E ro andato nella Chiesa di Santa Felicita, subito dopo Ponte Vecchio, a vedere la Deposizione. Fui molto colpito dai colori. Uscendo mi domandai, sinceramente, che cos’avesse fumato il pittore per dipingere quegli azzurri incredibili. Sembrava che avesse lavorato sotto l’effetto dell’LSD.” Il pittore in questione è Jacopo Carucci, meglio noto come il Pontormo. L’autore della frase – divenuta famosa – un artista americano nato quattro secoli e mezzo dopo di lui: Bill Viola.
Siamo a Firenze, nel 1974. La città si è ripresa dalla disastrosa alluvione che otto anni prima l’ha avvolta nell’acqua e nel fango, senza risparmiare le sue opere d’arte. Nei dintorni, come in tutta Italia, gli anni di piombo si fanno sentire con episodi di violenza e gruppi armati che prendono forma. Il 14 settembre il Mostro di Firenze compie il suo secondo duplice omicidio, e nello stesso mese arriva in città un giovane newyorkese dal cognome italiano, fresco di laurea presso la Syracuse University. Ha 23 anni e pensa che i musei d’arte antica siano “ospedali tirati a lucido, fatti per conservare opere morte”, interessanti solo per vecchi studiosi. L’arte, per lui, abita altrove. Per esempio nei videotapes sperimentali su cui lavora già da tre anni, nelle possibilità dell’immagine elettronica e nelle magie del tubo catodico: novità che oggi possono sembrare preistoria.
Questo ragazzo ha saputo che a Firenze esiste dal 1972 un centro sperimentale di video, uno fra i pochi in Europa e quasi l’unico in Italia. È proprio la fondatrice di questo luogo speciale, Maria Gloria Bicocchi, a invitarlo sotto consiglio del curatore del Long Beach Museum of Art, David Ross. Il centro si chiama art/tapes/22 ed è allestito in un fondo sfitto in Via Ricasoli 22, in pieno centro, sotto la casa dove la Bicocchi vive con il marito e i due figli. Nell’arco della sua breve vita – art/tapes/22 verrà chiuso nel 1976 per mancanza di sostegno da parte delle istituzioni – lo studio diventa un crogiuolo di sperimentazioni. Anche se il resto di Firenze stenta ad accorgersene, da Via Ricasoli passano nomi come Jannis Kounellis, Joseph Beuys, Marina Abramović. E Bill Viola, ovviamente: il nostro giovane di New York che qui, per 18 mesi, si fa le ossa senza sapere che diventerà uno dei maggiori sperimentatori del video. E senza sapere che nel 2017 ci tornerà, a Firenze, con una vasta retrospettiva sul suo lavoro organizzata da Palazzo Strozzi, Rinascimento Elettronico.
In quella Firenze di metà anni Settanta, a Bill Viola succede qualcosa di particolare. Vede la città, la conosce e la vive scoprendo che l’arte del passato è tutt’altro che morta. A Firenze capisce che l’arte non è fatta per i musei, ma sono i musei a essere fatti per l’arte. Per un americano non è scontato realizzare che l’arte antica, a Firenze, è dappertutto. Come dirà in seguito, “Molte delle opere medievali e rinascimentali che avevo visto in quei primi mesi a Firenze non erano neanche nei musei. Erano nella comunità, in luoghi pubblici – cattedrali, chiese, cappelle, corti, monumenti, uffici municipali, piazze e facciate di palazzi – e di più, molte opere erano ancora nei luoghi per i quali erano state commissionate cinquecento anni prima. L’atmosfera era satura di idee e di cultura. Avevo capito presto che qui la storia era veramente parte del presente”.
I palazzi storici e le statue che punteggiano le vie creano uno scambio vivo fra gli abitanti e la città. Gli affreschi delle chiese – come quelli in Santa Croce, che Bill Viola visita lo stesso giorno di S.Felicita – si dipanano in riquadri sequenziali: gli sembrano una sceneggiatura che avvolge lo spettatore come un’installazione dove il contenuto è re. L’inaspettata modernità dei vecchi maestri è per Bill Viola una presa di coscienza lenta, quasi inconscia, che comincia a strisciare sottopelle, sparpagliando semi che si prenderanno tutto il tempo necessario per sedimentare e germogliare.
Davanti alla Pinturas Negras di Goya, ai grilli diabolici di Bosch e all’intensità di Velasquez, un Bill Viola frastornato dal jet lag e in una fase di vulnerabilità emotiva si commuove.
Questa digestione prosegue silenziosa, accompagnandolo nei suoi viaggi, nei suoi lavori ed esperienze, senza manifestarsi ancora, mentre prende corpo il suo linguaggio visivo. Anche per lui il il contenuto è il re, il video nient’altro che un mezzo: attraverso la granulosità dell’immagine elettronica, Bill Viola inizia a lavorare sulla percezione sensoriale, la memoria emozionale, gli strati impercettibili della coscienza. Gli interessa indagare ciò che non vediamo e che ci sfugge, facendolo emergere attraverso lo slow motion, di cui fa ampio uso. Tecnica che, come affermerà, ci rivela “la dimensione nascosta di eventi sconosciuti e di configurazioni in divenire, cose che normalmente sono al di sotto della soglia di consapevolezza”.
La scintilla che unisce queste due propaggini di pensiero – l’immagine rallentata che indaga i diversi “livelli di realtà” da un lato, l’arte antica come narrazione fluida dall’altro – scocca di nuovo in Europa. Questa volta in Spagna, al Museo del Prado di Madrid. È il 1983 e davanti alla Pinturas Negras di Goya, ai grilli diabolici di Bosch e all’intensità di Velasquez, un Bill Viola frastornato dal jet lag e in una fase di vulnerabilità emotiva si commuove. Comincia a piangere a dirotto, lì nelle stanze del Prado, lasciando tornare a galla quei germogli piantati a Firenze. E ha una rivelazione potente. “Ho capito che i vecchi maestri non erano altro che giovani radicali – racconterà nel 2014 in un’intervista al professor Bruno Di Marino – Masaccio, Michelangelo, Raffaello, erano artisti influenzati da nuove idee tecniche e scientifiche. Avevano tutti circa 20 anni quando hanno creato i primi grandi lavori.” Proprio come lui, quando decide di usare lo switcher come uno strumento musicale e crea le prime perturbazioni elettroniche sullo schermo di un televisore. Per Viola, ormai uomo maturo, si aprono nuovi scenari. È tempo di fare incontrare l’immagine elettronica, lo slow motion e l’indagine dei “livelli di realtà” con l’arte del passato. Cominciano a nascere contaminazioni: non citazioni, né appropriazioni, ma un rapporto empatico con alcune opere antiche, riprendendone i contenuti e mettendoli in scena.
La prima opera di questa serie ad avere successo, riproposta anche in Rinascimento Elettronico assieme alla sua illustre “sorella” cinquecentesca, è The Greeting (1995). Vent’anni dopo il primo incontro con Pontormo nella chiesa di S.Felicita a Firenze, Bill Viola si imbatte di nuovo nei colori lisergici dell’artista toscano. In una libreria californiana trova per caso un nuovo volume a lui dedicato: in copertina, questa volta, c’è la Visitazione, con i suoi verde petrolio, rosa confetto, arancio mandarino. È strana, la Visitazione del Pontormo. Racconta l’incontro a colori saturati fra la Maria di Nazareth incinta di Gesù e la cugina Elisabetta incinta di San Giovanni Battista. Dietro le due donne, le cui vesti mosse da un vento invisibile fasciano i rispettivi pancioni inaspettati, si stagliano due presenze frontali: altre due donne, forse il loro doppio, Maria a colori invertiti.
In The Greeting Bill Viola dota questo incontro di un prima e un dopo. I colori sono sempre accesi, blu elettrico, rosso vivo, arancione squillante. Il filo della narrazione è interrotto dalla brusca intrusione di una terza donna – l’imprevisto – che spariglia le carte e richiede un nuovo adattarsi al cambiamento. Il risultato sono 45 secondi di girato, rallentato a tal punto da durare dieci minuti. Tutto sembra fermo, fatta eccezione per il vento che fa frusciare gonne e capelli, ma la scena si muove: sui visi delle donne si animano le sfumature delle emozioni umane, quelle che altrimenti rimarrebbero invisibili. Un battito di ciglia, il fremito impercettibile di un muscolo. Dal Pontormo si arriva allo schema della narrazione classica – situazione iniziale, crisi, nuovo ordine – attraverso i colori brillanti e gli strati nascosti delle emozioni.
Forse alcuni fra gli espedienti usati da Bill Viola possono sembrare già più vicini al passato che al presente.
Un altro incontro nato da un’immagine vista su un libro e allestito in Rinascimento Elettronico è quello fra Viola e Andrea di Bartolo, l’artista che per primo, a fine Trecento, raffigura Caterina da Siena, morta nel 1380 e non ancora canonizzata. In questo suo polittico dedicato alla vita delle monache domenicane, quello che colpisce l’attenzione di Bill Viola è la predella: la fascia inferiore usata per raccontare storie a complemento delle immagini principali, fisse e maestose, dipinte sul resto della tavola. Nella predella di Andrea di Bartolo cinque riquadri mostrano momenti di vita di cinque monache, ciascuna per riquadro, fra cui Caterina: un racconto polifonico che ci restituisce la quotidianità delle monache, fatta di interni angusti e preghiera.
A partire da questo schema, nel 2001 Bill Viola mette in scena la sua predella elettronica e la intitola Catherine’s Room. Cinque schermi di piccolo formato, sistemati orizzontalmente, ci fanno entrare nell’interno spoglio di una stanza col soffitto a travi e poche suppellettili. Dentro, una donna compie cinque azioni, ciascuna per ogni riquadro: mangia una mela, cuce, medita su alcune carte alla scrivania, accende candele votive, dorme. O forse muore, dato che la ciclicità del giorno e delle stagioni penetra dall’unica apertura verso l’esterno. Dalla finestrella entra la luce del giorno, che cambia a seconda dell’orario, e spunta un ramo di ciliegio sui cui rami si susseguono le stagioni. Fino al quinto riquadro, l’ultimo, dove la finestrella non è che un rettangolo nero.
C’è chi la morte, però, l’ha sconfitta: Cristo, che dopo tre giorni resuscita dal sepolcro. Bill Viola riprende anche questo tema in una retroproiezione in alta definizione del 2002 che intitola Emergence. Per il confronto si torna nella Toscana del primo Rinascimento, questa volta a un affresco di Masolino da Panicale: Cristo in Pietà. Qui, Cristo esce dal sarcofago, aiutato da Maria e da Maddalena. Ha il biancore della morte, ma gli occhi socchiusi della vita: è vivo e morto allo stesso tempo. Bill Viola, nel suo video, ci regala di nuovo un prima e un dopo. Il suo sarcofago sembra un pozzo, è colmo d’acqua che tracima in lente cascate. Spuntano capelli, poi la testa, poi un viso, infine tutto il corpo pallido, incredibilmente risorto, ma inequivocabilmente morto. Mentre l’acqua scorre, viene sorretto e deposto a terra da due donne che lo coprono con un velo. Ovviamente, in slow motion.
Forse alcuni fra gli espedienti usati da Bill Viola possono sembrare già più vicini al passato che al presente. Con il tempo l’arte antica diventa sempre più antica e lo slow motion va in direzione contraria rispetto alla velocità e agli impulsi incalzanti di oggi. Eppure, l’arte antica ci parla ancora e l’immagine rallentata ci permette di guardarci dentro. Dando retta, magari, a una necessità tanto inconscia quanto i germogli rinascimentali che Viola ha fatto suoi a Firenze: quella di concedersi di nuovo il lusso della lentezza. E lasciarsi immergere.