U n fatterello di cronaca pop: la piattaforma streaming Netflix decide, dopo un’ondata polemica a filo di Twitter, di eliminare la categoria “LGBTQ” dalla classificazione della sua miniserie Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer.
Le critiche che sono montate alla categorizzazione proposta da Netflix riguardano la rappresentazione che Dahmer farebbe della comunità LGBTQ+. Jeffrey Dahmer, un maschio cis-genere, bianco, omosessuale è innanzitutto un serial killer, più che un membro della community – un serial killer, inoltre, le cui vittime furono perlopiù giovani individui queer BIPOC (Black, Indigenous, and People Of Color). Al danno di rappresentare un maschio omosessuale come sadico torturatore si aggiunge insomma la beffa sfacciata di identificare come contenuto “LGBTQ” una miniserie che racconta di omicidi che hanno inflitto una ferita importante proprio a quella stessa comunità. Si tratterebbe, cioè, di una rappresentazione infelice. Ma cosa vuol dire rappresentazione infelice? Detto altrimenti e più in generale: che significato ha la rappresentazione in senso mediatico, sociale e politico?
Per capire dove si colloca il problema bisogna per prima cosa mettere fuori circuito il principio del realismo. Che l’individuo Jeffrey Dahmer fosse effettivamente omosessuale non dirime il problema della rappresentazione. Non lo dirime perché il semplice fatto che un evento si sia verificato non giustifica, da solo, la scelta di fare una miniserie, diretta a un pubblico ampio, per narrarlo; né decide in ultima analisi come farla, soprattutto quando vengono inseriti nella narrazione elementi d’invenzione. Jeffrey Dahmer fu omosessuale e fu serial killer, questo è certo, ma che bisogno abbiamo di produrre audiovisivo sulle sue nefandezze? E che valore avrebbe questo poi per la rappresentazione di individui queer? A queste domande si risponde considerando non il Jeffrey Dahmer reale – non è a questo piano della rappresentazione che mi riferisco – ma il Jeffrey Dahmer fittizio, quello scritto da Ryan Murphy (e Ian Brennan), nel contesto narrativo che lo mette in scena.
Una seconda prospettiva va inoltre esclusa dalla discussione, una prospettiva direi esclusivamente descrittiva. Non si può pensare cioè che la categoria “LGBTQ”, per chi ne critica l’adozione, si riferisca agli elementi che appaiono nella serie, cioè nella finzione audiovisiva. Questi elementi sono senza ombra di dubbio a tematica LGBTQ+: al di là dell’omosessualità di Dahmer, Dahmer tratteggia un panorama di interni fatto di bar, club e bathhouses, e in parte degli individui che vi appaiono. La serie rappresenta cioè spazi in cui individui queer possono ritrovarsi e allacciare legami erotici, sessuali, sentimentali, insieme marginalizzati e al sicuro dalla violenza eteronormativa. Se usiamo quindi il concetto di rappresentazione in senso puramente descrittivo, per indicare gli elementi e i contenuti del prodotto audiovisivo, non è ragionevole affermare che Dahmer non rientri nella categoria “LGBTQ”. Se la critica si riferisce a questo è mal posta e, soprattutto, non interessante.
Solo dopo aver messo a bada realismo e descrizione è possibile gettare uno sguardo sulla polemica che sia un po’ più fertile. In realtà, c’è un terzo polo di critiche, che riguarda la produzione della serie, in quanto Netflix non avrebbe coinvolto i familiari delle vittime in alcun modo. Questa critica è semplicemente giustificata; e non riguardando la questione della rappresentazione LGBTQ+ in senso stretto non la discuterò. Il problema della rappresentazione si lascia dunque mettere in una luce interessante nel momento in cui lo si affronta nel senso del valore e del significato che la narrazione audiovisiva di Dahmer – in quanto pop, in quanto mainstream, in quanto spinta dal creatore di Glee e Nip/Tucke Pose – hanno per la comunità LGBTQ+ (e non solo) sui piani sociale e politico. È a questo punto che la questione diventa interessante e, in parte, spinosa.
Il problema della rappresentazione diventa interessante quando interroga il valore e il significato della serie per la comunità LGBTQ+ sui piani sociale e politico.
Prendo il dilemma da lontano. C’è un aspetto, dico così per brevità, psicologico nella questione della rappresentazione, che ha però una faccia sociale e politica. Nella rappresentazione pubblica, mediatica, estetica, l’assenza e la censura del desiderio non canonico rispetto alla norma eterosessuale non sono questioni da poco: per gli esclusi, non esistere in una batteria, riconosciuta da una comunità, di linguaggi e immagini significa, in un certo senso, quasi non esistere affatto. Gli esseri umani esistono nella misura in cui vengono introdotti a culture, linguaggi, pratiche sociali, immaginari; e una cultura, un linguaggio, un sistema di pratiche sociali, un immaginario che non conoscono spazi per qualcosa condannano, più o meno violentemente, quel qualcosa a una sussistenza di secondo grado. C’è chi vi sopravvive meglio, chi vi sopravvive peggio, ma il segno dell’esclusione rimane e ignorarlo è nel migliore dei casi sciocco, nel peggiore complice della marginalizzazione.
Aneddotica personale: avere letto da preadolescente Tonio Kröger è stata una esperienza – per il desiderio omosessuale che posso dire mio, ma che era ancora in una fase di formazione, scarsamente conscia a se stessa – che si è inscritta con chiarezza nel mio modo di rapportarmi ai corpi mio e degli altri. Ci sono molti modi di sessualizzarsi – certo non solo quello della lagna borghese e sublimata e letteraria – e a oggi posso dire di preferire questo modo al destino macabro, riservato a giovani individui eterosessuali, di venire introdotti all’eros con prodotti mainstream più facilmente accessibili e diffusi, vedi Muccino o De Filippi (spalancando anche una decisiva questione di classe). Ma si tratta comunque di modi che vanno cercati o che capitano per fortuna quasi miracolosa e, comunque, Thomas Mann non ci consegna una fra le più felici delle arti amatorie. Insomma, poteva andare peggio, ma poteva andare anche meglio. Questo per dire che, per un verso, ben venga la rappresentazione. Non solo integra – poca cosa è l’integrazione – ma introduce individui alle comunità umane in modo da renderli partecipi, in qualche modo, alla loro potenziale trasformazione. Se esisto, posso fare qualcosa in questa cosa in cui esisto: non è un fatto secondario, da sottovalutare. Se il desiderio non eteronormato può incidere, in qualche modo, in un mondo storico di esseri sessualizzati, deve in qualche modo introdursi, più o meno forzatamente, in quel mondo.
Allo stesso tempo, la rappresentazione non dà però la formula o la soluzione per risolvere la discriminazione e l’esclusione su base eteronormativa. Apparire nella rappresentazione è un concetto astratto, che non ci dice ancora nulla sul come si appare e su come ha senso e valore apparire (ed è proprio questo il punto della polemica su Dahmer). Su questo ha scritto bene Alessandro Uccelli, a partire dai due saggi di D.A. Miller che compongono il volume Bellissimo, in cui si discute proprio del significato della rappresentazione del desiderio omosessuale maschile nel cinema. La rappresentazione di questo desiderio in quelli che Miller identifica come “Mainstream Gay-Themed Movies” (esempi principali sono Brokeback Mountain e Call Me by Your Name) è non solo una rappresentazione addomesticata, che neutralizzerebbe cioè il potenziale emancipatorio del desiderio omosessuale in una società ancora eteronormata. Ma essa è anche e soprattutto funzionale a un sistema produttivo, in senso sia economico sia sociale: funzionalizza eros alla stabilizzazione della coppia, rigorosamente malthusiana, e alla famiglia come nucleo di produzione, riproduzione e cristallizzazione di lavoro e di ricchezza. E il punto non è naturalmente, in generale la “reticenza sull’amplesso” e sulla sua visibilità, che non dissolverebbe il dubbio sulla solita fissazione genitale del binomio sessualità/riproduzione tipico della norma eterosessuale. Il problema è piuttosto la sterilizzazione sociale e politica di un modo di desiderare, che finisce per non fare niente se non adattarsi a quello che già c’è, senza andare oltre e non trasformare nulla. Il risultato è, insomma, di apparire nella rappresentazione come un maschio “eterosessuale che se ne va in giro a scopare con i ragazzi” – come recita brillantemente una battuta di Roy Cohn in Angels in America.
Presa dunque da lontano, la questione della rappresentazione si rivela una lama a doppio taglio, carica di ambiguità, niente affatto assoluta ma inserita ogni volta in un contesto storico, geografico, economico. Fuori da questi termini non ha senso neanche porre il problema.
La rappresentazione non dà la formula per risolvere la discriminazione e l’esclusione. Apparire nella rappresentazione è un concetto astratto, che non ci dice ancora nulla sul come si appare e su come ha senso e valore apparire.
Provo allora a entrare nel merito di Dahmer e del suo contesto. Sarebbe naturalmente artificioso distillare, dalla polemica su Twitter, delle rivendicazioni univoche ed esplicite. Vorrei però costruire la volontà di eliminare la categorizzazione “LGBTQ” dal prodotto Netflix come una scelta di decontaminazione. Voglio dire secondo l’idea che il senso e il valore sociali e politici della rappresentazione di individui appartenenti alla comunità LGBTQ+ sussistono se e solo se la rappresentazione esclude da sé elementi distruttivi, antisociali, violenti, psicopatologici. Cioè, in breve, se essa esclude tutte quelle contaminazioni che rappresentano l’individuo queer non come degno di integrazione in un mondo sociale, ma come indegno di essa. Un omosessuale necrofilo, stupratore e cannibale è meglio non invitarlo a cena, figuriamoci in consiglio comunale. Inoltre, è problematico rappresentare l’omosessualità perlopiù come, appunto, stupro, necrofilia, cannibalismo. Ora, su questo punto la scrittura di Dahmer mi pare adeguata. Nella serie non si scopa, non perché non c’è rapporto sessuale, ma perché, appunto, stupro, necrofilia e cannibalismo non sono, direi nella stragrande maggioranza dei casi, rapporti sessuali. Si tratta di azioni che possono essere investite eroticamente da un individuo, mi pare difficile negarlo, ma presuppongono (di necessità) una prevaricazione violenta e mortifera dell’oggetto di stupro, necrofilia e cannibalismo. Non si tratta di un rapporto costruito e realizzato in pratiche sessuali, ma di un esercizio di violenza e prevaricazione e omicidio – indipendentemente o a priori rispetto a ogni consenso. Allo stesso tempo, l’investimento libidinale di Dahmer è rappresentato. Era una linea non semplice da tenere, forse non è stata sempre tenuta con il migliore dei gusti, ma l’idea mi pare presente e a diritto.
E tuttavia, Dahmer – ripeto, il Dahmer fittizio – non agisce solo da stupratore, cannibale, necrofilo e omicida, ma agisce anche da omosessuale. La scelta dell’oggetto è omosessuale – che la serie sembra situare in parte in un teatrino familiare ed edipico, ma non solo (che d’altra parte non è il discorso fondamentale di Dahmer e lascerebbe comunque il tempo che trova, come tutte le genealogie). Ora, le rivendicazioni di decontaminare un omosessuale dalle sue azioni di stupro, cannibalismo e necrofilia – taglio qui dritto al punto – mi sembrano profondamente malriposte. E mi sembrano malriposte perché riposano sull’idea che l’unico frocio degno di rappresentazione, di integrazione, di partecipazione alla comunità umana è un frocio virtuoso ed edificante (quando spesso la virtù è solo il segnaposto della produzione e dell’adattamento) cioè, insomma, che l’unico frocio buono è il buon frocio.
Si può pensare, in analogia, al dibattito seguìto all’espressione di Giorgia Meloni come prima presidentessa donna del Consiglio dei ministri (già Hillary Clinton avrebbe salutato l’evento come importante e positiva rottura con il passato). La perplessità emerge proprio rispetto alla questione della rappresentazione, in senso però politico e istituzionale. Ci si può chiedere insomma se un leader politico donna, al netto delle divergenze politiche, rappresenti in ogni caso uno schiaffo importante e un progresso rispetto alle indiscutibili strutture patriarcali che ancora governano la classe dirigente italiana (su questo problema si vedano i due articoli rispettivamente di Valeria Finocchiaro e soprattutto di Francesca Ioannilli, Veronica Marchio e Gigi Roggero). Soprattutto, ci si può chiedere che significato l’elezione rappresenti per le donne come gruppo sociale o anche politico. In questo caso, si vede qualcosa come il retro della medaglia della polemica sulla serie Netflix, che riposa però su un assunto molto simile: la bontà e levatura, supposte o reclamate, di chiunque rappresenti un gruppo più o meno marginalizzato. Cosa significa pretendere da una donna che rappresenti un progresso per ogni donna? La pretesa è, al minimo, curiosa.
Dahmer – il Dahmer fittizio – non agisce solo da stupratore, cannibale, necrofilo e omicida, ma agisce anche da omosessuale.
La scrittura di Dahmer è molto più intelligente e avveduta dell’idea balzana per cui un omosessuale debba essere educativo. Penso alla scena in cui Dahmer padre confessa di essersi accorto della disposizione al minimo sadica del figlio, ma di non averne mai discusso perché ne era impaurito o disgustato; o al momento in cui uno psichiatra comunica a Dahmer che, in realtà, i suoi investimenti libidinali non costituiscono un hapax nella comunità umana, ma si sono già presentati e sono conosciuti e riconosciuti. Cioè: sono difficili, tremendi, ma ci sono, e censurarli o rimuoverli genera esattamente il massacro, come d’altra parte Dahmer mostra al pubblico. La collaborazione di razzismo, omofobia, bigottismo, prurito, inettitudine genitoriale – e non il male o l’abisso di un individuo, concetti d’altra parte vuoti – concorrono al disastro, al massacro. Con questo voglio dire: non solo una condotta omosessuale non è degna di integrazione e rappresentazione solo perché o se è edificante e virtuosa, ma soprattutto non ha alcun senso parlare di virtù fuori dal mondo in cui una virtù è una virtù, e un vizio un vizio. O una società si confronta e riconosce i suoi momenti e movimenti meno integrati o censurati o esclusi, o si dirige allo sfascio – sfascio che, puntuale come un treno nel ventennio, arriva.
Ora, al contrario, se c’è una cosa che le narrazioni queer, in prosa o audiovisivo, hanno spesso capito e con molta chiarezza è proprio che le posizioni del vizio, della non integrazione, della marginalizzazione, dell’esclusione, anche dell’abiezione e della cattiveria, rivelano qualcosa di importante. Penso al film L’Inconnu du lac di Alain Guiraudie, dove è proprio il safe space del cruising idillico e bucolico, naturale, a sacrificare al godimento la sopravvivenza. Penso all’opera letteraria di Jean Genet. Penso alla Ricerca di Marcel Proust, dove l’omosessualità è inquadrata fin dall’inizio sotto il segno della violenza esercitata nei confronti della foto di un padre che viene umiliata, offesa, dileggiata, crudelmente. Non si tratta di operazioni in cui il male o la crudeltà o chissà che altro vengono romanticizzate o elette a idolo – e anche pensare che ne vada di qualcosa come del “male” è impreciso. Si tratta piuttosto di mostrare che qualcosa di distruttivo e antisociale non è meno esistente o meno insistente o meno parte di un mondo sociale rispetto a tutto il resto. La devianza è parte non esterna, ma interna a un mondo, anche alle sue tendenze virtuose.
Tante delle produzioni siglate Ryan Murphy si muovono proprio su questa cresta e in questa tradizione. Eccezione – se non in senso categorico, ma almeno di grado – è stata la miniserie Hollywood, sempre in casa Netflix. Hollywood, ricevuta con molti meno sussulti morali, asseconda al contrario e purtroppo proprio l’idea di una chiara divisione della virtù, di separazione di vizio e virtù. La serie suggerisce che basta che le chiavi del potere e della produzione caschino in mano a un rappresentante qualsiasi di una minoranza e il mondo diventa buono, in forza di uno scambio di ruoli e per non si sa che pensiero magico. Non c’è davvero niente da aggiungere a quello che Elisa Cuter ha già benissimo scritto in Ripartire dal desiderio, cioè che Hollywood ha il sapore di una marchetta moraleggiante all’industria cinematografica, per come essa è, e che lo fa tracciando una chiara divisione fra condannati e salvati, fra virtuosi e malvagi. La prospettiva è desolante, perché “c’è qualcosa di davvero osceno in un mondo senza neanche un’ombra,” scrive Cuter.
Proprio in questo stesso senso è paradossale la richiesta di eliminare la categorizzazione “LGBTQ” da Dahmer, di decontaminare una posizione marginalizzata. La serie è in un certo senso interessante proprio perché fa l’operazione opposta. Al netto di un certo maledettismo voyeuristico e romantico, dell’indugiare a tratti exploitative sulla tortura, Dahmer mostra proprio, per così dire, la possibilità dell’ombra. E proprio questa possibilità, di un omosessuale non edificante – di qualsiasi individuo appartenente a una minoranza che non sia edificante –, non va decontaminata, o rivendicata in un gesto simmetrico e simmetricamente sciocco. Essa rivela piuttosto che essere un maschio omosessuale, o essere una donna, o essere qualsiasi altra cosa, non è mai stato e non può essere un passe-partout alla virtù, alla cittadinanza in una comunità umana, o all’esercizio razionale del governo. Rivendicare una decontaminazione della rappresentazione queer significa, per un verso, fare alla morale una domanda cui può rispondere solo la politica – richiedere cioè una norma di buona condotta anziché la trasformazione di un mondo – e, per l’altro, prendere il moralismo per morale. Al contrario, solo quando la rappresentazione si fa carico di un margine di ambiguità, anche drammatico, può riscattare il proprio senso e valore per una minoranza: cioè che non è un patentino di virtù ad assicurare la partecipazione a un mondo pubblico e condiviso, ma che questa deve essere assicurata a chiunque, indipendentemente da ricchezza, assegnazione di genere, orientamento sessuale, eccetera. O, detto altrimenti, che la vita buona è da esigere come un punto di arrivo e non va, al contrario, fissata come condizione o come un punto di partenza.
Rivendicare una decontaminazione della rappresentazione queer significa fare alla morale una domanda cui può rispondere solo la politica – richiedere cioè una norma di buona condotta anziché la trasformazione di un mondo.
Ci sarebbero altri punti interessanti che si potrebbero sviluppare a partire da Dahmer: le questioni dell’isolamento sociale, della intersezione di categorie marginalizzate, del conflitto fra categorie marginalizzate, della disumanizzazione del lutto e della giustizia processuale riadattata alle logiche del profitto e della spettacolarizzazione. Ma lascio questi punti da parte, perché mi sembra di poter concludere il problema che ho aperto, nel limite di una discussione breve, rispetto alla questione della rappresentazione. Riassumendo, mi sembra un equivoco controproducente pretendere che la rappresentazione di una minoranza abbia senso e valore sociali e politici se e solo se è depurata da ogni elemento che possa ritenersi indegno all’integrazione nella comunità umana. È controproducente perché apre minoranze nelle minoranze, presupponendo l’idea che solo una minoranza virtuosa è una minoranza degna di fare parte della cosa pubblica. Questa operazione è pericolosa, e proprio per ogni minoranza, perché inverte il rapporto fra diritto e virtù. La virtù non è condizione al diritto. Al contrario, il diritto è posto come condizione affinché chiunque possa accedere a una vita buona e virtuosa per sé in un mondo pubblico e condiviso.
Dahmer mette in scena in un certo senso non il paradosso, ma la difficoltà di questa ultima idea: cioè che essa genera contraddizioni, conflitti, problemi, anche disgrazie. Ma è importante, credo, comprarsi il problema, piuttosto che una soluzione controproducente, che è quella della decontaminazione. Questo essenzialmente perché è falso che la libertà degli altri finisce dove incomincia la mia; mentre è vero al contrario, come scrive Cornelius Castoriadis, che la mia libertà incomincia là dove incomincia anche la libertà degli altri, per quanto abietti possano essere e per quanto possa essere difficile poi, concretamente, avere a che fare e fare i conti con questa abiezione.
Allo stesso tempo, c’è però della verità nella levata di scudi contro la categorizzazione di Dahmer come contenuto LGBTQ+ o nella perplessità, a tratti scandalizzata, di certo discorso femminista sulle esternazioni rispetto al passo positivo che rappresenterebbe una donna, proveniente da una determinata tradizione e volontà politiche, diventando primo ministro. A me sembra che di questa verità parli bene Sigmund Freud, quando scrive, rifacendosi a Friedrich Schelling, che si è più perturbati proprio da ciò che è più familiare e da ciò che, in ciò che è più familiare, sarebbe dovuto rimanere nascosto e invece si è manifestato. Questo ingorgo si gioca tutto nella rappresentazione, audiovisiva e politica, al netto della differenza di grado nella realtà del fenomeno. Nella familiarità di un club, o di un bar, o di qualsiasi altro safe space, abbiamo ritrovato un assassino efferato di individui queer. In una donna, che si rivendica tale, abbiamo ritrovato quello che non può che apparire come profondamente antiprogressista e reazionario, con tutte le ombre della continuità partitica che sarebbe ridondante ricordare.
Con questa ultima osservazione non voglio psicologizzare una reazione sociale ma, al contrario, trarre da Freud un’analogia: cioè che il rimosso non si bandisce secondo una logica della decontaminazione, ma si elabora e si trasforma. Che una donna possa limitare drammaticamente i diritti riproduttivi di altre donne, che un maschio omosessuale possa diventare un carnefice nella sua stessa comunità, significa soltanto che nulla può conferire a nessuno un passe-partout di bontà. Ma vuol dire, allo stesso tempo, che non sono la virtù e la bontà a costituire discrimine di cittadinanza. La lotta politica non consiste nella decontaminazione, ma nella trasformazione del mondo condiviso affinché chiunque possa condurvi una vita buona. Questo può benissimo aprire antagonismi molto complessi da districare. Ma è comunque una prospettiva ben più confortante della squallida idea secondo cui gli uomini infami, per usare un termine di Michel Foucault, vanno espulsi dal mondo. Soprattutto perché ci vuole davvero un niente, agli occhi della classe dominante, a diventare infami.