Q uante volte Marcel Duchamp ha giocato a scacchi con una bella ragazza, molto più giovane di lui? Sicuramente in due occasioni. La prima è stata immortalata nel 1963, nel museo d’arte di Pasadena. Già mentre il fotografo Julian Wesser scattava, quella partita a scacchi aveva un che di opera d’arte, tanto che negli anni a seguire fu tramandata più o meno come tale, stampata su poster e cartoline alla stregua di Nudo che scende le scale Nr.2. È solo in tempi relativamente recenti che la fama dei due soggetti della serie fotografica si è capovolta a favore di quello meno noto: oggi alcuni ci vedono non il ritratto di Marcel Duchamp che gioca a scacchi con una giovane donna nuda, bensì Eve Babitz seduta di fronte a un vecchietto.
Nata negli anni Quaranta e scomparsa nel 2021, Babitz è ricordata per le sue cronache losangeline, dispacci vividi e sagaci scritti a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, e compilati nella forma di memoir istantanei e sketch di finzione. Entrambi i generi sono plasmati dalla stessa materia: il sud della California di quegli anni, all’apice dell’edonismo ma ancora tappa cruciale della controcultura internazionale. Poi nel 2010 la New York Review of Books avviò una serie di ristampe che portarono Babitz all’attenzione di una nuova generazione di lettori. Inizialmente trainati dai cameo e flirt celebri – Harrison Ford, Jim Morrison, Janis Joplin, Warren Betty, eccetera – i libri di Babitz vengono etichettati oggi come l’opera di una “it girl” ante litteram. Ma per quanto la perspicacia ed esuberanza dell’autrice le abbiano senz’altro facilitato l’accesso al mondo luccicante delle sue avventure, il suo talento di scrittura si estende oltre i particolari storici degli eventi narrati. Dopo gli anni d’oro, Babitz, che di professione era in realtà illustratrice, continuò a scrivere su riviste. Solo nel 1991 Babitz raccontò per filo e per segno il suo incontro con Duchamp, ignorando che pochi anni dopo la loro sessione e prima di morire nel 1968, Duchamp si trovò a essere intrattenuto davanti alla scacchiera da un’altra giovane aspirante artista – pittrice, per l’esattezza: Amanda Lear.
Nelle conversazioni familiari, Amanda Lear beneficiava di un rispetto inconsueto, altrimenti assegnato a poche altre presenze femminili, come Lilli Gruber o Bianca Berlinguer.
Amanda Lear emerge dalla foschia dei miei ricordi infantili negli anni in cui i varietà televisivi avevano raggiunto l’apice della popolarità nazionale. Quei contorni nebulosi, devo averglieli attribuiti a posteriori, dopo averla vista esibirsi nelle repliche di Stryx, quel lampo di genio camp che illuminò brevemente la programmazione di Rai 2 nel 1979. Poi Lear finì per comparire anche in quei canali che, per la generazione a lei coeva di ex-sessantottini, stavano portando il Paese alla rovina. Ciononostante, come personaggio noto godeva di uno statuto speciale. Nelle conversazioni familiari beneficiava di un rispetto inconsueto, altrimenti assegnato a poche altre presenze femminili, come Lilli Gruber o Bianca Berlinguer, che però erano giornaliste. Che in quegli anni ci fossero altre professioniste televisive degne della stessa stima, è indubbio. Ma a casa mia il televisore veniva rinchiuso in un armadio e il pagamento del canone si accompagnava a iraconde lettere di protesta, firmate con la citazione di Jannacci “la televisione t’addormenta come un coglione”, perciò il mezzo e coloro che lo abitavano non godevano di grande popolarità. Eppure Amanda era “una donna in gamba”, che “ne aveva viste di cotte e di crude” – detto da mia madre poi, valeva il doppio. L’accento straniero, perlopiù combinato a una proprietà del linguaggio insolitamente erudita per gli standard da prima serata, era la prima giustificazione totalmente impropria di quel giudizio positivo. Poi spuntò una vecchia foto di Amanda Lear e Salvador Dalí sul ciglio di una conca circondata dal mare, come sul bordo di una piscina naturale. Furono pronunciate le etichette “musa” “amante” “compagna”: più classiche ma non meno mortificanti dell’odierno “it girl”.
Che sia in limousine con Mia Farrow, in trattoria con Fellini e Giulietta Masina, o ad abbracciare Copito de Nieve, il gorilla albino dello zoo di Barcellona, il mondo di Amanda Lear ai tempi di Dalí è affollatissimo.
A chiarire e al contempo mitizzare il legame tra Dalí e la showgirl poliglotta arriva un volumetto originariamente uscito in Francia nel 1984 e nel 1987 in Italia per Costa&Nolan, che il Saggiatore ripubblica oggi, corredandolo di testi inediti. “Ho versato tutte le lacrime che potevo, ho avuto problemi, incidenti, controlli fiscali, insuccessi di ogni tipo e tanta solitudine”: l’epilogo, in cui la Lear menziona l’incendio che scoppiò nella sua villa in Costa Azzurra, distruggendo diversi dipinti donati dal pittore spagnolo e uccidendo il marito, è posteriore al 2000. Ma il soggetto de La mia vita con Dalí sono gli anni in cui i due furono pressoché inseparabili, dal 1965 alla fine degli anni Settanta, in cui la Lear – che prima di diventare cantante disco e presentatrice televisiva era una studentessa di Belle Arti a Londra – lo seguirà nei luoghi del jet set internazionale, Parigi, Barcellona, Madrid, New York. E ovviamente Cadaques, in Costa Brava.
Quella foto in bianco e nero era stata scattata a Port Lligat, nella villa dove Dalí si ritirava con la moglie Gala d’estate, portandosi dietro la sua cricca di giovani ed eccentrici. Scrive la Lear: “Dopo la siesta e il lavoro Dalí riceveva i suoi ospiti: un potenziale acquirente, dei giornalisti, dei fotografi, dei ragazzi che andavano in giro per il paesino. Spesso ero io a intrattenerli mentre lui finiva un angolino di cielo o si cambiava. Fu così che una delle rarissime volte in cui Marcel Duchamp venne a trovarlo, dopo essermi accorta che la conversazione languiva, gli proposi una partitina a scacchi, a cui lui giocava spesso. Duchamp vinse nel giro di pochi minuti e Dalí arrivò proprio in quel momento. Si sedette al mio posto e fece una partita con Duchamp. Anziché proteggere il re e la regina, li mosse subito. Quella tattica contraria alla logica del gioco e al buon senso fece innervosire il suo avversario che non riusciva a capire quell’azione suicida. Dalí mi aveva sconfitta diverse volte giocando in quel modo. Diede del filo da torcere a Duchamp, che tuttavia resistette e vinse.”
Narrato in prima persona, La mia vita con Dalí tesse in sequenza serrata una serie di episodi unici, sia mondani che intimi, in qualche modo legati al pittore catalano. La ricchezza di particolari, spesso superflui, veicola un’impressione di casualità e di “fly on the wall”, con la Lear che si sottrae alla lente iperdescrittiva con cui passa in rassegna ogni essere vivente o inanimato. Non che la voce narrante non si conceda frequenti riflessioni personali, ma se non ci fosse quel surplus informativo a spennellare i contorni, gli incontri memorabili si prenderebbero tutta la scena. Alcune figure sono ricorrenti, altre no, ma poco importa: che sia in limousine con Mia Farrow, in trattoria con Fellini e Giulietta Masina, o ad abbracciare Copito de Nieve, il gorilla albino dello zoo di Barcellona, il mondo di Amanda Lear ai tempi di Dalí è affollatissimo. “Siccome il mondo era piccolo” basta come spiegazione, ed è del tutto plausibile. Dopo pochi capitoli, i fatti eccezionali sono così tanti da confondersi gli uni negli altri, in una specie di routine prevedibile. La specialità diventa dunque l’inversione e il “riavvolgimento”, tipo nastro, del punto di vista: uno sguardo su Dalí uomo – mai davvero separato dall’artista – che si propone come principiante e ingenuo, e perciò paradossalmente più attendibile. Seguire il Living Theatre durante il soggiorno avignonese della compagnia o farsi benedire dall’archetipo di Marilyn Monroe – Mae West – ormai ottuagenaria, grazie al pupillo di Warhol, Paul Morrissey, non è da tutti. Allo stesso tempo non sorprende affatto. Progressivamente i dubbi svaniscono, l’incredulità perde la presa, perché Amanda sta vivendo tutto per la prima volta.
Progressivamente i dubbi svaniscono, l’incredulità perde la presa, perché Amanda sta vivendo tutto per la prima volta.
Così La mia vita con Dalí fa dell’esperienza inedita un’abitudine in fieri. Le memorie di Amanda Lear non sono diverse da altri racconti di formazione – soprattutto se narrati in prima persona da chi, divenuto qualcuno, scrive o ricorda com’è stato diventarlo. Ne I miei anni Super 8 di Annie Ernaux e David Ernaux-Briot, i fan della scrittrice francese sobbalzeranno con un brivido di suspense retroattiva al vederla giovane e abbronzata, in vacanza con il marito a Bayreuth, e sentirla descriversi, come suo solito, a distanza: “ha 33 anni e non sa ancora che il manoscritto spedito per posta sarà accettato dall’editore Gallimard e pubblicato col titolo Gli armadi vuoti nella primavera del 1974”. Un benigno senso di trepidazione in “rewind” pervade anche Feelings Are Facts, l’autobiografia della coreografa statunitense Yvonne Rainer, uscita nel 2006 per MIT Press. Le sue sono in realtà memorie troncante, poiché dopo il suo apporto – ventennale e decisivo – alla danza contemporanea, Rainer passerà al cinema, prima lentamente e poi di colpo. Pur altrettanto significativa, questa seconda fase è appena accennata e si assottiglia progressivamente man mano che ci si allontana dal punto partenza: gli esordi, la giovinezza.
Yvonne Rainer annota l’insulto (o complimento) più generoso che circola: ‘lei dipinge come un uomo.’
Come ad Amanda Lear, anche a Yvonne Rainer, una decina di anni prima, tocca sentire una variante dell’opinione dalíniana sul talento delle donne. Arrivata a New York alla fine degli anni Cinquanta, comincia a frequentare la scena artistica; oltre a segnarsi il numero esiguo di pittrici – Elaine de Kooning, Joan Mitchell, Grace Hartigan – annota l’insulto (o complimento) più generoso che circola: “lei dipinge come un uomo, il che significava naturalmente che lei non avesse alcun merito e che la sua ambizione o successo avrebbe finito per nuocerle”. E come Amanda, anche Yvonne presta il proprio corpo come calco per farne un’oggetto artistico: la prima le labbra, per “il flacone del profumo che avrebbe portato il nome del Maestro”, la seconda i genitali per una mostra dell’artista Robert Morris, suo compagno all’epoca. Comune è anche la frequentazione di personaggi mitici, con una differenza però sostanziale: Amanda, e lo si vedrà anche nella sua carriera nello spettacolo, seguirà entourage vari – sarà satellite di stelle maggiori, diciamo; Yvonne troverà la sua vocazione e bazzicherà le scene da protagonista, diventando un punto di riferimento per la danza come disciplina in sé e anche come forma artistica essenziale allo sviluppo della corrente minimalista.
Opposta al surrealismo brioso ma calante di La mia vita con Dalí, è la nascita del minimalismo che anima indirettamente Feelings Are Facts (The MIT Press), il cui titolo è tratto da un’espressione con cui lo psicanalista della Rainer descriveva il subbuglio emotivo che la sua paziente e i suoi coetanei artisti si ostinavano a erodere dal loro lavoro: “il nostro inconscio si sviscerava con un’intensità e un melodramma inversi al modo in cui si manifestava come assenza, nelle scatole, nei pilastri, nelle corse [un movimento classico nelle pièce di Rainer] e nell’immobilità delle nostre nostre austere creazioni scultoree e coreografiche”. Il vero tesoro del testo di Rainer, oltre all’inaspettato senso dell’umorismo, è la lucidità sul farsi della sua identità creativa – sia da principiante che da esperta di lunga data. La dialettica continua tra debutto e maturità esercita un fascino letterario che trascende il contesto specifico, sebbene i personaggi leggendari che lo popolano costituiscono un “coro” altrettanto appassionante.
Habitué delle feste al loft di Yoko Ono, fotografata tra Andy Warhol e la critica Barbara Rose, studentessa di Merce Cunningham e perciò debitrice di John Cage – a loro volta discepoli di Duchamp, collega di Robert Rauschenberg e Frank Stella con cui condivide anche lo spazio scenico… Anche una outsider, che agli inizi viene rimbrottata perché, da novellina, non sa chi sia Alexander Calder. Però mai musa, se non per sbaglio. Al massimo un po’ it girl, si direbbe oggi confrontandola con Eve Babitz, che volendo è la sua variante rock della West Coast. Cronologicamente e geograficamente, i racconti di Rainer, Babitz e Lear esistono in tempi leggermente sovrapposti, in mondi comunicanti ma separati. Feeling Are Facts, di cui purtroppo manca un’edizione italiana, si può apprezzare come una testimonianza storica da cui emergono, di straforo, elementi letterari (Rainer è anche poetessa e ha pubblicato non-fiction e testi accademici). Da Eve Babitz, soprattutto nelle raccolte Slow Days, Fast Company e La mia Hollywood (entrambi editi da Bompiani in traduzione di Tiziana Lo Porto), arriva una letterarietà magari un po’ ruspante ma innegabile; il gossip c’è, ma è collaterale.
Però mai musa, se non per sbaglio. Al massimo un po’ it girl, si direbbe oggi confrontandola con Eve Babitz, che volendo è la sua variante rock della West Coast.
Da La mia vita con Dalí di Amanda Lear – che in italiano leggiamo in una traduzione dal francese di Marina Bocconcelli, con Valentina Muccichini per la revisione – ci arriva un testo molto aneddotico, da leggere con gusto voyeuristico. Un po’ (scusami, Amanda) come si sfogliano le riviste scandalistiche in attesa dal dentista: in un contesto di serietà sfidato da voglia di escapismo. Ogni tanto l’autrice illumina con sintesi del tipo “tra parassiti e gendarmi il mio entusiasmo svanì” (a proposito della vita in una comune hippie). Oppure, nascoste in giudizi specifici, partorisce autentiche massime “La sua beatitudine era tale da risultare quasi ripugnante”. Ma la letterarietà, come la rilevanza storica, sono incidentali.
Nella conversazione che allacciano qui con le loro memorie, Rainer, Babitz e Lear potrebbero avere voci quasi complementari. Pur avendole chiamate a raccolta, ho il sospetto che si starebbero parecchio sui nervi. Eppure anche se molto diverse, aleggia tra di loro uno spirito comune, uno sguardo di bambina che sbircia lo spettacolo dal dietro le quinte prima di fare la sua grande, indimenticabile entrata in scena. Bambine non perché considerate inesperte o inferiori, ma perché conservano vivo sia il ricordo che la smentita di quelle considerazioni limitanti, e soprattutto la vitalità e la passione degli esordi, che non invecchiano mai – neppure quando diventano ricordi.