S e abbastanza noti sono i casi in cui si processarono le bestie durante l’epoca medievale, meno conosciuto è forse l’episodio in cui furono gli animali a portare a processo l’intera l’umanità. Tale vicenda è intrecciata alla storia, altrettanto “ombrosa”, degli Ikhwān al-Ṣafāʾ, i cosiddetti Fratelli della Purezza, una società segreta islamica che operò a Bassora tra VIII e X secolo. Studiosi di neoplatonismo, di astrologia, di dottrine e testi sacri, i Fratelli diedero vita a una straordinaria sintesi filosofica e religiosa della cultura islamica: un’enciclopedia composta da 52 “epistole” e intitolata Rasā’il ikhwān al-ṣafā’ wa Khullān al-wafā’ (Epistole dei Fratelli della purezza e degli amici della fedeltà). Henry Corbin, nella sua Storia dell’Islam, ne parla come di un’impresa di liberazione spirituale: “si tratta di condurre l’adepto a vivere somiglianza della divinità”; l’Enciclopedia dei Fratelli “tende dunque a inglobare tutte le conoscenze e a dare senso agli sforzi del genere umano”.
Tra le 52 epistole si trova questa favola, recentemente pubblicata in Italia da De Piante Editore: a causa di forti venti di tempesta, una nave naufraga sull’isola di Ṣāʿūn, presso l’equatore, al centro del Mare Verde. I passeggeri – commercianti, uomini d’industria, studiosi di ogni disciplina – si danno all’esplorazione dell’isola: la trovano colma di frutti, di verdura, e di ogni specie di animale; tutto vive nella più completa armonia. Decidono allora di trasferirsi lì; costruiscono rifugi, abitazioni, e prendono rapidamente a sottomettere le bestie, come fossero di loro proprietà. Si racconta che quando gli animali incominciarono a rendersi conto di come stavano le cose, i loro rappresentanti e i loro capi “si riunirono e comparirono al cospetto di Bīwarāsp il Saggio, Re dei Genii, a cui denunciarono l’ingiustizia e i torti dell’umanità contro di loro e protestarono contro le idee degli umani nei loro confronti”. Il processo ha avvio: gli animali prendono parola di fronte ai portavoce degli uomini; a turno, parlano il mulo, il bue, il pappagallo, la rana, l’usignolo, lo sciacallo, e così via.
È interessante notare come, ancora prima della narrazione del naufragio e del processo che ne consegue, l’epistola si apra con una sorta di compendio favoloso della sopraffazione umana; una “storia universale” dell’infamia, dell’abuso, del saccheggio, della devastazione del mondo animale e vegetale che ha inizio proprio nel momento in cui ci si ritira stabilmente in villaggi, schiavizzando (anche immaginativamente) parte del paesaggio, con confini sempre più netti tra il “domestico” e il “selvatico”; è lì che incomincia quello il filosofo Timothy Morton chiama la macchinazione agrilogistica, la cattura del mondo come possedimento agricolo. Si narra infatti che
quando la razza di Adamo iniziò a riprodursi e moltiplicarsi, gli esseri umani si diffusero per la terra e per il mare, sulle montagne e le pianure, perseguendo ovunque i loro scopi in libertà e sicurezza. In principio, quand’erano pochi, vivevano nella paura, si nascondevano dai molti animali selvaggi e dalle bestie predatrici, si rifugiavano sulla cima di montagne e colline e si riparavano nelle caverne, mangiavano la frutta degli alberi, le verdure della terra e i semi delle piante […] Poi costruirono città e villaggi sulle pianure e vi si stabilirono. Ridussero in schiavitù bestiame, mucche, pecore e cammelli, e ancora cavalli, asini e muli. Li legarono per le zampe, li sellarono e li misero al lavoro – cavalcandoli, facendoli arare e trebbiare.
Durante il processo, gli animali insistono volutamente sulla confusione dei confini, sul loro carattere contradditorio, da subito meticcio. Le argomentazioni sono a loro volta “selvatiche”: crescono, come “malerbe”, nelle crepe dell’ampia cattedrale delle giustificazioni umane. Sostiene il mulo, per esempio, che le bestie sono considerate schiavi nel momento in cui vengono comprate; la stessa cosa fanno però i persiani con i greci e i greci con i persiani quando l’uno conquista l’altro. “Dunque chi è lo schiavo e chi il padrone?” domanda il mulo. E poi continua: a chi vorrebbe giustificare la legittimità della sopraffazione con i comandamenti divini, coi versetti del Corano o di altri testi sacri, occorre ribattere che si tratta soltanto di una cattiva lettura – di un clamoroso errore di interpretazione; infatti non c’è nulla nei brani citati dagli umani che posso confortare la loro pretesa di essere padroni: “questi versi sottolineano solo il favore e la benedizione concessi da Dio all’umanità. Dio disse: Li assoggetto a voi – così come disse: Assoggetto il sole e la luna, i venti e le nuvole. Dobbiamo forse pensare, Maestà, che anche i corpi celesti siano schiavi e proprietà, e gli uomini i padroni? Affatto!”.
Sostiene il mulo che le bestie sono considerate schiavi nel momento in cui vengono comprate; la stessa cosa fanno però i persiani con i greci e i greci con i persiani quando l’uno conquista l’altro.
Se queste congetture suonano sinistre e familiari, se continuano a risuonare dopo un più millennio, è perché ci appartengono ancora più profondamente. Guido Ceronetti, “pestigrafo” visitatore dei fatti meschini di ogni cronaca ed epoca, in un libro velenosissimo intitolato proprio Difesa della luna si spingeva a dire che gli uomini, di delitto in delitto contro la specie e l’ambiente, arrostirebbero e mangerebbero anche la luna, “per sfruttarne al meglio, alla cannibalica, i visceri, in vista delle loro supremazie economiche e militari”. Il turismo spaziale, l’assoggettamento di ogni risorsa, l’antropizzazione dell’idea di paesaggio non sono più soltanto previsioni: costituiscono piuttosto una rete entro la quale ci troviamo a vivere, un “iperoggetto” che per via del suo gigantismo fatichiamo a percepire.
Del resto gli animali, nel loro processo, non fanno altro che sottolineare la quotidiana povertà percettiva dell’essere umano; la perspicacia che l’uomo vanta si rivela infatti piuttosto limitata. Chiamando in causa una molteplicità di approcci, le bestie ci invitano a compiere una passeggiata in mondi invisibili e sconosciuti, per usare un’espressione dell’etologo Jakob von Uexküll, che a tal proposito nel secolo scorso parlava proprio di umwelt: lo spazio percepito in maniera differente da ciascun animale. Come leggiamo nella favola, il cammello, per esempio,
nonostante le lunghe gambe, il collo e la testa che sale tanto alta in aria, trova la pista sui percorsi più ardui e insidiosi nel buio della notte, dove nessuno di voi potrebbe ritrovare la via o riuscire a vedere senza lanterna, torcia o candela. Un buon destriero può sentire i passi più lontani nel cuore della notte. E non di rado sveglia il suo padrone a colpi di zoccolo per avvertirlo di un nemico, un predatore o un’imminente incursione. Si vedono spesso asini o mucche che ritrovano la strada di casa se sviati per sentieri sconosciuti o abbandonati dal padrone. Eppure alcuni uomini possono percorrere la stessa strada più e più volte e ancora allontanarsene o smarrirsi.
A essere decostruito è il principio di un’intelligenza appartenente alla sola specie umana; gli animali la vedono invece disseminata ovunque. Percepiscono il formicolio di ogni materia, il movimento incessante di ogni creatura nella ricostruzione continua del mondo; sanno che il ragno nel tessere la propria tela è più abile di qualsiasi tessitore umano, poiché produce il proprio filamento, e fa tutto ciò “senza conocchia, fuso, ruota, pettine o telaio”; sanno che i bachi da seta sono capaci di intrecciarsi attorno un nido simile a un marsupio, che li protegge dalle intemperie; sanno anche che le api si fabbricano celle e si costruiscono nidi con più ingegno degli architetti e più maestria degli artigiani. “Tutti i tipi di uccelli e animali” dice il pappagallo, “costruiscono allo stesso modo i loro rifugi, nidi o tane e allevano i piccoli. Li troverete più ingegnosi e abili, più sapienti degli umani”.
Gli animali, nel loro processo, non fanno altro che sottolineare la quotidiana povertà percettiva dell’essere umano; la perspicacia che l’uomo vanta si rivela infatti piuttosto limitata.
Ancora più sorprendente è l’opposizione rivolta contro la superiorità dei poeti, degli oratori e dei teologi; il pappagallo invita a poggiare l’orecchio sul grande mormorio dell’universo, sulla lingua sensuale dagli uccelli e dalle fiere, che anche l’uomo saprebbe comprendere se fosse capace – per parafrasare un libro di Tom Mustill dedicato proprio al tema della comunicazione animale – di parlare il balenese. In questa favola del X secolo, gli animali sono sì arruolati per esprimersi come uomini (per farsi comprendere anche da noi), ma non mancano per un solo istante di ricordarci che c’è un intero continente di suoni inascoltati, una moltitudine di voci che il pappagallo, durante il processo, descrive così, in una delle pagine più belle del libro:
se potessi capire il discorso degli uccelli, gli inni delle creature della terra e degli animali che strisciano, gli osanna delle belve, il mormorio meditativo del grillo, le preghiere della rana, le ammonizioni dell’usignolo, le omelie delle allodole, le lodi del gallo cedrone e le celebrazioni delle gru, la chiamata alla preghiera del gallo, la poesia che le colombe recitano durante il corteggiamento e il conforto nel gracidare dei corvi, quel che le rondini descrivono e l’upupa riferisce, quel che la formica racconta e l’ape riporta, quel che le mosche intendono e la civetta dice a mo’ di avvertimento, e tutti gli altri animali che parlano o ronzano o ruggiscono, tu, razza umana, sapresti e ti accorgeresti che tra tutte queste moltitudini ci sono oratori e parlatori eloquenti, teologi, predicatori, ammonitori e indovini, come tra i figli di Adamo.
Sono radunate in queste righe molte delle questioni che oggi ricompaiono in maniera preponderante nel dibattito culturale, come se, anche dopo le tanto vituperate “epoche oscure” medievali, l’animale non avesse mai davvero cessato di infilarsi ogni dibattito, di incrinare con la sua danza lo sciagurato dominio antropocentrico. Così, quando si parla di pluralità delle intelligenze e dei modi d’essere, il Processo degli animali contro l’uomo si rivela una mappa per rileggere la contemporaneità, senza reclamare alcun primato ecologico, alcuna rivoluzione verde. In fondo, le bestie del processo non convocano ragionamenti così dissimili da quelli usati, per esempio, dall’artista James Bridle nel suo ultimo libro Modi di essere. Animali, piante e computer: al di là dell’intelligenza umana: “oltre la ristretta cornice proposta tanto dalle aziende tecnologiche quanto dalla dottrina dell’unicità umana (l’idea che, tra tutti gli esseri, l’intelligenza umana sia singolare e preminente), esiste un intero regno di altri modi di pensare e fare intelligenza”.
A essere criticati nella favola sono anche i sistemi di violenta marchiatura, il furore classificatorio con cui si è pensato di costringere l’animale in una definizione univoca. È particolarmente interessante il frammento della narrazione in cui un maiale (uno degli animali più frequentemente processati durante il Basso Medioevo) si ritrova in mezzo a un’accesa disputa tra Genii. “Il maiale non è un animale. È una bestia da preda. Non vedete che ha zanne e mangia carogne?” dice uno dei sapienti; “no!” ribatte un altro, «è un animale come gli altri. Non vedete che ha zoccoli e mangia erba e fieno?”; “no!” ribatte un altro ancora, “è un incrocio tra animali e bestie selvagge, come l’elefante o la giraffa, che è un incrocio tra un asino e un cammello”. A questo punto irrompe nella discussione il maiale, esasperato: “buon Dio!” si lamenta, “non so cosa dire o presso chi protestare, con quest’infinità di contraddizioni su di me”.
A essere criticati nella favola sono anche i sistemi di violenta marchiatura, il furore classificatorio con cui si è pensato di costringere l’animale in una definizione univoca.
In effetti, contro chi potrebbe protestare oggi il maiale? La capacità classificatoria, fondamentale per entrare in relazione attiva con la difformità del mondo (ovvero con la sua varietà di organismi), è diventata sempre più uno strumento di violenta sopraffazione, di estinzione di ogni mistero. Allo stesso tempo, sappiamo che le tassonomie definitive non bastano: c’è sempre qualcosa che rimane fuori, qualcosa non si riesce ad afferrare, nonostante ogni moderno sforzo di “magnificazione”; sforzo che è anch’esso sinistramente anticipato nel processo. In uno dei suoi discorsi, il grillo confessa infatti che noi umani non abbiamo idea di come le api si costruiscano “le case e le celle esagonali senza righello o compasso […]. Se le api avessero corpi più̀ grandi tutto questo sarebbe chiaro ed evidente, visibile e comprensibile. E così dicasi per il baco da seta”.
Con l’accumularsi dei secoli, l’ingigantimento scientifico e la visione microscopica ci hanno concesso di svelare da vicino le strutture altrimenti nascoste del mondo, le meraviglie che sembravano irraggiungibili dal nostro sguardo – e tutto questo anche fuori dai laboratori prestabiliti. Pensiamo soltanto all’avventura, davvero favolosa, del cinema scientifico; alla microcinematografia di Jean Comandon, alle visioni acquatiche di Jean Painlevé o alle riflessioni di Ejzenstejn, che sosteneva che l’inquadratura fosse una “cellula” di montaggio. Il paragone tra cinema e microbiologia viene esplicitato più volte, per esempio dal filosofo Siegfried Kracauer, che scrive nel 1960:
nella sua preoccupata attenzione per il piccolo, il cinema è paragonabile alla scienza. Come la scienza, frantuma i fenomeni materiali in minuscole particelle, rendendoci così sensibili alle formidabili energie accumulate nelle microscopiche strutture della materia.
Allo stesso tempo, questa grande frantumazione, questa miriade di cineprese, fotografie, schermi di schermi sempre più nitidi, unita alla quasi totale antropizzazione del paesaggio, ha prodotto a livello spettacolare una “igienizzazione” dello sguardo, “naturalizzando” la natura, occultando l’animalità dietro una sua immagine esotica e congelata, oppure esclusivamente domestica. L’animale scompare nel momento di massima visibilità: quando è catturato nell’esposizione, senza essere più vissuto in un campo aperto di relazioni. Mentre i più minuscoli processi vengono resi sempre più trasparenti, il rapporto con le carni viene via via negato. Gli animali nella favola si lamentano più volte di essere stati massacrati, scorticati, smembrati, posati sui ceppi dei macellai, “tagliati con lunghi coltelli e bolliti in calderoni o arrostiti in forno”.
Tutto ciò continua ad avvenire, e anzi il massacro industriale e intensivo non è forse mai stato così preoccupante. Eppure, l’igienizzazione percettiva nega il rapporto diretto con questo aspetto, fondamentale nel processo di elaborazione ecologico della violenza: basterebbe soltanto considerare la questione della caccia come meditazione e “dramma” ritualizzato nell’esistenza dei cacciatori-raccoglitori, come rapporto con il territorio finalizzato non esclusivamente alla ricerca del cibo, ma parte di una più vasta rete di interazioni. In Teneri carnivori, Paul Shepard chiama “la caccia come stile di vita” quel modo di vivere il paesaggio non come qualcosa di muto e asservito (una risorsa agricola da consumare immediatamente), ma come luogo di perenne allerta, di attenzione continua e disposizione al mettersi in relazione con tutto quanto ci è attorno. Nella vita cinegetica, si riuniscono due misteri fondamentali: la natura dell’animale e della morte, che permettono all’umanità di passeggiare fuori da se stessa.
Il miraggio della sospensione nello spazio si intreccia a quello del misticismo capitalista: il regno degli esseri disincarnati, apparentemente al riparo dall’impurità, dal dolore e dalle lordure.
Ma al dà delle questioni della caccia, fino a metà del secolo scorso il rapporto con il cibo si è mantenuto comunque in una sorta di collegamento diretto con la morte e le sue impurità. La cucina vegliava la carne. Su questo tema ha scritto a lungo Piero Camporesi in pagine particolarmente significative del suo saggio La carne impassibile, che sembrano peraltro riprendere alcune parole chiave della favola:
“Spennate”, “vuotate”, “fendete”, “trinciate”, […] “scorticate e sventrate”: non sono ordini impartiti ai suoi assistenti dal carnefice, ma ingiunzioni pratiche di cucina, di una cucina che ormai non s’ usa più, come sempre più remoti ci suonano gli imperativi obitoriali delle sue ricette. Questa generazione che ha “abolito” la morte, rimuovendola come una cosa indecorosa e sporca, sta rimuovendo anche la cucina-macello. […] Ora la confezione cellofanata isola la cosa impura, la nobilita e la riscatta. Il sangue non si deve vedere, l’oggetto commestibile non deve ricordare in nessun modo la morte, la sofferenza, il viscerale.
Il sangue non si deve vedere: non si tratta dunque di una correzione, ma di mera cosmesi: l’ennesimo “trucco” per far diventare più scivolosa – e dunque pacificata – l’accettazione del massacro e del suo consumo, negando al contempo lo spazio fondamentale del dramma, il processo ecologico di rielaborazione della violenza che la rende insieme vicina e intollerabile, straniera e solenne, e che ci costringe a riflettere sull’alterità che stiamo accettando (o rifiutando) di mangiare. Laddove tutto ciò sparisce, la conquista dell’Altro diventa totale, lasciando posto a un’idea di universo come pure conquista.
“Dobbiamo forse pensare che i corpi celesti siano schiavi e proprietà, e gli uomini i padroni?” chiedeva il mulo all’inizio del processo. È decisivo notare che la questione della conquista spaziale implica a sua volta la visione igienica, sintetica e cellofanata appena discussa. Il miraggio della sospensione nello spazio si intreccia a quello del misticismo capitalista: il regno degli esseri disincarnati, apparentemente al riparo dall’impurità, dal dolore e dalle lordure. “Il vecchio sogno del capitale di vedere l’umano perfezionato, tanto diffuso nelle utopie del XVI e XVII secolo, da Bacon a Descartes, sembra a portata di mano” dice a tal proposito la filosofa Silvia Federici in Oltre la periferia della pelle, chiamando in causa una delle dichiarazioni di Walter Schirra, l’astronauta della NASA che nel 1968 pilotò l’Apollo 7. A proposito della sua esperienza nello spazio, Schirra disse:
“Ci si sente orgogliosi, soli ma non tristi, si percepisce una libertà dignitosa da tutto ciò che è sporco, appiccicoso. […] E si lavora bene, sì, si pensa bene, ci si muove bene, senza sudare, senza difficoltà, come se la maledizione “con il sudore e il dolore della fronte” non esistesse più. È come una rinascita.
Nello stesso tempo in cui si allarga nello spazio, l’affrancamento dalla sporcizia e dal dolore piomba sempre più nel confine terrestre. Potremmo anche dirla in questi termini: mentre gli animali diventano materiale spettacolare, argomento onnipresente nelle rivoluzioni verdi, l’animalità (e dunque l’animale-umano), con il suo regno di umori, di intelligenze, di carni, di reti, di violenze, di drammi e pericoli, diventa sempre più impenetrabile.
Apparentemente, le bestie continuano a perdere il loro processo, come pure avviene nell’ambiguo finale della favola degli Ikhwān al-Ṣafā. Eppure, la condanna non è certa. Dal momento che è onnipresente, l’animalità è anche contagiosa: una volta liberata dalla visione igienica e domestica, essa è capace di spalancare nuove possibilità immaginative; di aprire, nel chiuso della nostra percezione, altre avventure dello sguardo, altri modi di costruire relazioni attive con l’attorno, incrinando la naturalezza di ciò che è umano. Non tutto, dunque, è perduto. Il processo va avanti.