“P enso alla voce, così come un artigiano è sempre attento alla materia con la quale lavora. Per lui la fibra, la consistenza, lo spessore diventano un modo per vedere le immagini ancor prima che le realizzi. Io lavoro con la voce, la cerco ovunque e, su fogli sparsi, raccolgo osservazioni, domande, piccoli racconti e disegni in modo istantaneo”. Questo scrive Chiara Guidi, cofondatrice della compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio, sulla soglia di La voce in una foresta di immagini invisibili, suo ultimo libro edito da Nottetempo. Guidi infatti da anni dedica alla voce una ricerca radicale, antecedente rispetto a qualsiasi altro aspetto estetico. In questo piccolo ma denso libro racconta la sua indagine, mettendo in luce i caratteri atemporali e archetipici di questo strumento: una riflessione che nasce dal momento in cui si oltrepassa il muro del significato delle parole e si è consapevoli che esse esistono perché pronunciate.
Nell’ottica di Guidi la voce acquisisce lo statuto di uno strumento musicale che, come ogni strumento, necessita allora di una partitura. Una delle grandi ricchezze di questo libro, oltre a farci entrare nel laboratorio dell’attrice, sono gli schemi e i diagrammi riportati, le partiture della voce, che testimoniano il lavoro di Guidi nel corso degli anni su questo strumento, una ricerca certosina non solo sulle singole parole, ma altresì su ognuno dei suoni che le compongono. Quello che sembra di comprendere da questo libro è che per ritrovare il senso della voce sia necessario scarnificare e scomporre in pezzi le parole e solo in un momento successivo, conquistata la loro essenza, ricomporle e avviarsi verso la loro padronanza.
La voce in una foresta di immagini invisibili nasce infatti dalla “necessità di fissare le voci con i segni e parallelamente appuntare in modo sparso su fogli e supporti quelle piccole scintille di comprensione che mi permettevano di sentire che la ricerca sulla voce aveva un orientamento”. Riprendendo in mano questi appunti alla luce di un ricorso minore della scrittura e dei grafici nelle ultime opere, Guidi si è accorta che questi testi erano uniti da una linea molto forte e provocatoria: “il testo non domina la voce”, il teatro di parola non è succube della parola. Si tratta qui di un nodo assai complesso perché è indubbio che lo scritto sia il presupposto per risalire a ritroso con la voce fino a raggiungere il punto di partenza dello scrittore; ma che cosa intende trasmettere l’attore, con la sua voce? Per provare a spiegarlo, Guidi utilizza l’esempio di una rappresentazione shakespeariana:
Per recitare Shakespeare lo declamo sul palco: declamare un testo significa che mi rendo disponibile, come attore, per comunicare al pubblico il significato delle parole di Shakespeare? Oppure c’è un’altra possibilità, quella della scelta: perché scelgo quel testo e non un altro? Prendendo quel testo però ci si accorge, come attori, che le parole sono troppo pesanti e non stanno dentro la bocca: c’è una sproporzione tra il libro e le parole dell’attore sul palco. Cosa chiedono allora quelle parole se sulla bocca sono pesanti una volta che le ho scelte? Tutto mi ha condotto a dare forza alla presenza della voce più che a quella delle parole: quelle ci sono, scelte dell’autore, posso accorciarle, tagliarle, ma restano parole scelte che nascondono una trama, che è ciò che c’è di più consolante perché crea un’unità. Allora, mi domando, salgo sul palco per riportare il significato delle parole e consolarmi con la trama? Se invece do spazio alla voce per rispondere a queste domande si apre un altro itinerario: posso dare una risposta dal punto di vista della voce e quindi della musica e mettere in voce un testo significa allora suonarlo. Questa cosa è per me molto interessante: se la voce è uno strumento musicale e suona, quando ha a che fare con un oggetto che è il libro e lo deve suonare, cosa c’è tra il suono della voce e quel libro? Cosa ci è chiesto? Una composizione. Un cammino della voce sulle parole del testo.
La questione posta da Chiara Guidi diviene in questo senso capitale e ineludibile, perché se certamente non si può prescindere dal significato delle parole, nello stesso tempo non si può neanche semplicemente ostentarlo senza interrogarcisi. Non si può pensare che “quel significato sia unico e irreversibile perché altrimenti, come diceva Giacometti quando parlava della sua ricerca della testa esatta, se trovo la testa esatta la realtà è morta e quindi è morta anche la realtà del testo”. È necessaria allora una scelta di debolezza: “la voce rappresenta per me una scelta di debolezza perché quella voce, tutte le volte che si mette in relazione con un testo, lo squaderna e lo mette in un punto di invisibilità e illeggibilità, o meglio, la voce mette il testo nel punto di leggibilità che ogni testo che si può leggere ha per il fatto che si possa leggere. Cioè se non si pensa che un testo sia continuamente illeggibile non lo si può più leggere”, così come se si pensa di aver trovato una forma esatta, sulla scia di Giacometti, quella forma non esiste più.
Riempire gli spettatori di spiegazioni, di una trama e di schede di presentazione del lavoro toglie al suono della voce il suo senso e non permette di mettersi in balia di questo oceano di suoni, che è poi la grande scoperta e il grande incarico che abbiamo ricevuto a partire da Debussy e fino a Cage: “Noi viviamo impregnati di questa scoperta, la scoperta che tutto suona, per cui David Toop può dire che viviamo in ‘un oceano di suoni’ e questo oceano di suoni è prima di tutto la nostra voce. Come può allora il teatro credere ancora che sul palco si dia il significato a una trama o che si riconosca nell’attrice che interpreta un personaggio quel personaggio? Solo attraverso la voce vado a minare questa visione di teatro che non regge più rispetto a quello che invece mi può dire una voce che si pone in un punto di udibilità. L’udibilità diventa l’enigma della visione: è questa la voce”.
La nostra epoca è quasi esclusivamente visiva e si sta dunque sempre più allontanando dall’origine, lasciando sempre meno spazio alla voce. Eppure “tutto è nato dalla voce”, come per esempio i grandi racconti cosmologici dell’antichità, primigenio tentativo di narrazione. Cercare di tornare a restituire alla voce il suo ruolo antico è ciò che deve caricare di responsabilità anche il teatro: questo non vuol dire assumere un’ottica esclusivamente e ciecamente rivolta al passato perché se è vero che c’è prevalenza del visuale sull’acustico, è anche vero che oggi “non si sa leggere l’acustico presente nel visuale, il silenzio che racchiude la voce o il grido, i rumori del visuale”, non si riconosce la “tattilità dell’ascolto: è questa la responsabilità di chi guarda, di fermarsi per vedere la voce, un silenzio del senso che va forzato, tagliato e compreso”. Perché però la parola ritorni alla sua radice, essa deve chiedere aiuto alla voce, perché le parole e le loro radici portano il gesto della voce in un determinato momento emotivo (e basti pensare a quando riconosciamo che qualcuno è malato semplicemente dalla sua voce, senza vederlo). “Le parole hanno una radice, di tre, quattro lettere, in cui precipita tutto il significato esperienziale di quella parola. Quindi, per tornare al ruolo dell’attore e alla sua funzione, non si mette in scena il significato di Shakespeare ma l’origine del significato esperienziale delle sue parole, il perché Shakespeare ha fatto la scelta di quelle parole”.
La voce ha poi la possibilità di smascherare: “Nei laboratori che tengo mi è capitato spesso che le persone, durante il lavoro sulla voce, si mettessero a piangere. È questa una delle capacità terapeutiche del suono, perché se si è abituati ad ascoltare il tono della voce, si riesce a snudare le persone, a vederle, a farsi un’immagine di quel suono traducendolo in un’immagine”. È quello che faceva Schoenberg quando si recava da Mahler e gli diceva, mentre ascoltava le sue composizioni, quali visioni nascevano da quei suoni. Schoenberg era ovviamente consapevole della totale arbitrarietà della sua azione, eppure lui vedeva: “si può vedere tutto a partire da un suono”. È ciò che Guidi scrive nel suo libro, insistendo sul fatto che è possibile riuscire a vedere i suoni, avvertire, sul palcoscenico, che i suoni e i silenzi si muovono:
nei miei spettacoli azzardo il silenzio, ma per azzardarlo devo riuscire a tenerlo, per tenerlo devo suonarlo e per suonarlo devo avere una partitura. Ma qual è il disegno del silenzio? Io penso ai neumi, nati nell’antichità per rappresentare quel suono che si muoveva nell’aria, la sostanza che esso acquisiva; ho la sensazione di avere una massa da tenere davanti al pubblico. È una percezione intima, una intuizione, un modo per dare concretezza a qualcosa di aleatorio. Il significato di una parola lo posso stampare, da Gutenberg in poi, in tantissimi modi diversi, ma la voce è aleatoria. Anche se è vero che la si può registrare, essa deve però essere sempre armonia, come quel punto di congiunzione tra il carro e i buoi, armonia tra due parti contrastanti. È un lavoro faticoso ma la voce è di una ricchezza unica rispetto al significato, ha una bellezza etica.
Nelle prime pagine del libro Chiara Guidi ricorda i momenti della morte del padre: “quando avevo undici anni mio padre morì, nel cuore della notte. Mi svegliò il verso disperato dei suoi ultimi respiri. La voce era come soffocata dalla ricarica di ossigeno che il suo cuore cercava. Lì per lì pensai a un animale, non al babbo, poi mi alzai ed entrai nella camera da letto dei miei genitori. Lì, sulla porta, quella voce sparì dentro i colpi ritmici del pugno della mamma che, contro la parete, chiedeva aiuto. Io ascoltavo. Non capivo cosa stesse accadendo, ma vidi quel suono che cercava il suo posto, dentro di me, come se l’azione del babbo e il gesto della mamma fossero, prima di tutto, una musica da conoscere”. In questo momento Guidi sembra prendere consapevolezza del fatto che i suoni hanno un valore: “ho sentito che quel suono era una presenza: quando avvertivo nella voce delle presenze attorno a me dei timbri che me le ricordavano, questi producevano in me dolore. Le sapevo, le conoscevo e non volevo sentirle. Ero piccola ma avevo una paura vivida di quel suono, quel suono lo ricordo perché mi fa paura”.
Chiara Guidi sta lavorando sul mito di Edipo e cita un passaggio della tragedia su cui sta costruendo il suo ragionamento, particolarmente significativo anche per la comprensione generale del suo rapporto con le parole, i significati e i suoni. Le parole di Edipo sono: “voglio indagare su ogni parola”. “Io faccio questo lavoro sulle sue parole – racconta Guidi –, costruisco un madrigale dove in alcune parti le parole di Edipo sono solo consonanti, in altre solo vocali ed in altre ancora l’articolazione muta della bocca, il silenzio dunque. Entro nel testo, lo spezzo per vedere cosa nasconde dentro: questo lo può fare solo la voce, solo la voce può dare una risposta ad Edipo. L’enigma non dice e nasconde ma segna e il segno è l’alfabeto non la parola, la parola è logica. Per scoprire cosa nasconde una parola si deve tornare al segno”.