“C he cosa significa?” è la domanda che l’umanità si pone di fronte a qualunque opera d’arte. Nemmeno una pittura rupestre della grotta Chauvet rivela tutto di sé, anzi, sembra accennare appena a ciò che veramente è: nella sua primitiva apparenza rinvia a un senso ultimo, alla spiegazione del perché qualcosa esista piuttosto che nulla e, risalendo la catena delle cause, a postulare un Dio. Cioran scrisse: “teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove dell’esistenza di Dio, dimenticando la sola!”, ossia la musica di Bach. Secondo Cioran (ma è un pensiero che soggiace già alle Lezioni di estetica di Hegel) l’Onnipotente è un demiurgo, un artista che, tramite alcune sue creature elette, si rivela esteticamente; non ha obblighi morali né funzionali. Dio non serve a niente, non soccorre e non salva; è semplicemente bellezza, e l’arte significa Dio.
Non è temerario affermare che, ancora oggi, qualunque opera d’arte, anche la più mondana, cinica, provocatoria o disturbante, suo malgrado, significhi Dio, e gli artisti sono costretti (ma naturalmente la cosa gli fa immensamente piacere, anche quando si atteggiano a belve di Satana o a scettici incalliti) a passare per sacerdoti, a lavorare per un culto. E, corollario, se una qualsivoglia opera non suscita l’interrogativo: “Che significa?”, se è subito integrata e fruita come avesse scopi e funzioni determinati e non trascendenti, macinata dal mercato senza lasciare residui, di certo non è un’opera d’arte.
Nella storia della musica occidentale esistono alcune opere più misteriose di altre – musiche che hanno a che fare con gli archetipi non meno delle pitture rupestri di 35mila anni fa –, di fronte alle quali l’ascoltatore è confuso più che con altre composizioni; opere di fronte le quali la domanda sul senso dell’opera diventa più urgente e, se la nostra ipotesi è corretta, sono più escatologiche e teologiche di altre, ovvero, più vicine a una possibile dimostrazione musicale dell’esistenza di Dio (o se si vuole, alla conservazione di una qualsivoglia concezione di assoluto). Quattro mi sembrano i modelli di musica come dimostrazione dell’esistenza di Dio: l’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach (circa 1747-1750), la Sinfonia in si min. detta Incompiuta di Franz Schubert (1822), la Nona sinfonia in re min. di Anton Bruckner (circa 1887-1896) e la Quinta sinfonia in Mib di Jean Sibelius (1915-1919). Solo la seconda di queste composizioni si è guadagnata l’epiteto michelangiolesco di incompiuta (è l’unica che sia stata abbandonata per altri motivi che non fossero la morte del compositore: Schubert la scrisse a venticinque anni e ne avrebbe vissuti altri sei), ma, e non può essere una coincidenza, lo sono tutte le prime tre (e quella di Sibelius ha rischiato di esserlo, soggetta a continui ripensamenti e drastici rimodellamenti).
Qualunque opera d’arte, anche la più mondana, cinica, provocatoria o disturbante, suo malgrado, significa Dio.
Tre casi di sillogismi sull’esistenza di Dio in cui l’ultimo passo, quello decisivo che avrebbe dovuto inchiodare l’Ente Supremo all’epifania sonora, è frammentario, lacunoso o del tutto mancante; e che tuttavia dischiudono a qualunque ascoltatore se non la fede quanto meno l’idea di un Dio possibile. In particolare, la sinfonia di Bruckner è il mio ascolto sinfonico (dal vivo) più recente, in occasione di un concerto alla basilica di San Paolo fuori le mura, nell’ambito del Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra; e, benché non superiore alle altre (nella musica teologale le gerarchie non sussistono) è quella che fin dalla dedica: Dem lieben Gott, all’amato Dio, si prefigge di illustrare la presenza di Dio come un giottesco cielo stellato sopra le sue creature. Non è raro che chi ascolti questa sinfonia in un’eccellente esecuzione, si stupisca di essere ateo, se lo è. Del resto è nella Nona di Bruckner che, per via della più vivace impressione di connessione a un ordine divino che questo capolavoro incompiuto riesce a stabilire, anche la sconnessione è più violenta: questo unico Dio possibile per una coscienza atea, il Dio dell’arte millenaria, svanisce inesorabilmente non appena il contatto estetico si interrompe; e cioè nel concerto cui ho assistito lo scorso novembre, pochi minuti dopo lo spegnersi dell’accordo di mi maggiore della Nona sinfonia, nell’acustica profondamente riverberante della basilica di San Paolo, al termine della solenne (come da indicazione nella partitura, Feierlich) esecuzione dei Bamberger Symphoniker diretti da Jakub Hrůša.
Sul piano degli studi musicali, che Bruckner fosse un teologo, anzi, un mistico il quale anziché prediche, sermoni e dissertazioni adoperava le note, è nozione acquisita da quasi un secolo: “Le Nove Sinfonie sono da considerarsi quale mirabile costruzione di pensiero religioso; quale specchio di una vita veramente religiosa, mentre invece, ad esempio, l’estemporanea retorica e goffaggine di tanta produzione liturgica contemporanea
e successiva, di autentico sentimento ‘sacro’ non offrono traccia”, scriveva Gianandrea Gavazzeni, probabilmente riecheggiando il celebre giudizio di Wilhelm Furtwängler: “Fosse per il travaglio della lotta contro i demoni oppure per l’impeto di una celeste trasfigurazione, tutto il pensiero e il sentire di quest’uomo [Bruckner] erano ardentemente orientati verso il divino, in lui e sopra di lui. In fondo, più che un musicista, era in realtà un epigono di quei mistici tedeschi, come Meister Eckhart, Jakob Böhme e altri ancora”.A queste sentenze ormai antiche mi piace aggiungere due affermazioni di un paio d’anni fa rilasciate al Corriere della Sera da una scienziata credente come la direttrice generale del CERN, Fabiola Gianotti:
Io auspico un ritorno a un approccio olistico, direi quasi rinascimentale, in cui le diverse forme di conoscenza, scienze, umanesimo e arte facciano parte di un tutt’uno. Purtroppo nel moderno mondo con il tecnicismo che diventa sempre più importante abbiamo abbandonato questo approccio.
L’instaurazione di un rapporto tra scienza, arte e interrogazione sul senso e il valore dell’esistenza, anche per Gianotti, significativamente, passa per la musica, e in particolare per una delle tre opere che ho chiamato teologali: “Schubert scrisse i primi due movimenti della sinfonia [l’Incompiuta] e, nonostante avesse avuto il tempo, non la completò mai. Perché non lo fece? Forse perché cercava qualcosa e non è riuscito a trovarlo. Credo che in questo senso l’Incompiuta sia un capolavoro, ma anche un esempio di come tutta la nostra vita sia una ricerca continua”.
Quante chance di successo ha oggi, nel “moderno mondo con il tecnicismo che diventa sempre più importante”, il ritorno a un “approccio olistico, quasi rinascimentale”? E il bisogno di questo ritorno, la nostalgia dell’uomo rinascimentale, sono sentiti solo dai credenti come Gianotti, o in forme magari simboliche, traslate, imprecise, anche da chi è sprovvisto della fede in Dio o in qualunque forma di trascendenza? Forse, queste domande sono in un certo senso superflue. Forse, ancora oggi, per sua intrinseca natura, messasi alle spalle la stagione del nichilismo e nel pieno di una sorta di euforia tecnicistica verso il traguardo di computer senzienti, l’uomo è una creatura olistica cui, piaccia o no, occorre conciliare l’immagine tecnico-scientifica del mondo e la sua desolata constatazione di una pointlessness del tutto, con l’esperienza di creazione e fruizione artistica, che ha al suo centro il conferimento di un senso, la risposta alla domanda: “Cosa significa questo oggetto o questa esperienza?”.
La consolazione è uno statuto insufficiente per l’arte: ci vuole Dio.
Mi spingo a dichiarare che solo il riconoscimento della persistenza – per quanto contestata, repressa e precaria – di quello che Gianotti chiama “approccio olistico, quasi rinascimentale”, e la caccia accanita a ogni sua possibile traccia può restituire all’esperienza estetica tutta la sua pienezza. Non l’escapismo, l’evasione, la danza sulle rovine, e nemmeno la stoica “invincibile estate in noi, nel bel mezzo dell’inverno” di cui parlava, pretendendo troppo, Camus, e che è un altro modo di declinare l’arte come consolazione. Ma la consolazione è uno statuto insufficiente per l’arte, ci vuole Dio.
Un altro concerto cui ho assistito ultimamente è stato quello di Edda al Monk: quando ha intonato la sonnambulica “Spaziale”, dove lei, l’anima del cantante, sempre declinata al femminile, nel sonno “va a stabilire un rapporto un po’ celestiale” e veste i vestiti che “tu svesti”, pigiami tolti e rimessi come adorabili difetti, non avrò avuto forse la visione del divino (il Tu eddiano: con quale altro interlocutore se non Dio, può avere colloquio un’anima che sprofonda in pigiama in se stessa?) né mi si è dimostrato sillogisticamente l’Essere eterno; ma è stato un momento memorabile come, in seguito, l’ascolto del conclusivo Adagio nel concerto bruckneriano con i suoi spaziali e celestiali salti di nona minore, veri e propri archi rampanti di suono, nonostante la location fosse meno ieratica della basilica di San Paolo fuori le mura, e ho lasciato il concerto di Edda assolutamente convinto di aver provato un’emozione molto più alta della consolazione, e del tutto estranea all’onnipervasiva ideologia dell’intrattenimento (questo complemento analfabeta del tecnicismo) con i suoi prodotti e sottoprodotti tristemente, banalmente miscredenti.