamente e incute sentimenti negativi. “Uncanny” significa “inquietante” e la valle inquietante è proprio quello spazio che sta tra ciò che è umano è ciò che è serenamente artificiale.
Immaginare macchine dotate di sentimento e autocoscienza porta molti autori di fantascienza a ricalcare le orme di una lunga tradizione narrativa che ha fatto del tutto a meno dei robot.
Il modo in cui ci stiamo sempre più spesso raccontando il futuro delle macchine sembrerebbe parlare di questo, di quanto i robot si starebbero avvicinando a noi; ma la caratterizzazione “esistenzialistica” degli androidi porta l’attenzione degli spettatori verso una lettura rassicurante: queste macchine, in fondo, sono come noi, vogliono essere come noi. Allarghiamo la sfera etica della carità e abbiamo risolto il problema, un po’ come una nuova declinazione del discorso sul razzismo o sullo specismo. Quest’ultima connotazione è peraltro presente in molte narrazioni del genere, evidentissima nei succitati Humans e Westworld, ma già in nuce fin dalle prime espressioni della figura dell’automa se è vero che, dal Golem in giù, la quasi totalità di questi replicanti viene creata allo scopo di servirci come schiavi, peraltro in gran parte schiavi sessuali.
Gli aerei per volare non sbattono le ali
Jerry Kaplan, un imprenditore nel settore tecnologico che ha vissuto e raccontato le principali evoluzioni della robotica e dell’intelligenza artificiale degli ultimi decenni, ha criticato da un punto di vista tecnico e non culturale l’antropocentrismo dominante negli studi di robotica in un libro (improntato all’ottimismo indefettibile che caratterizza molti addetti della Silicon Valley) recentemente pubblicato da Luiss University Press e intitolato Le persone non servono. In particolare, Kaplan nota come quella dell’antropomorfismo sia una deriva capace di intercettare cospicui finanziamenti che andrebbero meglio investiti in altri e più proficui ambiti di ricerca:
La tendenza a pensare ai sistemi di IA in generale, e ai robot in particolare, come un’analogia del cervello e dei muscoli umani è comprensibile, ma porta con sé pericoli significativi. Storicamente è un settore che si approfitta della naturale tendenza umana ad antropomorfizzare gli oggetti in modo che assomiglino a noi e che si comportino come noi per attrarre l’attenzione e aumentare i finanziamenti. Ma tutto ciò è fuorviante e porta la gente a credere che le macchine siano più simili a noi di quanto non siano veramente.
Ne La nuova rivoluzione delle macchine, un fortunato saggio pubblicato da Feltrinelli e ripreso anche da Kaplan, gli autori citano una frase di un altro noto ricercatore e informatico, Frederik Jelinek, che sintetizza bene la questione: “Gli aerei per volare non sbattono le ali”. I progressi tecnologici possono prendere spunto dalla natura, ma non necessariamente e nella maggior parte dei casi un lavoro migliore viene svolto da “attuatori” (per usare un termine di Kaplan) che di simil-umano e di simil-naturale hanno poco o niente. Sempre Kaplan: “la nostra percezione profonda e la capacità di localizzare sarebbe molto migliore se le orecchie e gli occhi fossero lontani metri invece che centimetri, analogamente non c’è ragione per cui i vari mezzi che permettono a un robot di perseguire il proprio scopo siano uniti insieme in un unico pacchetto.” Se vogliamo costruire una macchina per sorvegliare (per fare un esempio in un ambito che impazza) è molto più utile che il sistema disponga di una serie di sensori distribuiti nello spazio, piuttosto che creare un Robocop bipede, con due orecchie e due occhi attaccati alla testa. Ed è quello che di fatto succede. Più che imitare la natura, la tecnologia cambia la natura.
Eppure, da sempre, dal passato remoto alle abbaglianti profezie transumaniste, per un’inclinazione narcisistica che affonda negli strati più profondi della sua mente, l’uomo immagina e racconta storie di macchine che gli somigliano, di robot che soffrono e si ribellano, di intelligenze artificiali dotate di intenzioni benevole e malevole, eccetera. In questo modo, oltre a soddisfare le nostre fantasie prometeiche, rinunciamo a dotarci di strumenti interpretativi adeguati a fare i conti con i mutamenti sociali e sensoriali indotti nel presente dalle nuove tecnologie.
Il modello mimetico della macchina che diventa umana è non solo lontanissimo da quelle che sono le effettive prospettive di sviluppo tecnico prossimo futuro, ma anche decisamente fuorviante. Meglio varrà allora un modello alternativo come quello proposto dagli autori de La nuova rivoluzione delle macchine, capace di fare piazza pulita di tutta una serie di ambizioni mal riposte e paure del genere Uncanny Valley:
le macchine hanno forze e debolezze assai diverse da quelle degli umani. Se gli ingegneri cercano di amplificare queste differenze, basandosi sulle aree in cui le macchine sono forti e gli umani deboli, allora è più probabile che le macchine siano complementari agli umani invece di sostituirli.
In questo senso, anche per quanto riguarda la scottante questione occupazionale che sta al centro di questo libro come di quello di Kaplan, secondo gli autori le cose andrebbero abbastanza bene: “è più probabile che una produzione efficiente richieda input umano e robotico, e che il valore degli essere umani cresca invece di diminuire con l’aumento del potere delle macchine.” Il narratore che ha meglio rappresentato la convivenza contrattualmente regolata tra uomo e macchine è probabilmente Asimov, con i suoi automi che ogni tanto deragliano o tendono pericolosamente verso la singolarità, ma il solido inquadramento giuridico delle leggi della robotica e la perizia ermeneutica della robo-psicologa Susan Calvin sono sempre capaci di riportare la situazione entro i binari di una pacifica e benefica cooperazione.
L’impressione, tuttavia, è che il racconto più efficace sia quello capace di rendere conto, al di là di ogni antropocentrismo e di ogni quietistica immagine di pacifica coesistenza, di una maggiore vischiosità – e rischiosità – del rapporto tra uomo e macchina. Molto più interessante rispetto all’ottimismo jobsiano della Silicon Valley è il paradigma eretico del cyberpunk, che vede nel cyborg l’emblema di un’ambigua compenetrazione tra l’umano e il robotico. Protesi, innesti, modificazioni chimiche dell’organismo. È noto come la filosofa Donna Haraway abbia costruito sull’ibridazione di uomo e macchina una teoria politica che ambisce a superare i dualismi costituitivi del pensiero occidentale, dualismi di genere anzitutto, ma anche di natura e cultura, di umano e non-umano. Non mancano opere d’arte che si sono fatte interpreti di questa temperie, narratori importanti come Sterling e Gibson, e altrettanto noti registi come Cronenberg e Tsukamoto, per esempio.
Philip K. Dick vs Blade Runner
Lo stesso Philip K. Dick, che stando a Blade Runner, trasposizione filmica del suo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, potrebbe sembrare il massimo cantore dell’umanizzazione totale della macchina, è più vicino a questa prospettiva di quanto non sembri. La postfazione di Gabriele Frasca all’edizione Fanucci del romanzo dickiano smonta la rilettura umanizzante dei robot fatta dagli sceneggiatori del celeberrimo film “tutta tesa ad affrancare gli androidi dalla loro stessa programmazione (…), per far emergere al contrario dalla loro ‘rivolta’ il senso di una discesa agli inferi edipica e titanica”. In particolare nella relazione sentimentale tra il cacciatore di androidi Rick Deckard e la replicante Rachel, così come riadattata nel film, Frasca vede “una sorta di sfida alla morte e all’inorganico nel nome di una sentimentalità ‘umana’ capace di cantare la vita anche con il sordo ronzio dei relè”.
Nel romanzo, la differenza tra uomo e macchine umanoidi è al contrario continuamente segnalata, in particolare dal deficit strutturale di empatia che caratterizza queste ultime. La differenza si accompagna a un’azione reciproca: se gli androidi mancano di empatia, gli umani si affidano al mercerianesimo, una religione che esaspera in chiave mistica la compassione cristiana. Mentre delle rigide griglie sociali marginalizzano gli “speciali” (persone contaminate dalle radiazioni), gli uomini reagiscono alla progressiva scomparsa della compassione dalla vita pubblica buttandosi a capofitto in quella simulazione esasperata della compassione stessa che è la macchina di Mercer. In modo simile, alla paura di somigliare alle macchine risponde il desiderio di conservare un rapporto con la fisicità animale manifestato dalla moda di tenersi in casa (ormai rarissime) bestie selvatiche, anche se i meno abbienti sono costretti ad accontentarsi di esemplari elettrici (bellissima immagine della fuga in avanti nel regno dei simulacri che ricorda le fantasie regressive di tutti i naturalismi a buon mercato). Tutto ciò, nel film di Scott, è stato completamente rimosso.
Anche nei suoi saggi Dick mostra una concezione dei rapporti tra uomo e robot che implica ibridazione, compenetrazione, mutua influenza e una progressiva erosione dei confini che definiscono i due domini come separati e distinti: “Forse, davvero, ciò che stiamo vedendo è una graduale confusione della generale natura e funzionalità umana nella natura e funzionalità di ciò che gli umani hanno costruito e di cui si sono circondati” scrive in “The android and the human”, un saggio del 1972 (Ma gli androidi… è del 1968). E più avanti:
Inoltre – ecco un pensiero poco piacevole – mentre il mondo esterno diventa più animato, potremmo scoprire che noi – i cosiddetti umani – stiamo diventando, e per molti versi potremmo già essere, inanimati nel senso che siamo guidati, diretti da tropismi interiorizzati.
Dick sta insomma dicendo, ed è la tesi che risuona in molti suoi romanzi e racconti, che non è solo, o tanto, la macchina a riprodurre le fattezze dell’umano quanto piuttosto, o anche, il contrario. Attraversando la visione cyborg della compenetrazione, Dick approda a un mimetismo di segno invertito rispetto a quello, prometeico e frankensteiniano, della creatura artificiale che finalmente assurge alla vita umana. Sono gli uomini, piuttosto, a diventare simili a robot.
Postumanismo
Entriamo in un ambito che lascia forse meno spazio alla fantasticazione ma offre un’immagine sociologicamente più convincente della condizione dell’uomo contemporaneo e del suo rapporto con la tecnologia. Siamo nei pressi di quello che viene spesso rubricato sotto il termine onnicomprensivo di postumanismo. Non solo i replicanti sono ben al di là dal venire – se mai verranno, non solo l’industria tecnoscientifica ha ben poco da guadagnare in termini di redditività da una ricerca orientata in quella direzione, e non soltanto l’uomo è già un composto (da sempre) di natura e artificio, ma esiste tutta una serie di comportamenti, di modificazioni della sensibilità, di movenze psicologiche e pratiche simboliche che portano a pensare che sia l’essere umano a ridefinirsi progressivamente in termini di macchina piuttosto che il contrario.
Alla base di questo discorso c’è inevitabilmente il vecchio tema marxista degli effetti dei modi di produzione industriale meccanizzata. La ripetitività del lavoro sulla catena di montaggio trasforma l’operaio in un automa programmato e dal comportamento seriale: Charlot esce dalla fabbrica e continua a stringere bulloni sul seno di una donna.
Il tema della meccanizzazione alienante è stato ripreso in questi anni, nell’ambito della cosiddetta “economia della conoscenza”, da molti studi che hanno visto in internet nuove forme di sfruttamento post-taylorista del tempo e delle risorse umane. Anche indipendentemente dall’approccio marxista, è un fatto che le interazioni e le azioni sociali dell’uomo si configurino sempre più spesso nei termini di quello che Kaplan chiama (a proposito dei robot) “la rottura dei vincoli di località”, ovvero il fatto che le diverse componenti di un automa non debbano collocarsi fisicamente in un unico spazio: la connettività nella quale viviamo immersi non è forse una delocalizzazione continua della nostra identità corporea e cognitiva all’interno di uno spazio potenzialmente infinito?
Intravidui
Nel documentario di Herzog su internet (Lo and Behold, 2016, ora su Netflix) un esperto di sicurezza informatica, discutendo di identità digitale, sottolinea: “la persona è unica ma le componenti digitali che la rappresentano sono molte”. Il sociologo Dalton Colley parlando dell’identità polverizzata dal web ha coniato il neologismo “intravidui” e il saggista Andrew Keen nella sua dura requisitoria anti social (“Vertigine digitale”, Egea, 2016), scrive: “I social media stanno frammentando la nostra identità in modo che esistiamo sempre al di fuori di noi stessi.” I cosiddetti “technoself studies” si interrogano sulle modificazioni della personalità individuale in ambienti altamente tecnologici.
La valorizzazione economica del tempo privato è un vettore di disgregazione di quella che un filosofo e sociologo del novecento come George Simmel, sulla scia di un lunga tradizione che risale (almeno) ai padri del liberalismo, chiama “la proprietà privata personale”, insomma la privacy. La nostra soggettività, i nostri desideri, le nostre paure, si stanno disseminando e socializzando secondo leggi che potrebbero somigliare a quelle della robotica degli sciami (“L’esternalizzazione di massa del pensiero crea la mente-alveare” ha scritto in un tweet David Carr). E ancora: le interazioni in rete tendono a riprodurre una logica binaria nell’ambito della sfera affettiva e comunicativa: mi piace/non mi piace.
Attraverso i nostri comportamenti digitali un sapere numerico e quantificabile ingloba spazi della vita pubblica e privata sempre maggiori, fino a trasformare l’individuo nella somma statistica di una serie di parametri incrociati. Le neuroscienze tendono a diffondere un’immagine del cervello umano e dei suoi modelli di apprendimento simile a quella che caratterizza il “machine learning”. Non si tratta necessariamente di decidere se sia bene o male, vero o falso, ma di mostrare un’evoluzione in atto nel modo in cui mediamente si pensa e si descrive l’umano. La stessa sfera semantica delle parole che usiamo per parlare di noi stessi e del mondo sta slittando impercettibilmente in quella direzione. Alla fine del libro di Kaplan è citata una profetica osservazione di Alan Turing, uno dei padri dell’informatica:
La domanda ‘le macchine possono pensare?’ credo sia così priva di significato da non meritare una discussione. Ciò nonostante credo che alla fine del secolo l’uso delle parole e l’opinione generale delle persone informate sarà cambiata al punto che si sarà in grado di parlare di macchine pensanti senza aspettarsi di essere contraddetti.
Le tecnologie sono estensioni di organi umani (anestetizzati)
Il guru dei new media Marshall McLuhan aveva una chiara percezione della crescente intimità tra uomo e macchina (è difficile immaginare un libro e un film a loro modo epocali come Crash senza il suo saggio “La sposa meccanica”). Le tecnologie – sosteneva – sono estensioni del corpo umano: la ruota è estensione della gamba, la rete elettrica del sistema nervoso centrale. Quello che di solito non ricordano i suoi numerosi adepti delle attuali start-up tecnologiche, è come ogni estensione, secondo lo studioso canadese, comporti un’anestesia dell’organo interessato.
È qualcosa di simile a quanto già compreso nel mito di Theuth raccontato da Socrate nel Fedro platonico: la divinità egizia Theuth offre in dono al sovrano l’alfabeto dicendo che renderà gli egiziani “più sapienti e più capaci di ricordare”; il faraone rifiuta perché crede che al contrario, esternalizzandola nella combinatoria dei segni alfabetici, gli uomini finiranno per atrofizzare la loro memoria. È uno dei primi grandi racconti tecnofobici della storia dell’umanità. Usando macchine e strumenti artificiali il corpo e la mente umana si anestetizzano fino a somigliare alle stesse “estensioni” che li potenziano.
L’uso di protesi e psicofarmaci contribuisce a superare la visione olistico-organicistica dell’individuo, il discreto prende il posto del continuo: la mente diventa un potenziale di calcolo, la concezione cartesiana del corpo come macchina celebra la sua vittoria nei progressi della bioingegneria. Anche la sfera etica potrebbe finire delegata ad agenti artificiali, come nelle questioni sollevate da Kaplan riguardo le prossime venture self-driving cars. E la malevolenza diffusa tra gli utenti di social network è probabilmente sintomo di una progressiva perdita di empatia. Quanto alla memoria tanto cara al re egiziano, ormai si trova quasi tutta sparsa nel cloud, e ciò che sarà la percezione del passato personale e l’identità autobiografica tra tre o quattro generazioni è abbastanza difficile da immaginare.
Capisci
Tornando alle narrazioni fantascientifiche, l’impressione è che spesso ci si accontenti di mostrare il lato più accattivante e forse digeribile della faccenda: la macchina che diventa uomo e non viceversa. Non è una regola ovviamente, una serie tv come Black Mirror sembra sforzarsi di fare il contrario. Storie della tua vita, il libro dello scrittore statunitense Ted Chiang recentemente ripubblicato da Frassinelli in occasione dell’uscita del film Arrival (ispirato a uno dei racconti), contiene storie che trattano senza sconti la trasformazione antropologica in corso. Il protagonista di “Capisci” assume dosi massicce di un ormone sperimentale che aumenta l’intelligenza. Il modo in cui il narratore descrive la propria autocoscienza è un mix tra i linguaggi delle scienze cognitive e quelli della programmazione informatica. Chiang descrive la mente umana come uno strumento di “cognitive computing” capace di controllare ogni parte dell’organismo e ogni sfera della comunicazione.
Gran parte di ciò che convenzionalmente viene definito “personalità” è ormai a mia discrezione; sono i livelli più alti della psiche a definire chi io voglia realmente essere. Posso far sperimentare alla mente un vasto spettro di emozioni, restando conscio dello stato in cui si trova, ed essere in grado al tempo stesso di tornare alla condizione originaria. Adesso che mi sono chiari i meccanismi coinvolti quando mi occupavo di due cose simultaneamente, posso dividere la mia consapevolezza, dedicare una concentrazione quasi piena e tutta la mia capacità di riconoscere le Gestalt a due o più problemi indipendenti, sovra-intendendoli letteralmente tutti.Il controllo sulle emanazioni somatiche mi permette ormai di provocare negli altri delle reazioni precise. Grazie ai feromoni e alla tensione muscolare, posso spingere un’altra persona a reagire con rabbia, paura, affetto, o posso stimolare un’attrazione sessuale. È ciò che basta per farsi degli amici e influenzare la gente. Disattivo all’istante tutti i dati sensoriali, riponendoli in una nicchia isolata della memoria a breve termine. Creo poi un simulatore della mia stessa coscienza che riceva gli stimoli esterni assorbendoli a velocità ridotta. Sorveglierò indirettamente, da meta-programmatore, gli equilibri di tale simulazione. Riceverò realmente le informazioni sensoriali solo dopo essermi assicurato che non siano dannose. Se il simulatore verrà distrutto, la mia vera coscienza resterà protetta, al che rintraccerò e analizzerò le cause che tappa dopo tappa hanno portato al collasso, e ne ricaverò delle linee guida per riprogrammare la mia psiche.
Un altro acutissimo racconto compreso nel libro e intitolato “Amare ciò che si vede: un documentario”, immagina che si possa indurre nel cervello una “agnosia” tale per cui non riconosceremo più la bellezza dei volti. Scopo dell’intervento è evitare che il giudizio estetico influenzi la nostra opinione sugli altri. Questo notevole risultato morale è ottenuto grazie alla desensibilizzazione di parti del cervello: la sostanza usata si chiama “neurostat”, ed è un “anestetico altamente selettivo nato per controllare gli attacchi epilettici e alleviare i dolori cronici.”
Usando macchine e strumenti artificiali il corpo e la mente umana si anestetizzano fino a somigliare alle stesse “estensioni” che li potenziano.
I replicanti di Dick non solo sono prodotti in serie e mancano di empatia ma mostrano anche, tipicamente, una tendenza alla rassegnazione. Lo nota Isidore, uno “speciale”, forse il più “umano” dei personaggi di Ma gli androidi…: “Anche lei, come il marito, pareva stranamente rassegnata, nonostante l’agitazione esteriore. Sono tutti uguali; sono tutti strani (…) Era come se una particolare e malevola astrattezza pervadesse tutti i loro processi mentali.” Nella miscela di controcultura freak e paranoia cospirazionista che caratterizza l’universo mentale dello scrittore americano, i replicanti non sono creature che mimano l’esistenza umana, ma specchio di un’umanità deprivata e ridotta a docili reazioni programmate da forze superiori (la società, lo stato, il governo).
L’uomo androidizzato e i big data
“L’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto, prevedibilità. È precisamente quando la risposta di una data persona a una determinata situazione può essere prevista con accuratezza scientifica, che si apre la strada alla produzione totale di una forma di vita androide”. È sempre Dick a scriverlo, nel saggio già citato. Sembra una descrizione delle nuove frontiere della psicometria elaborata attraverso i big data e i contenuti generati dagli utenti del web.
Quella stessa che ci suggerisce magicamente la musica che fa per noi, i libri che ameremo, e che secondo un’inchiesta pubblicata dal periodico svizzero Das Magazine (in Italia nel numero 1186 del 6 gennaio scorso di Internazionale) avrebbe contribuito in maniera significativa alle vittorie elettorali della Brexit in Gran Bretagna e di Trump negli USA.
Non sono le macchine che gradualmente guadagnano una corporeità creaturale e una libertà d’iniziativa umana, ma gli uomini che abdicano alla fisicità animale e riducono i propri spazi di autonomia. Non esistono replicanti ribelli che elaborano piani di evasione dal mondo claustrofobico e controllato nel quale li abbiamo costretti, ma gli umani non esitano ad abitare sempre più spesso spazi di quel genere, per lo più virtuali ma non solo. L’universo paranoico di Dick potrebbe essere dietro l’angolo e l’uomo del futuro di cui parlava Turing ci sta andando incontro con tutta la resilienza (più che la rassegnazione) necessaria all’impresa.