N el saggio Small Things Considered Henry Petroski sostiene che l’oggetto perfetto non possa esistere, che ogni progetto è prima di tutto un processo a cui partecipano attori ed esigenze diverse. Dai libri, alle sedie, ai ponti, per quanto piccola o grande sia la scala, il compito del buon design è dunque mirare a un certo grado di funzionalità, a uno stato di perfezione temporanea. Se questo avviene per tentativi, il tempo serve a migliorare, a ripensare la forma delle cose che utilizziamo, degli spazi in cui viviamo, a individuarne i punti deboli, le richieste ignorate e quelle che si aggiungono. Sembra una dichiarazione scontata – che niente esiste in senso assoluto, che tutto può essere adeguato alle nuove esigenze – eppure, in mancanza di forme alternative, quel che non cambia viene percepito come standard, scontato, naturale.
Attualmente più del 50% della popolazione mondiale vive in contesti urbani (un numero destinato a crescere): niente come il luogo in cui viviamo è in grado di influenzare la qualità della nostra vita. Calde, inquinate, sovrappopolate, ma anche spazi di libertà e di possibilità, le città sono la migliore e la peggiore delle possibilità abitative – come nel romanzo La città e la città di China Miéville, in cui due realtà esistono nello stesso tempo e nello stesso luogo, senza toccarsi mai, le città sono contemporaneamente luoghi di emancipazione e di esclusione, di immensa ricchezza e di miseria, in cui sembra riprodursi una mitologia che ha il solo fine di preservarle (il romanzo di China Miéville è anche punto di partenza di questo articolo di Lorenzo Pezzani per e-flux, Hostile Environments). Tra processi spontanei e piani regolatori calati dall’alto, se le città non esistono in un equilibrio statico, dovrebbero quindi essere lo spazio privilegiato per questo tipo di riprogettazione, il terreno di una rinegoziazione costante tra attori diversi – eppure questo non accade: la maggior parte di noi vi si abitua a viverci, nonostante tutto. Se ogni progetto è un processo, quali sono le ragioni di questo cattivo design, a chi appartengono le richieste che non vengono ascoltate?
Prova a rispondere a questa domanda Feminist City di Leslie Kern (Verso, 2020), un libro a metà tra un manuale di geografia di genere e un memoir di vita urbana, ma, invece di disegnare una grande teoria sulle città e le diseguaglianze, la docente canadese sceglie di iniziare a raccontarle a partire dalla scala più piccola, quella della esperienza personale.
Giovane donna prima e madre single poi, in due grandi metropoli occidentali come Toronto e Londra, Kern scrive: “Voglio iniziare con quello che la poetessa Adrienne Rich chiama ‘la geografia più prossima’, il corpo e la vita quotidiana. ‘Inizia con quello che è materiale,’ scrive Rich. ‘Inizia con il corpo femminile… non per trascenderlo, ma per rivendicarlo.’ Cosa stiamo rivendicando qui? Rivendichiamo ciò che è personale, il vissuto, quello che insegna l’istinto, le verità sudate.”
Calde, inquinate, sovrappopolate, ma anche spazi di libertà e di possibilità, le città sono la migliore e la peggiore delle possibilità abitative.
La sua scelta però non ha a che fare con un intento intimistico, di confessione o rivendicazione personale, ma con la più radicale delle domande, cioè: chi è che finora ha avuto il permesso di parlare delle città e in quali termini? Kern si vuole chiedere quale sia l’esperienza che ha modellato e strutturato la città, ossia per chi è stata pensata nei suoi aspetti più materiali.
Con Feminist City ci invita a rileggere la città in termini intersezionali; a farne emergere, cioè, tutte quelle dinamiche – i limiti e le ingiustizie – che diamo per scontate, perché storiche, naturalmente connesse alla città, a partire dal vocabolario con cui ne parliamo, alle categorie tramandate dalla tradizione accademica, alle misure standard calcolate sul corpo maschile.
Pensiamo alla città come a quell’oggetto di cui parlava Henry Petroski, sembra dirci, e testiamola.
Alla letteratura contemporanea non manca certo un’analisi politica dello spazio urbano: anche solo restando in Italia, dell’uso manipolatorio di termini come decoro, sicurezza, inciviltà – artifici retorici che Furio Jesi chiamava idee senza parole – si sono occupati in molti, tra docenti, collettivi attivi sul territorio come Pensare Urbano a Bologna, OffTopic a Milano o Per un’altra città a Firenze, giornalisti e ricercatori in un’opera di decostruzione puntuale del linguaggio e delle pratiche (La buona educazione degli oppressi di Wolf Bukowski, Alegre, 2019 è un utile storia delle dinamiche di esclusione in atto nelle nostre città).
Accanto a questo tipo di studio, per comprendere meglio quale sia l’espressione reale delle ramificazioni di potere che attraversano la città, può essere utile una prospettiva che si posizioni all’interno delle dinamiche a cui partecipa, che si prenda anche il rischio di apparire vulnerabile, di essere nel torto.
È questo tipo di prospettiva, apertamente femminista e intersezionale, ad animare Feminist City. Kern descrive la sua esperienza della città come profondamente modellata dal genere: “la mia identità di genere influenza il modo in cui mi muovo attraverso la città, come vivo quotidianamente, le scelte che ho a mia disposizione. Il genere è molto più del mio corpo, ma il mio corpo è il luogo dove avviene la mia esperienza di vita, dove la mia identità, la mia storia e tutti i luoghi in cui ho vissuto si incontrano e interagiscono tra loro e si inscrivono nella mia carne. È il luogo da cui scrivo.”
Trasferire a livello urbano una lettura delle diverse esperienze e identità, considerare come la propria presenza modifichi lo spazio, è il primo passo per decostruire l’idea di un cittadino ideale.
Ricorda insomma che non solo non esiste un modo non connotato di abitare lo spazio, ma che sono gli stessi luoghi in cui viviamo a riprodurre le differenze di classe e di genere. Come professoressa universitaria, bianca ed eterosessuale, scrive Kern “il mio corpo vuol dire anche pericolo o esclusione per le persone di colore, per la comunità trans, per i disabili, per gli indigeni, e per tutte le persone i cui spazi sono dominati dalla bianchezza e dai corpi conformi.”
Trasferire a livello urbano una lettura delle diverse esperienze ed identità, prendere in considerazione come la propria presenza modifichi lo spazio in cui ci si muove, è il primo passo per decostruire l’idea di un cittadino ideale, per identificare quali siano le esigenze rimosse e quali le dinamiche a cui si partecipa, per poter poi ridisegnare la città perché sia di tutti. Scrive Kern, “mentre non posso cambiare la maggior parte delle caratteristiche che mi definiscono, posso diventare consapevole di cosa significhi il mio corpo e controllare l’impulso ad affermare che io posso e devo rivendicare come mio tutto lo spazio urbano.”
Nello stesso periodo in cui ho letto il saggio di Kern, ricordo di essere passata davanti alla scritta “La notte ci piace, lasciateci uscire in pace”, uno slogan comune nei cortei transfemministi, e ho pensato che quella scritta non parlava solo di me: è vero che come ragazza mi sono abituata a pormi il problema di come rientrare a casa di notte, ma ci sono altri corpi e vite che la città occidentale continua a mettere in pericolo, che si impegna attivamente a rimuovere. Da azioni politiche esplicite come i daspo urbani contro i senzatetto, all’installazione di architetture ostili e la rimozione di fontane e panchine, alle molestie nei confronti delle sexworkers, alla violenza e discriminazione contro gli immigrati e le persone di colore, fino alle barriere architettoniche, le città sono luogo di esclusione e di violenza costanti, spesso invisibili allo sguardo di chi le attraversa.
Eppure la mia esperienza della città mi insegna che lo spazio urbano non è sempre a mia disposizione, che in quanto ragazza sono soggetta a un grado di allerta costante, più o meno indotta, più o meno necessaria: sull’accesso e del godimento dello spazio pubblico da un punto di vista strettamente di genere (e in parte privo delle consapevolezze di cui parla Kern) ha scritto Lauren Elkin, in Flâneuse – Women walk the city (Chatto & Windus, 2016, come per Feminist City in attesa di un’edizione italiana). Qui Elkin riflette sull’inesistenza, o sullo scarso uso, del femminile di flâneur, la figura resa nota da Baudelaire. Eppure le donne camminano, si dice: da Virginia Woolf a Sophie Calle, da Scarlett Johansson in Lost in Translation passando per Cléo della 5 alle 7 di Agnès Varda, “appena ho iniziato a cercare la flâneuse, l’ho vista dappertutto”. In quel libro, anche questo tra storia culturale e memoir, Elkin ricostruisce questa tradizione trascurata, linguisticamente non riconosciuta.
“A volte il ragionamento che si oppone alla flâneuse ha a che fare con la questione della visibilità – ‘Per il flâneur è cruciale essere invisibile per poter esistere” scrive Luc Sante, difendendo il suo uso di flâneur declinato al maschile e non al femminile. Questa osservazione è allo stesso tempo ingiusta e crudelmente accurata” commenta Elkin, analizzando le ragioni della sua non ufficialità. “Ci piacerebbe essere invisibili come lo è un uomo.”
Da azioni politiche esplicite come i daspo urbani contro i senzatetto, all’installazione di architetture ostili, le città sono luogo di esclusione e di violenza costanti, spesso invisibili allo sguardo di chi le attraversa.
Se scrivere un intero libro per rimediare alla mancanza di un femminile ottocentesco sembra eccessivo – come tutte le questioni linguistiche, non lo è – basta pensare che, se la traduzione italiana di flâneur è passeggiatore, il suo femminile è passeggiatrice, una parola che mantiene ancora oggi una connotazione ben precisa. L’originaria mancanza del femminile, tra l’altro, ha la stessa radice: alla metà dell’ottocento, quando si inventa lo spazio pubblico, grazie anche all’uso delle fogne che liberano e rendono praticabile il suolo, per una donna camminare per strada significava esporsi al rischio di essere scambiata per una public woman, una prostituta.
Per le donne allora vennero creati i centri commerciali, dove erano finalmente libere di girare indisturbate e protette: sebbene questi garantissero un certo grado di libertà, la città creata a misura di donna era – e resta ancora oggi – il luogo del consumo, più che dell’emancipazione (d’altra parte, gli stessi boulevard erano pensati come strumento di controllo da parte dei governi locali e centrali, per evitare possibili rivolte, al meglio per migliorare la salute pubblica).
È passato più di un secolo da quando Baudelaire ha descritto la passante (oggetto di contemplazione, non soggetto come la flâneuse), eppure la donna che cammina per la città resta ancora uno spettacolo, nel senso di qualcosa da guardare, come insegnano video come 10 Hours of Walking in NYC as a Woman, che descrivono un’esperienza che qualsiasi ragazza conosce benissimo. Lavorando in questa direzione, Amy Murphy, docente della University of Southern California, ha messo insieme un’interessante analisi al rapporto tra città e donne in una bibliografia dal titolo Women, Space, and Place: Four Cinematic Pairings. Le quattro sezioni, ognuna delle quali corredata da film e testi, ampliano la relazione tra le donne e la città osservandola da punti di vista diversi: dal rapporto tra pubblico e privato (con Foucault e Sennett), allo spazio come performance (Debord, Berger), al mondo futuro (Kevin Lynch, la stessa Murphy, Timothy Morton), fino alla noosfera (guardare Ghost in the Shell, leggere Donna Haraway).
Invisibilità o eccessiva esposizione: gli estremi dell’esclusione urbana si sovrappongono. Rispetto a questi lavori, Feminist City allarga il discorso, proprio perché fa radicalmente suo l’insegnamento di Rich che prescriveva di non trascendere il proprio corpo. Propone una prospettiva femminista e intersezionale nello studio dello spazio e analizza come sia pervaso da dinamiche di genere e di classe, anche conflittuali e che si ripropongono che ci facciamo caso o no. L’esperienza della città non esiste in senso assoluto, banalmente: decodificare quali esperienze si siano imposte come egemoniche e quindi storicamente valide è fondamentale quando si parla di spazio, cioè di relazioni.
L’esperienza descritta da Elkin quindi esiste, insomma, non è né più né meno vera di altre: dopo averla resa visibile, è necessario metterla in relazione con le altre che attraversano la città.
Diviso per temi, la città delle mamme, degli amici, di chi vive solo, delle proteste e della paura, Feminist City racconta, come dice il sottotitolo, le difficoltà a rivendicare spazio in un mondo fatto da (e per) gli uomini. Kern non si limita però a stilare un elenco di storie che compongono la città, né a metterle in ordine di importanza, ma ne sottolinea invece le interrelazioni, le complesse dinamiche di potere, in cui istanze collettive vengono trattate come individuali, messe una contro l’altra, come se si escludessero a vicenda. Lontano dall’essere un libro definitivo, Feminist City mette in scena una discussione aperta e non lineare, persino contraddittoria, fatta di connivenze e di solidarietà possibili.
Feminist City propone una prospettiva femminista e intersezionale nello studio dello spazio e analizza come sia pervaso da dinamiche di genere e di classe.
Ad esempio, Kern, pur descrivendo a lungo le difficoltà di crescere un figlio in città, è consapevole che, spostandosi in quartieri con affitti più economici, la sua presenza contribuirà alla loro trasformazione, perché la sua biografia fa sì che siano i suoi bisogni quelli che le municipalità vorranno soddisfare prontamente, che sarà uno strumento di esclusione, suo malgrado. Lo stesso, quando parla di amicizie femminili, quelle relazioni orizzontali cruciali nel processo di rivendicazione dello spazio urbano “maschile” (il man-made world del titolo), sa anche che più di altre questo tipo di esperienza urbana – spesso vitale e a suo modo sovversiva – è oggi parte fondante della cultura pop, replicata in serie tv, film e libri, trasformata in qualcosa di altamente capitalizzabile. L’emblema è Sex & the City, che ha funzionato da catalizzatore del processo di rivalutazione del quartiere (reale) in cui il personaggio (finzionale) Carrie Bradshaw viveva, un processo del tutto irreversibile, ma non è che uno degli esempi possibili di femminilizzazione dello spazio. Per non parlare di Richard Florida e della classe creativa, una vera e propria testa d’ariete nella riqualificazione di intere aree urbane: tutte queste categorie quasi-mitologiche, tanto vengono stereotipate e trasformate in esperienze da consumare, hanno il permesso di occupare lo spazio urbano perché possano consumare di più. Come le donne di fine Ottocento, anche loro sono lasciati liberi di girare indisturbati e protetti in quartieri che diventano centri commerciali.
“Il mio arricchimento personale – poter concludere i miei studi – è dipeso in parte dalla disponibilità di lavoratori sottopagati (fattorini, babysitter), un aspetto che mi ha reso chiaro come la mancanza di servizi pubblici alla persona renda più profonde le diseguaglianze tra le donne, mentre siamo costrette a prendere parte a vari gradi di sfruttamento per poter restare a galla,” scrive Kern. Se la città raccontata da Feminist City non sempre assomiglia a quelle in cui viviamo, al di là delle differenze – di scala, di processi e comunità urbane – l’essenza di queste riflessioni resta valida: è evidente per chiunque acceda a tutta quella varietà di servizi più o meno essenziali (e-shopping, consegne a domicilio, tra i tanti) che promettono di semplificare la nostra vita a discapito di altri, è evidente a chiunque si sia spostato un po’ di a est, un po’ più a nord per trovare un affitto ancora accettabile.
Vale anche per la 15-minute-city, l’ideale città del futuro in cui lavoro, scuola, servizi essenziali saranno a portata, per diminuire pendolarismi eccessivi e così anche l’inquinamento: quello che non sembra sempre chiaro in queste visioni è chi farà sì che i servizi di base continuino a essere forniti. Nei mesi di pandemia è stato evidente, in Italia come altrove, che una grande parte di lavoratori nei fatti essenziali (inservienti, ma anche fattorini, eccetera) viva a grande distanza dal proprio posto di lavoro: a chi è destinata questa visione progressista? Quanto sarà inclusiva?
La geografa femminista Jane Darke scriveva che “ogni insediamento incide nello spazio le relazioni sociali della società che l’ha costruito… Le nostre città sono patriarcato scritto con pietra, mattoni, vetro e cemento”. Le ineguaglianze e le violenze su cui sono state fondate le città non svaniscono semplicemente con il tempo e le generazioni, ma si riproducono in tutte le relazioni spaziali e sociali, attraverso queste relazioni spaziali e sociali.
Anni fa, lo cita Leslie Kern, Teju Cole aveva commentato l’arresto ingiustificato di due uomini di colore che aspettavano un amico in uno Starbucks così, “non siamo al sicuro neanche nei posti più scontati. Non siamo uguali neanche nelle circostanze più comuni. Siamo sempre a un passo dal vedere la nostra vita venire stravolta. È per questo che dico che non puoi essere un flâneur nero. La flânerie è per i bianchi. Per i neri nel territorio dei bianchi, ogni spazio è caricato di tensione. […] camminiamo sempre in allerta e paghiamo a caro prezzo questo stato di vigilanza.”
Le ineguaglianze e le violenze su cui sono state fondate le città non svaniscono semplicemente con il tempo e le generazioni, ma si riproducono in tutte le relazioni spaziali e sociali.
Feminist City è stato scritto prima della pandemia e prima della nuova ondata di lotte di Black Lives Matter – una lunga intervista con Jessa Crispin “aggiorna” il libro in questo senso – ma contiene già quei temi che questi ultimi mesi hanno semplicemente reso impossibili da ignorare, dal lavoro di cura delegato alle madri e alle donne in generale (su cui valgono ancora le riflessioni di Silvia Federici sul salario per il lavoro domestico), alla insostenibilità economica delle città, al razzismo insito nelle strutture urbane, di cui le parole di Cole sono un riflesso. Quello di cui parla Cole non riguarda solo l’impunità del potere, ma anche il grado di distorsione dell’opinione pubblica per cui, per fare un altro esempio, anche se sappiamo che la maggior parte delle violenze fisiche e sessuali contro le donne sono di natura domestica, non solo è tollerata, ma quasi incoraggiata la presenza di polizia per le strade, al di là di una necessità dimostrabile. L’uso della paura come strumento di dominazione pone i soggetti “deboli”, come vengono descritte le donne in questa circostanza, in uno stato di allerta maggiore, in una consapevolezza, perfino alterata, della propria potenziale vulnerabilità rispetto a chi viene presentato come non conforme, diverso, sempre in accezioni negative. Così, la notte non appartiene a nessuno.
Rivendicare spazio quindi è un’azione politica, significa riappropriarsi delle strade e del modo in cui ne parliamo. In Feminist City ogni discussione ne apre un’altra, ogni soluzione è da riformulare con più attenzione, perché sono le stesse categorie che usiamo per parlare di città – sicurezza, vivibilità, produttività – a essere connotate, mai oggettive. Quando parliamo di sicurezza, dovremmo sempre chiederci per chi, insomma, rispetto a quale pericolo, dovremmo interrogarci anche sull’origine dei pericoli stessi, sulle diseguaglianze e le ingiustizie che da cui derivano; se parliamo di città produttiva, dovremmo chiederci a favore e a scapito di chi si converte quella ricchezza.
Feminist City è un’ode al vivere insieme, a un redesign collettivo dello spazio, alla ricerca di nuovi equilibri più funzionali, per una città possibile. “Diciamolo, affidarsi allo stato per una trasformazione radicale è uno spreco di tempo e forse è persino pericoloso per quelle persone […] che sono state viste come sacrificabili o considerate come ‘problemi’ che vanno risolti o di cui disfarsi nella città ‘progressiva’,” scrive Kern, citando il lavoro della urbanista e femminista Zenzele Isoke. “Gli studi di Isoke mostrano il potere di forgiare alleanze attraverso le diverse comunità per combattere razzismo, sessismo e omofobia, per ‘affrontare e trasformare la strutturale intersezionalità dell’oppressione all’interno della città’.”
Come scrive Sarah Gainsforth in un articolo sulle città non come oggetti fisici ma oggetti sociali “un’indicazione importante su come potrebbe e dovrebbe essere la città del futuro, le persone ‘comuni’ l’hanno già data. Non con previsioni ma con pratiche: con l’emersione, il manifestarsi e l’affiorare di pratiche di solidarietà, mutualismo e cooperazione nate in tutto il mondo in risposta all’emergenza”.
Rivendicare spazio quindi è un’azione politica, significa riappropriarsi delle strade e del modo in cui ne parliamo.
Questa è la visione che dovremmo fare vostra, quella che permette di catturare e descrivere le dinamiche di potere che si inscrivono nella pietra come nei corpi, per trovare istanze comuni e trasversali.
Judith Butler nel suo ultimo libro, La forza della nonviolenza, suggerisce che dovremmo ripensare all’uguaglianza in termini di interdipendenza. “Tendiamo a dire che ogni persona dovrebbe essere trattata come gli altri e misuriamo se si sia o meno ottenuta l’uguaglianza confrontando casi individuali,” dice in una recente intervista per il New Statesman. “Ma se fosse proprio l’individuo – e l’individualismo – parte del problema? È cosa diversa considerarsi parte di un mondo in cui dipendiamo fondamentalmente dagli altri, dalle istituzioni, dalla Terra[…]. Se nessuno sfugge a questa interdipendenza, allora siamo creati uguali, in un altro senso. Siamo dipendenti in modo eguale, socialmente ed ecologicamente, e ciò significa che smettiamo di considerarci solo come individui distinti.”
Interdipendenza, intersezionalità: queste sono le chiavi per ripensare la città e il mondo in cui viviamo, non solo perché la miseria, la violenza, le disuguaglianze sono sempre più evidenti ai nostri occhi, ma perché la crisi climatica ci pone domande sempre più pressanti su dove e come potremo vivere insieme. E anche perché il compito del design è di provare a rispondere a tutte le esigenze in campo.
“Anche se sono necessari cambiamenti su grande scala sia a livello individuale che di società, non abbiamo bisogno di immaginare grandiose visioni universali o mondi utopici per iniziare a cambiare le cose, in meglio,” scrive Kern. “Abbiamo tutti la capacità di creare nuovi mondi urbani – femministi e urbani – anche dovessero durare solo un attimo, o esistere solo in un angolo della città. Parte del cambiamento è riconoscere dove queste alternative sono già realtà e provare a capire se si possano estendere o adattare ad altri contesti. La mia speranza è che possiate imparare a vedere quali alternative sono già in campo, per iniziare una vostra conversazione su genere, femminismo e vita urbana e trovare il vostro modo di fare diversamente le cose o le città.”
Feminist city sarà tradotto e pubblicato da Treccani Libri nell’autunno 2021.