A ll’inizio de La linea verticale, la serie tv che racconta l’odissea ospedaliera di un malato di cancro, Mattia Torre fa qualcosa che prima o poi tutti quanti facciamo: immagina il proprio funerale. La riflessione, affidata al protagonista Valerio Mastandrea, compie mentalmente quell’iperbole immaginativa che, di fronte alla malattia o alla semplice prospettiva della morte, sembra essere una tentazione irrinunciabile: ricucire con il racconto quello che la vita, nella sua incompletezza, nella sua assurdità, non ti lascia il tempo o il modo di fare. In questa scena, dove Mattia Torre si è ritagliato il cameo dell’amico che durante l’orazione fa la battuta un po’ cretina, quella in grado di suscitare un momento di riso nel pianto, c’è molto della sua poetica. E si riallaccia idealmente a quel monologo dei primi anni duemila, In mezzo al mare portato in scena da Valerio Aprea, con cui iniziò la sua notorietà, dove con lo stesso sfacciato candore il protagonista ammetteva di essere in balia delle onde di un mare-mondo, fatto di specialismi e di autodefinizioni sempre perentorie e calzanti, di cui lui in fondo non si sentiva parte e non capiva granché. Questa ammissione di finitezza, questa semi-seria descrizione della condizione umana, così in bilico sul tragico quanto sul ridicolo, curabile idealmente soltanto dalle possibilità della scrittura, è il più grande lascito che Mattia Torre ha fatto alla cultura di questo paese.
Mattia Torre se n’è andato lo scorso 19 luglio, e la notizia ha spiazzato un po’ tutti. Si sapeva, ovviamente, che stava male, ma quando sulla scena della scrittura (teatrale, audiovisiva, letteraria) compare qualcuno con una comicità come la sua, dissacrante quanto in fondo gentile, quell’arma spuntata contro i mali dell’esistenza ci sembra magicamente esentata dalle magagne della vita, dal dolore, dalle incomprensioni, dalle difficoltà, persino dalla fine, perché evocando tutte queste cose in scena, in quel modo disincantato ed esilarante, ce le fa paradossalmente dimenticare per un po’.Ovviamente è un’illusione, e noi che, in quanto donne e uomini, di illusioni viviamo, restiamo tanto più orfani quando qualcuno che scrive, e che con le illusioni sa giocarci meglio di noi, se ne va. Christian Raimo, in un post su Facebook a pochi minuti dalla sua scomparsa, lo ha definito “un autore immenso” e non ha tutti i torti. Perché pochi altri autori hanno saputo regalarci delle battute che sono diventate proverbiali, che si sono innestate nel tessuto della nostra lingua quotidiana, da dove forse in parte provenivano come forza espressiva, ma a cui sono tornate con quella luce speciale che solo un autore sa dargli. Ecco perché c’è chi, come Francesco Pacifico, lo ha salutato chiamandolo “Genio!”, con una citazione di Boris: è l’omaggio, grato e sentito, a chi ci ha regalato storie e parole.
Ma non c’entra solo la comicità. Mattia era soprattutto un instancabile osservatore di un paese come l’Italia così disperatamente ingarbugliato, che lui osservava dal ponte di comando di una capitale, Roma, ancora più ingarbugliata e macilenta. La comicità, semmai, è qualcosa che fuoriusciva dal tentativo di non farsi sopraffare da tutto questo. Un tentativo ironico, beffardo, a volte cinico, ma mai prevaricatore o sguaiato: ha fatto ridere tantissimo senza puntare agli istinti più grossolani, anzi, facendo qualche volta pensare, qualche volta persino piangere.
La notizia della sua morte mi è arrivata mentre stavo al cimitero acattolico di Testaccio, a due passi da casa mia, di fronte alla tomba di Camilleri. Pur facendo le debite distinzioni, ho subito pensato che se ne andava un altro autore autenticamente popolare, che ha saputo con grazia e maestria affrontare quella dimensione “popolare” di cui la cultura italiana ha sempre un po’ paura. In effetti, non tutti capivano cosa facesse Mattia Torre, pur restando inevitabilmente affascinati dal suo sguardo arguto, comico e amaro allo stesso tempo: per la televisione era troppo sperimentale, per il teatro contemporaneo troppo commerciale, per la letteratura nemmeno saprei dirlo. In realtà la sua voce d’autore era ben incastonata in quel panorama geniale e anarchico della scena romana degli ultimi vent’anni, fatta ovviamente di esperienze eterogenee e differenti, popolari oppure no, ma in continua osmosi creativa, un panorama che va da Ascanio Celestini a Eleonora Danco, da Rezza/Mastrella ad Andrea Cosentino, dalla compagnia Frosini/Timpano a Lucia Calamaro – e che oggi prosegue con la linea altrettanto anarcoide degli artisti di “Sgombro” come Claudio Morici. Solo che la sua voce, che restava più o meno sempre la stessa anche cambiando mezzo d’espressione, dalla televisione al teatro al cinema, sparigliava un po’ le mappe “identitarie” di cui critici e giornalisti, e a volte gli organizzatori, hanno sempre un po’ (troppo) bisogno. Durante una conversazione con lui e Valerio Aprea al Teatro Quarticciolo, qualche anno fa, gli proposi questo mio ragionamento e lui sorrise e si trovò in qualche modo d’accordo.
Il fatto è che chi si muove con la libertà che Mattia Torre ha cercato nei suoi lavori, nel mondo un po’ attempato e un po’ bisognoso di certezze della cultura italica, genera confusione. Fa teatro comico? Sperimentale? Cabaret? Cinema? Televisione intelligente? Ma davvero è importante rispondere a questa domanda? E io stesso, con questa serie di interrogativi non sto creando un po’ un santino di chi non c’è più, come lui stesso scriveva in modo divertito e malizioso all’inizio de La linea verticale? Ecco, tenersi a debita distanza dalla radiografia del presente che Mattia Torre sapeva fare è quasi impossibile, e questo ne dimostra la genialità. Alla televisione, ovviamente, deve il successo maggiore e anche una modalità di scrittura particolare, quella a tre condivisa con gli amici e sodali Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, ovviamente per Boris ma anche, qualche anno prima, l’esperienza surreale di Buttafuori (oltre ad aver già sperimentato la collaborazione alla scrittura per quell’oggetto difforme e geniale che è il film Piovono mucche, diretto da Vendruscolo). Ed è proprio a quell’altro strano oggetto che è La linea verticale – che Aldo Grasso ha citato tra le cose che ‘rischiano’ di svecchiare la nostra tv pubblica – che Torre ha affidato un esempio di quella poetica amara e comica, che ha affinato su più spazi espressivi, su più formati e media, in un momento della serie che sembra quasi un’odierna livella del principe De Curtis: “I pazienti sono tutti uguali. Non c’è classe sociale, età, censo, reddito, formazione culturale, orientamento politico o religioso che faccia la differenza. Tutti i pazienti sono dei disgraziati. Che siano dirigenti o impiegati, pensionati, disoccupati, criminali, nessuno di loro cerca di distinguersi, di far valere la propria individualità. Cercano solo una cosa: la salvezza”.
La libertà di poter dire fino in fondo ciò che si vuole dire, per un autore che ha a che fare con industrie complesse come quelle dell’audiovisivo italiano, è un bene prezioso e una scelta di campo precisa. Che Mattia Torre ha ricercato senza sosta, fedele solo alla propria libertà espressiva. È una scelta che ha pagato se oggi quegli “oggetti strani” che scriveva sembrano aver caratterizzato almeno un ventennio della storia della nostra comicità: più o meno, l’intero arco della sua carriera.
Nell’intervista che gli feci a Fahrenheit lo scorso 14 giugno in occasione dell’uscita della nuova edizione di In mezzo al mare, che raccoglie i suoi monologhi, l’ho definito l’erede della commedia all’italiana. Non che la cosa non gli facesse piacere, ma rispose che “la nostra tradizione cinematografica, così importante, è anche un peso. Sicuramente assorbiamo dei modelli culturali, inevitabilmente e per fortuna, perché ci arricchiscono. Però, compito della scrittura è agganciarsi all’oggi, secondo me. E cercare di fare cose diverse, senza la gabbia dei riferimenti. Noi siamo molto legati al passato, in tutto quanto. Io penso che la scrittura debba svincolarsi, con audacia, rischiando, e rischiando anche grandi toppe, ma per fare cose diverse e nuove”. Questo suo sguardo sul presente, ma un po’ già rivolto al futuro, è qualcosa che faremmo bene a portarci appresso.
Come nasce la scrittura per il teatro di Mattia Torre?
Azzardo, da amante del teatro, una differenza di approccio. Nella scrittura teatrale forse c’è più spazio per andare a fondo nei sentimenti profondi dei personaggi. Come avviene in In mezzo al mare, monologo che segna l’inizio della complicità con Valerio Aprea, o in Migliore, che invece dà il via alla collaborazione con Valerio Mastandrea. Il primo racconta della difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo, il secondo tratteggia la situazione beffarda di un uomo che più si comporta bene e più viene bastonato dalla vita, mentre quando sceglie di essere egoista e di sopraffare gli altri comincia ad ottenere tutto.
In effetti, i tuoi personaggi a volte incarnano una “mostrificazione” ma, nonostante questo, continuano a somigliarci parecchio. Ad esempio Gola scende davvero in profondità in un grande vizio degli italiani.
Gola ha anche una comicità molto accentuata, che non è solo qualcosa che si attiva dal vivo, grazie alla bravura dell’attore. Anche nella lettura, la comicità della tua scrittura resta intatta. E questa è una cosa a tratti straordinaria perché quasi sempre leggere il teatro è difficile, quasi ostico, una cosa per amatori che sanno intravedere come poi saranno le parole sulla scena. I tuoi “sette atti comici”, raccolti nel libro Mondadori, conservano la loro potenza anche sulla pagina, contravvenendo a questa regola del teatro.
In fondo questo gioco di opposti è la caratteristica della tua scrittura, che coniuga una comicità molto pronunciata alla capacità di andare a fondo, anche in modo impietoso, nella realtà che racconta. Questa cosa rende il tuo teatro un po’ un “unicum” nel panorama italiano. Per altro chi lavora sul comico con risultati come i tuoi è spesso tentato dalla strada televisiva. La comicità televisiva, però, tende spesso a incanalarsi su binari semplici, persino triviali, come se venisse assimilata dal linguaggio del piccolo schermo. Per te non è stato così: i primi esperimenti televisivi, come ad esempio Buttafuori, una serie in pillole dalla comicità surreale, sembrava addirittura sabotare il linguaggio della tivvù.
Visto che citi Boris, dove gli autori sono messi in scena, proviamo a scendere nella cassetta degli attrezzi dell’autore. Come capisci l’effetto comico della tua scrittura? Funziona un po’ come per i tre autori di Boris?
Questo è forse l’indicazione più legata a quello sguardo che tu chiami “sociologico”. Però nella tua scrittura non manca un’attenzione all’intimità. Ad esempio in Figli, un testo nato da un invito che Annalena Benini ti ha rivolto, che quindi ha avuto prima una gestazione come articolo di giornale ed è poi diventato un testo, portato in televisione ancora una volta da Mastandrea.
Insomma, la scrittura è come il maiale, non si butta niente…
Figli va a pescare nella tua storia personale. La tua biografia è un motore importante per te?
Il Mattia Torre drammaturgo è stato anche uno sperimentatore linguistico. Per questioni di difformità lo spettacolo 456 non è entrato nel volume edito da Mondadori, che raccoglie soltanto i monologhi, ma quello spettacolo è un snodo importante della tua scrittura, proprio grazie a delle invenzioni linguistiche allo stesso tempo esilaranti e complesse.
Anche in quel testo ci sono i vizi e le virtù dell’Italia, il suo essere un paese gerontocratico e perfino mortifero. I tre numeri del titolo, non a caso, fanno riferimento ai loculi comprati dai genitori per sé stessi e per il figlio, utilizzando tutti i risparmi che avrebbero (forse) permesso al figlio di fuggire da quella condizione di stasi. Ma sono le invenzioni linguistiche, unite alle battute, a rendere questo panorama allo stesso tempo comico e raggelante. Ne è un esempio il “sugo perpetuo”, rimasto sul fornello acceso dalla dipartita della nonna, in una sorta di abbraccio urticante tra cibo e morte, pilastri del familismo mortifero che racconti nella pièce. Tu citavi il lavoro con gli attori, imprescindibile per dare corpo alla neolingua del testo. Più in generale, quanto sono stati importanti per te gli incontri, le persone con cui hai collaborato?
Quando si lavora più volte con gli stessi attori, come nel tuo caso con Aprea e Mastandrea, si comincia un po’ a scrivere pensando a loro?
I sette atti comici hanno tematiche diverse, ma c’è qualcosa che li accomuna: un certo gusto per l’iperbole. Si parte da un dato, spesso molto quotidiano e vicino a noi, ma il ragionarci sopra, lo svisceramento di quel pensiero, porta a delle vette iperboliche molto comiche ma altrettanto amare. Qual è la scintilla, l’innesco, per la scrittura di un tuo pezzo?
I tuoi testi hanno fatto un viaggio dal teatro alla pagina scritta. Questo ha significato rimaneggiarli? E anche nelle messe in scena come fai, tendi a riscrivere i tuoi testi, a cesellarli di volta in volta?
E succede? Non c’è stato uno spettacolo che ti è in qualche modo scappato di mano?
Tu dicevi che diffidi tanto del “buonismo” che del “cattivismo”. Ma pensi che serva un po’ di cinismo, o almeno di disincanto, per attivare uno sguardo comico ma che allo stesso tempo faccia presa sul mondo?
Intervista realizzata a Radio3, per Fahrenheit, il 14 giugno 2019, riascoltabile in podcast sul sito della trasmissione.