S imon Reynolds è il più importante critico musicale contemporaneo. Non è stato né il primo né l’unico a farlo, ma il suo modus operandi da storico applicato a tendenze del presente o del passato prossimo, l’importanza che dà al mettere le cose in un contesto storico e sociale, il cercare traiettorie comuni in grado di cogliere lo spirito che aleggia su un determinato periodo di tempo, sono diventati una cifra riconosciuta.
Oltre a essere stato tra i primi ad approfondire il sessismo del rock (in The Sex Revolts, scritto con Joy Press nel 1995) e a raccontare dall’interno la cultura rave (Energy Flash, 1998), Reynolds è anche un formidabile inventore di termini destinati a entrare nel vocabolario di chi si occupa di musica. È stato il primo a parlare di post rock, ha individuato il concetto di hardcore continuum all’interno dei mutamenti delle musiche elettroniche inglesi più selvagge, e in un articolo di fine 2019 ha battezzato conceptronica quel tipo di musica elettronica molto legata a esplicite teorizzazioni sociopolitiche che ha dominato la fase finale dell’ultimo decennio.
Se lavori come Postpunk o Energy Flash non fossero bastati, a conquistargli una volta per tutte la nomea di “scrittore di musica” per eccellenza è stato il suo libro del 2011 Retromania, nel quale raccontava la stagnazione, il revival e la fine delle spinte futuristiche che sembravano caratterizzare la cultura popolare di quegli anni.
Ora esce, sempre per minimum fax, una sua raccolta intitolata Futuromania: sogni elettronici da Moroder ai Migos. Tornando sul luogo del delitto, Reynolds raccoglie una serie di scritti dedicati a quei momenti, dagli anni Sessanta a oggi, in cui la musica ha invece rappresentato visioni nuove e incarnato rivoluzioni e spinte verso l’ignoto. Dentro ci sono, oltre a una prefazione e a una postfazione scritte ex novo, articoli apparsi su varie testate tra il 1987 e il 2019. Si va dalla “I Feel Love” di Donna Summer e Giorgio Moroder alla trap, passando per i Kraftwerk, la Warp, Burial, l’industrial, Brian Eno, il massimalismo digitale, la dancehall, Timbaland, la scena rave UK, i Daft Punk e molto altro.
Al centro, l’epopea dell’hardcore continuum delineata su The Wire nel corso di tutti gli anni Novanta (e oltre). In chiusura, la conceptronica. Con questa raccolta come sfondo e contesto, ho voluto interrogare Reynolds sul presente e sul futuro della musica e del mondo in cui viviamo.
Quando stavi promuovendo il tuo libro precedente, Polvere Di Stelle (minimum fax, 2017), che era incentrato sul glam rock, mi dicesti che ti sarebbe piaciuto molto fare un libro sul presente, ma che c’era un problema: chi compra libri di musica non è giovane e non è molto interessato al presente. Questo nuovo Futuromania lo possiamo considerare un libro sul futuro? O forse è più un libro su quello che consideravamo “futuro” in passato?
Futuromania non è, se non molto marginalmente, un libro su dove stia andando la musica, o su come è probabile che si sviluppi nel futuro. È una raccolta di articoli su musiche che davano l’impressione, a chi le faceva e ai fan, in un particolare momento nella storia, di essere futuristiche o di mostrare come sarebbe stata la musica nel ventunesimo secolo. Che si tratti di “I Feel Love” di Donna Summer e Giorgio Moroder nel 1977, o di pezzi techno e jungle negli anni Novanta, quei suoni sembravano in qualche modo lanciati nel presente dal futuro. È diventata un’idea consapevole con “Terminator” uscita a nome Metal Heads, un alias del pioniere della drum and bass Goldie. L’idea era che il pezzo fosse come il robot assassino del film, che arriva dal futuro terrorizzando l’umanità. Goldie proponeva anche una somiglianza tra i suoni striscianti e mutanti che creava attraverso i sample e il corpo in metallo liquido del robot in Terminator 2.
Ma la mia opinione è che le idee sul futuro ci dicano più del presente in cui vengono formulate che non quanto predicano quello che davvero succederà nel futuro, questo sia in senso politico che tecnologico o artistico. È un’idea fondamentale della fantascienza: riguarda più il presente che qualsiasi proiezione di futuro, anche se è ambientata nel futuro. Il futuro è un riflesso di ansie e desideri contemporanei, o una spinta all’estremo di trend contemporanei.
Come hai deciso quali articoli inserire nel libro e cosa lasciare fuori?
Un tema cruciale del libro è che cosa succede quando quello che prima era futuristico diventa un’altra cosa del passato: qual è la tua risposta?
Pensi che sia possibile definire quello che dà a un brano musicale un’aura futuristica?
Pensi che sia ancora possibile fare musica che suoni futuristica? E in caso contrario quando è successo? Quando è finito il futuro?
Il futuro della musica è solo una questione di nuove contaminazioni o è possibile che venga fuori qualcosa di davvero nuovo? Ma è mai esistito qualcosa di davvero nuovo, o le novità sono solo nuovi incontri tra elementi del passato?
Un’altra cosa che penso sia stata nuova e con un sapore di futuro negli anni Dieci è la diffusione dell’autotune e di altre forme di abuso deliberato dei correttori di intonazione o di tecnologie per il suono della voce. Quello ha dato una precisa patina sonora alla musica dell’ultimo decennio: è diffuso dalla top 40 pop a suoni black di strada come la trap, all’afrobeats*, agli artisti sperimentali della conceptronica. La voce è emersa come il campo d’azione di nuove ricerche artistiche. E ancora una volta non corrisponde alle nostre vecchie aspettative di come avrebbe suonato la musica del futuro. È un futuro diverso che non ci aspettavamo.
A questo proposito: che cosa ci stiamo perdendo? Pensi che sia ancora possibile essere sul pezzo? A me sembra che ci sia una quantità impressionante di roba pubblicata ogni giorno su Bandcamp o su Soundcloud che potremmo non sentire mai e che magari è quello che sta cambiando la musica in questo momento.
Tu come provi a rimanere aggiornato?
A volte è meglio aspettare di vedere che cosa arriva in cima, che cosa sceglie e premia il pubblico più ampio, che cosa coglie una corrente di desiderio popolare. Il gusto della gente agisce come filtro.
C’è in giro in questo momento musica che trovi realmente futuristica?
Quando è stata allora l’ultima volta che qualcosa ti ha fatto proprio dire: “sì, questo è davvero nuovo, mai sentito prima”?
Un sacco di roba interessante sta venendo fuori da paesi non occidentali, per esempio alcune delle mie cose preferite (e che ritengo più interessanti) in questo momento vengono dall’Indonesia o dall’Uganda, e vedo che la critica fa fatica a coprire tutto il mondo della musica. Le testate mainstream praticamente non ne parlano, mentre comunque di cose occidentali underground avevano sempre più o meno parlato. Ed è un problema. C’è una soluzione?
Se dovessimo assistere alla “fine del futuro” nella musica, sarebbe anche la fine della musica?
Per quanto mi riguarda sono una persona particolarmente interessata alle idee di futuro e di “suono nuovo”, ma c’è un sacco di gente al mondo che non pensa in questo modo e che usa la musica in modo diverso.
Qualche tempo fa ho letto un’intervista con una persona importante nel mondo letterario italiano che diceva che, se quando lei era una teenager ci fossero stati i bellissimi videogiochi di adesso, forse non si sarebbe interessata così tanto alla letteratura. È un rischio che riguarda anche la musica? I ragazzini saranno sempre interessati alla musica?
Sono sempre stato anch’io un po’ ossessionato dall’idea che la musica debba essere futuristica, nuova, stimolante, interessante (e ho sempre avuto un problema con la retromania). Però non so se saprei esprimere bene perché: secondo te perché è importante che la musica sia futuristica?
Da una parte, alla maggior parte della gente non interessa che la musica sia futuristica, apprezzano una bella canzone e fine. Quindi alle volte penso che queste preoccupazioni facciano di noi… degli snob? Dall’altra parte, se stessimo parlando di arte contemporanea, a nessuno importerebbe di pittori che dipingono oggi come nel Settecento. Possono anche vendere, la gente si può mettere i loro lavori in casa, ma non hanno alcun ruolo nel dibattito sull’arte contemporanea. Allo stesso tempo, le testate musicali parlano quotidianamente di artisti e band che suonano esattamente come trenta o quarant’anni fa. Quindi… non lo so: chi ha torto? Chi ha ragione?
Sono assolutamente d’accordo sui classici, ma mi riferivo a chi dipinge oggi come nel Settecento, o a chi fa musica oggi che suona come se fosse stata fatta negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta ecc. E al fatto che mentre nell’arte contemporanea a nessuno interessa gente che dipinge come nel Settecento, le testate musicali danno invece un sacco di attenzione a cose che suonano come… il passato.
Penso ci siano due fenomeni correlati ma diversi, uno è la rievocazione storica e l’altro è il retro. La rievocazione storica è come un gruppo che si dedica a suonare la musica antica, o i madrigali rinascimentali, suonando gli strumenti del tempo, la salvaguardia di un’arte antica. Un gruppo che suona bluegrass oggi con i banjo fa la stessa cosa. Ma il retro è riciclare lo stile di un passato ancora attuale, e anche se spesso c’è l’interesse ossessivo per riproporre in modo esatto tutti i dettagli, per esempio usando tecnologie molto più primitive di quelle correntemente disponibili, tende però a essere più giocoso, ironico e a volte creativo.
Entrambe le tendenze sono comuni nella musica, nella moda e nel design, ma neanche lontanamente altrettanto comuni in altre forme d’arte come la letteratura, il cinema, la tv. Sarebbe molto strano fare un film che si costringesse alla tecnologia disponibile cinquant’anni fa. Mank, il film recente sul tipo che ha scritto Quarto Potere, rievoca il periodo con il bianco e nero, ma in altri aspetti è un film allo stato dell’arte della tecnologia disponibile in questo momento. È un approccio molto più comune di quello di The Artist, che era un film muto, che copiava i movimenti di camera degli anni Venti, e riproduceva le pose, i gesti e le espressioni degli attori dell’epoca. Tipo i White Stripes del cinema. Allo stesso modo, nel romanzo contemporaneo, che io sappia non c’è nessuno che provi a scrivere come Dickens o Jane Austen, ma nemmeno come James Joyce. Quel tipo di cosa – fare un’imitazione di D.H. Lawrence o provare a scrivere un sonetto – è qualcosa che potrebbe succede solo in un contesto accademico, come esercizio per gli studenti per imparare le regole formali della poesia in un altro periodo storico. Scrittori e pittori possono avere influenze da epoche molto precedenti e a volte hanno un ruolo nella riscoperta di figure dimenticate, ma non esiste qualcosa tipo una retro-letteratura, o una retro-pittura, non credo.
Quanto c’è di intenzionale nella musica e quanto è “spirito selvaggio”? Leggevo recentemente il libro di un insegnante di scrittura creativa, che sostiene che se uno non ha letto Proust, Joyce e tutta una lunga lista di autori non dovrebbe nemmeno provarci. Ha senso. Ma in musica? La storia della musica popolare è stata fatta da ragazzini con piccole collezioni di dischi, e troverei ridicolo dire “vuoi fare musica? Ok, prima ti devi ascoltare questi cinquecento dischi”.
Penso che si possa parlare allo stesso tempo di retromania e di futuromania, anche negli stessi anni. Sono tendenze che possono coesistere. In particolare oggi che (tornando all’enorme quantità di musica prodotta quotidianamente di cui parlavamo prima) tutto accade nello stesso momento. Pensi che sia ancora possibile identificare delle tendenze che possano definire un periodo?
E a proposito di tendenze, si è parlato molto di quel tuo articolo, uscito su Pitchfork e incluso anche in Futuromania, in cui parli di conceptronica. La prima domanda: la mia impressione è che tu sia partito con una sorta di pregiudizio per una musica troppo cerebrale e non molto fisica, e che nel corso della ricerca hai scoperto alcuni elementi interessanti in quella che in fin dei conti non è esattamente “la tua cosa” (come suggeriscono l’importanza del piacere della fisicità più che l’intellettualizzazione dell’elettronica che stanno alla base di un libro come Energy Flash o del concetto di hardcore continuum). La mia interpretazione almeno era questa, poi ho letto alcune persone sostenere che con un articolo del genere tu stessi proponendo la conceptronica come “la cosa più importante dell’elettronica contemporanea”, con chiaro scontento da parte di chi non la apprezza. Quindi, prima di tutto, ti chiedo quale sia in effetti la tua opinione a riguardo.
L’altra cosa che avevo identificato è il modo in cui questa musica è fortemente connessa alla cultura accademica e delle scuole d’arte, e poi legata al circuito dei festival, che spesso, particolarmente in Europa, sono finanziati dallo stato o addirittura dall’Unione Europea. Quindi c’è anche un discorso intorno alla musica molto legato alle teorizzazioni e alla terminologia che si usa nelle application per i fondi. C’è una bella differenza rispetto alla cultura rave e anche rispetto alla musica IDM degli anni Novanta di nomi come Autechre o Aphex Twin. Ma all’epoca quel tipo di cultura poteva sopravvivere con le vendite dei dischi.
La mia opinione sulla conceptronica non è particolarmente a favore o contro, si trattava più di accorgersi di un fenomeno e chiedersi che cosa significasse. Il mio gusto personale per la musica elettronica è più vicino a cose più aperte e astratte che non a cose così ben definite e delineate verbalmente. La prima ondata IDM, l’ambient, o sottoculture come la jungle o l’UK garage: musiche principalmente fisiche, concepite per il ballo. Oltre a quella funzionalità corporale di base hanno anche dei valori e delle vibe ulteriori, un’atmosfera di militanza nel caso della jungle, o di comunità e celebrazione edonistica nel caso di house e garage, ma sono valori che tendono a essere articolati con espressioni piuttosto semplici del tipo “Babylon will fall!” o “house is a feeling”. C’è un aspetto testuale in quelle scene e in quei generi, ma è una specie di testo vivente, iscritto nei corpi, nelle mosse di danza e nei rituali delle subculture. Quella è effettivamente la mia parte preferita della musica elettronica, quello che mi piace sperimentare come partecipante e anche osservare come una specie di antropologo. Ma mi piace ascoltare molta musica elettronica concettuale, tutti gli artisti menzionati in quell’articolo mi sembravano tra i suoi esponenti attuali più interessanti e completi, e sicuramente si tratta di persone con cui è stimolante parlare.
Se qualcuno ha pensato che stessi dicendo che si trattava di qualcosa di nuovo o della cosa migliore che sta succedendo nella musica di oggi ha completamente frainteso l’articolo. È soltanto un fenomeno molto interessante sul quale ho sicuramente alcuni dubbi, ma che trovo anche coraggioso e meritevole per altri versi.
Un’altra critica che ho letto è quella che riguarda il bisogno di creare etichette. Sappiamo che di solito gli artisti non amano quando viene dato un nome alla loro musica, quando viene definito un genere ma… trovare degli elementi comuni, delle traiettorie nelle cose che succedono in un dato periodo di tempo non è poi quello che è sempre stato il ruolo della critica?
Anche celebrare l’unicità di un artista specifico è una cosa che vale la pena fare. Ma nel complesso, penso che gli artisti (naturalmente!) sopravvalutino la propria individualità. Operano sempre in un contesto storico, sono trascinati da correnti più ampie.
La maggior parte dei musicisti fanno musica senza sovrastrutture e teorizzazioni concettuali, semplicemente facendo quello che gli piace (probabilmente non è il caso della conceptronica, che ha una specifica agenda concettuale), ma non è proprio il ruolo della critica quello di decifrare che cosa c’è dietro a quegli impulsi?
Sappiamo che la musica ha sempre avuto un qualche tipo di potere di anticipare e prevedere che cosa accadrà nella nostra società. Ma cosa accadrà alla società se la musica non riesce più a darci un’idea di futuro?
Penso avesse ragione, ma penso anche che ci sia stato un divorzio tra il progresso tecnologico e quello socio-culturale in termini di valori e attitudine. Negli anni Sessanta e Sessanta credo che si pensasse che questi tipi di sviluppo fossero interconnessi, ma gradualmente la cosa si è inceppata. Per esempio a Hollywood i film più avanzati tecnologicamente sono quelli con un sacco di CGI, innovazioni pazzesche nel suono e nel montaggio, nei colori, gli effetti speciali ecc. Eppure il contenuto vero e proprio di questi film in termini di trama, personaggi e ideologia tende a essere nel migliore dei casi retrogrado, super violento, propagandistico di mitologie di vendetta e mascolinità supereroistica, e alle volte direttamente fascista. Allo stesso modo, la musica che sta facendo le cose più interessanti con la tecnologia digitale, le modifiche della voce, è musica di strada come la trap o l’afrobeats, e spesso i valori espressi in queste musiche sono machisti, sessisti, consumistici e ossessionati dallo status. L’esempio più clamoroso è “Up Like Trump” di Rae Sremmurd, che è uscita più o meno un anno prima che Trump si candidasse alla presidenza. Ci sono aspetti di questi generi che si possono celebrare in quanto portatori di visibilità per delle minoranze, ma in generale se ne possono descrivere i valori come quantomeno decadenti, se non nichilisti. Quindi penso che ci sia stata una rottura tra l’avanguardia tecnologica e idee di progresso legate a un mondo più giusto, migliore e meno consumista. È possibile che avremo musica che suona futuristica ma in termini di visione del mondo è assolutamente retrograda e distopica. Questo che cosa significa? Staremo a vedere.
*Da non confondersi con l’afrobeat di Fela Kuti, afrobeats è un termine (che tornerà più volte in questa conversazione) con cui si intende un genere sviluppatosi nei primi anni Dieci nell’Africa occidentale, che fonde elementi di rap, r&b e dancehall. Diffuso soprattutto in Nigeria e Ghana dove è a tutti gli effetti il suono del pop radiofonico, è diventato popolare anche in UK, NdA.