P enso spesso a una frase di Saidiya Hartman in Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi (2021) a proposito dell’utopia: “Utopia non si rivela mai essere la società perfetta. Guardate con attenzione e troverete i bassifondi popolati da schiavi, subalterni, coscritti e prigionieri. Guardate abbastanza a lungo e riconoscerete i vincitori e i vinti, i pezzi grossi e i pesci piccoli, i reali e gli schiavi, i padroni e i servi”. Mi fa riflettere sul lato oscuro dei desideri e delle utopie nel mondo occidentale, capitalizzato, globalizzato e iperconnesso e su come questi vengano plasmati e manipolati. Mi domando se è possibile parlare di liberazione dei nostri desideri e dei nostri corpi, quando ignoriamo come altri corpi e altri desideri vengano occupati, sfruttati o invisibilizzati. È una riflessione che è iniziata tempo fa, nel 2020, in piena pandemia, e riguarda anche l’industria della cultura, dell’arte e della moda, di cui in qualche modo sento di fare parte.
In particolare, nel novembre 2020 queste considerazioni sono state innescate dal Guccifest, un festival online di film e moda della durata di una settimana che ha raccolto figure provenienti da diversi ambiti. L’evento digitale è stato organizzato da Gucci intorno a una mini-serie, Ouverture of Something that Never Ended, ed è servito per presentare la nuova collezione del brand. Ciascun episodio della serie, diretta dal regista americano Gus Van Sant – noto per Elephant (2003), Paranoid Park (2007) e Milk (2008) –, ruota attorno alla figura della performer e attrice Silvia Calderoni, affiancata da personaggi del mondo dell’arte, della cultura e della musica pop, come il teorico e curatore transgender Paul B. Preciado, il cantante Harry Styles, le cantanti Billie Eilish e Florence Welsh, e il critico d’arte Achille Bonito Oliva. Oltre alla serie sono stati anche presentati cortometraggi, realizzati da quindici designer emergenti selezionati dal direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele. In un momento in cui gli eventi fisici erano impossibili da organizzare, Gucci si è presentata non solo come brand di moda e azienda creativa, ma anche come piattaforma per la creazione e divulgazione di contenuti e immaginari originali.
Tutti i soggetti sono identici nella loro diversità, gender questioning allo stesso modo, e vivono in un luogo ovattato in cui tutto quello che è non conforme è assente.
Guardando la serie, tuttavia, sono statə investitə da numerose sensazioni contrastanti. Il discorso è chiaro: la moda come de-costruzione dell’identità, del genere e della sessualità, la moda come esposizione della propria fluidità, come espressione del legame tra mente e corpo, come comunicazione dell’incomunicabilità stessa delle proprie sfumature identitarie. Tutto questo viene costruito e presentato all’interno di un mondo idealistico e nostalgico in cui tutti i soggetti sono identici nella loro diversità, gender questioning allo stesso modo, uniformi, e vivono in un luogo ovattato in cui tutto quello che è non conforme è assente. Nessuno dei temi è problematizzato, ma è reso nei suoi aspetti più positivi e utopici, inserito nella realtà dell’upper-class occidentale bianca e progressista, in cui la blackness è inclusa perché si conforma alle regole di questa realtà. Fuori rimane tutto il resto, tutto ciò che non è fluido a loro modo, androgino a loro modo: l’invito è assimilarsi all’estetica offerta dal brand. Mi ha ricordato l’utopia di Fredric Jameson in Il desiderio chiamato utopia (2007): “una specie di enclave, un’oasi territoriale immaginaria all’interno dello spazio sociale reale”, visto come un vortice o una turbolenza che spinge al continuo cambiamento e mutamento. La fantasia utopica è e opera in questo vuoto, in questa pausa del vortice che chiamiamo realtà e progresso. Ouverture of Something that Never Ended è l’utopia di Gucci che ferma il tempo a modo suo e mischia stili ed epoche, che libera il dibattito attuale della pesantezza del reale rendendolo naïve e piacevole. Parla di amore, di arte, di rivoluzioni dell’immaginario, ma per accedere a questa oasi bisogna assimilarsi, integrarsi nell’estetica, nel gusto e nelle idee che comunica. Tutto questo è al contempo invitante e spaventoso, rassicurante e inquietante. Va bene, stiamo parlando di una serie realizzata per presentare una nuova collezione, ma l’immaginario che costruisce e veicola è un ritratto culturale della contemporaneità e di come genere, sessualità e razza vengano uniformati e inseriti in una precisa idea di progresso che può essere portata avanti solo da una classe privilegiata di compratorз. E allora è davvero progresso? E allora dove può portare questo immaginario se non alla reiterazione dell’esclusione e alla ricostruzione dell’identità esclusiva che si vuole decostruire? In altre parole, quello che Gucci mette in scena è la privatizzazione di specifiche identità, desideri e utopie – e su questo torneremo.
Allo stesso tempo, con il Guccifest il brand Gucci diventa piattaforma per offrire visibilità e riconoscimento a designer emergenti, molti dei quali provenienti dal Sud globale. Se il festival di corti è stato il primo esperimento in questo senso, nel 2021 Gucci ha lanciato il suo concept-store online, Gucci Vault, dove è possibile acquistare sia capi vintage della casa di moda, sia le collezioni di marchi emergenti. Entrambi i casi offrono un esempio rilevante da cui partire per interrogarsi sulle relazioni di potere e quelle economiche che si instaurano tra un brand controllato da un gruppo multinazionale, Kering, e quelli emergenti e indipendenti, perché se da una parte la collaborazione offre opportunità, visibilità e posizionamento, dall’altra diventa nuovamente un modello privatizzante, in cui un soggetto/azienda privata decide quali brand/prodotti sono degni di far parte del mercato e quali no e di conseguenza quali hanno diritto a un futuro e quali no nel mondo costruito dall’azienda stessa. Proprio la comunicazione e l’immaginario del progetto rimandano all’idea di un luogo digitale esclusivo e quasi inaccessibile, ma fortemente desiderabile; invitano a entrare in un mondo libero, oltre ai confini dello spazio-tempo, da cui, una volta dentro, sembra difficile uscire: il metaverso di Gucci.
Twinsburg, è una città ideale, accessibile a pochз, in cui l’individualità e l’espressione del sé vengono assoggettate a un immaginario preconfezionato di libertà ed emancipazione.
A settembre 2022 Gucci propone la sua collezione primavera-estate 2023 con una sfilata di modellз gemellз, dove alcuni dei capi sono decorati con il logo del FUORI (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) – storicamente considerato il primo movimento di liberazione queer a stampo marxista in Italia, fondato nel 1972 e scioltosi nel 1982 – in un’appropriazione delle lotte degli anni Settanta. Questa volta l’immaginario di liberazione e autenticità è assoggettato al brand con un nuovo trucco, giocando sul doppio, sull’identico ma diverso, sull’autentico e la copia. A me fa pensare a una distopia progressista ed eugenetica in cui siamo liberз e diversз, ma ugualз e conformз, e soprattutto abilз, magrз, economicamente produttivз e vendibilз, molto bianchз, e alle volte nerз, in ogni caso tuttз identichз grazie a Gucci. Già dal titolo stesso della sfilata, Twinsburg, si rimanda ancora una volta a un altro mondo, a una città di gemellз identichз e diverse. Una città ideale, accessibile a pochз, in cui l’individualità e l’espressione del sé vengono assoggettate a un immaginario preconfezionato di libertà ed emancipazione. Volutamente distanti dalla realtà circostante, queste città-palcoscenico o mondi-privati che Gucci costruisce appaiono come ghetti dorati in cui un’élite economica e culturale si rifugia, illudendosi della propria liberazione attraverso l’appropriazione di simboli e immagini in chiave quasi nostalgica, estetizzata e svuotata di significati realmente politici e trasformativi. Mentre chi non può permettersi l’ingresso ha la sola possibilità di osservare distante, ammirare e ambire a entrare. Mi chiedo se una volta entratз ci si accorgerà che “le città del capitale sono il palcoscenico di un assurdo spettacolo” in cui “non esiste un senso né un’utilità umana… tanto più che questa recita è una tragicommedia noiosissima”, per usare le parole di Mario Mieli, scrittorə tra le persone fondatrici del FUORI. Questa sfilata, come la serie del 2020, generano, nellз spettatorз/consumatorз, non tanto il desiderio per il capo d’abbigliamento, quanto per l’accesso a questo mondo liberato e utopico. L’utopia diventa strumento biopolitico di controllo, privatizzata dall’autorità del brand, da un marchio che fattura miliardi e che creativamente ne vende le chiavi d’accesso.
Tutto questo mi fa pensare a Boaventura de Sousa Santos e alla sua teorizzazione del “fascismo sociale” che, in Epistemologie del Sud. Giustizia contro l’epistemicidio (2021), definisce come una forma di potere che “coesiste con la democrazia politica liberale. Piuttosto che sacrificare la democrazia alle richieste del capitalismo globale, la si rende insignificante e banale a tal punto che non è più necessario, o addirittura conveniente, sacrificare la democrazia per promuovere il capitalismo. Si tratta quindi di un fascismo pluralistico, cioè di una forma di fascismo che non è mai esistita”. Come si attua questo tipo di fascismo? Attraverso due processi, il primo con l’esclusione: le classi lavoratrici e popolari sono espulse dal contratto sociale attraverso l’eliminazione di diritti civili ed economici; il secondo con l’inaccessibilità: gruppi sociali non possono accedere alla cittadinanza politica, ed economica e sono costretti a vivere ai margini, a raccogliere le briciole e ad aspettare la benevolenza e l’assistenzialismo calati dall’alto. La sfilata e, più in generale, il modo in cui Gucci si propone sul mercato mi sembrano riflettere le parole di de Sousa Santos, mettendo in luce il funzionamento della società neoliberista stessa in cui il potere politico dei brand e delle multinazionali vale molto di più di quello pubblico e statale, basandosi non solo su esclusione e inaccessibilità, ma anche su autoritarismo e appropriazione, economici e culturali. Tutti elementi che convivono con ideali di emancipazione e libertà, così come “il fascismo sociale coesiste con la democrazia liberale, lo stato d’eccezione coesiste con la normalità costituzionale… e il dominio indiretto coesiste con quello legislativo”.
Gucci si appropria del FUORI e delle lotte froce – che erano anche lotte di classe – degli anni Settanta.
Nel caso specifico della sfilata del 2022, Gucci esercita il suo potere attraverso un immaginario che rimanda ad altro: libertà, inclusione, diversità e lotta di classe, perché utilizza e si appropria del FUORI, delle lotte froce – che erano anche lotte di classe – degli anni Settanta. Già nel 1977 Mario Mieli scriveva in Elementi di critica omosessuale: “per il sistema, liberalizzare significa soprattutto prevenire e impedire la liberazione vera. E la liberalizzazione dell’omosessualità, come ho già detto, è in primo luogo mercificazione, operata dal capitale – spesso attraverso il medium dell’espressione ‘artistica’ – nell’industria del ghetto, nell’industria cinematografica, editoriale, dell’abbigliamento: in una parola, nell’industria della moda”. In un’epoca di ipercapitalizzazione, non solo determinate lotte e soggettività sono mercificate, ma, nell’enorme massa di prodotti di una vetrina iperconnessa e digitale, hanno bisogno di emergere, di essere recepite dal vasto pubblico come desiderabili, in un processo di glamourizzazione e yassification – il termine deriva dall’espressione del linguaggio drag (“Yas queen!”) e indica la trasformazione costante mediante filtri digitali che alterano l’immagine e l’aspetto, rendendoli più assimilabili alle convenzioni estetiche del web. Svuotate, quindi, del loro significato politico, le lotte di liberazione devono diventare brand, slogan, loghi dai colori sgargianti e dalle grafiche accattivanti adatte ai meme, alle infografiche e alla condivisione sui social network. E il FUORI già nel 2021 ha subito la sua yassification con il progetto di NERO Publishing: un grande volume dalla copertina arancione che raccoglie i primi tredici numeri della rivista Fuori!, organo di stampa del Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano. Il librone, venduto a un costo ridotto grazie al sostegno di un altro brand di vestiti, Levi’s, è diventato in breve non solo un’interessante raccolta d’archivio resa accessibile e commercializzata al pubblico mainstream, ma un oggetto esteticamente accattivante al di là del suo stesso contenuto, al punto che Gucci nella sua nuova collezione ne riprende proprio i colori e la tipizzazione. Il FUORI si trasforma in un logo e una grafica customizzabili e adattabili, un ready-made per collaborazioni e appropriazioni svuotato del suo significato politico e di lotta in un interessante passaggio dal contenitore (il volume), che prevale sul contenuto, alla vetrina (il brand) che prevale sul contenitore e il contenuto stessi. Alla fine, a essere desiderabile non è più la lotta o il prodotto che la racconta, ma piuttosto la copertina, la vetrina che li trasforma e rivende. Questo perché il brand crea l’illusione di posizionarsi politicamente e di posizionare lз suз clientз e apprezzatorз che, non potendo permettersi il capo, possono comunque condividere le foto della sfilata o della collezione sui propri feed e partecipare a quell’immaginario.
Il brand crea l’illusione di posizionarsi politicamente e di posizionare lз suз clientз e apprezzatorз che, non potendo permettersi il capo, possono comunque condividere le foto della sfilata e partecipare a quell’immaginario.
I feed sui social media, d’altronde, sono il punto focale, non solo per Gucci, ma per l’industria della moda e per l’intero sistema turbocapitalista, basato su algoritmi e raccolta dati. Come viene mostrato e raccontato in Mission Accomplished: Belanciege – un’installazione video, realizzata nel 2019 dagli artisti visivi Giorgi Gago Gagoshidze, Hito Steyerl e Miloš Trakilović in cui vengono analizzati i cambiamenti politico-sociali degli ultimi trent’anni in Europa a partire dalle trasformazioni e appropriazioni del brand di moda Balenciaga – le nostre foto, storie, condivisioni e tiktok diventano container che raccolgono tracce invisibili di informazioni e dati, che vengono riutilizzati, mercificati, trasformati in prodotto, e introdotti nuovamente online come immagini digitali da ricondividere. I feed diventano dei template da cui attingere e appropriarsi a costo zero del lavoro creativo di utenti diversificatз per fasce di età, provenienza geografica, classe, genere e così via. In questo modo, l’industria della moda separa desideri e corpi dai vestiti stessi e li sposta in vetrina, nell’immaginario che ricrea grazie ai nostri feed. Alla fine, non importa più chi abbia postato o quando un contenuto sia diventato virale e appetibile, perché tutto è ripostabile, rivendibile, riconfigurabile e quindi privo di originalità, privo di significato, privo di un’origine stessa. In questo gioco si perde la differenza tra ciò che è pubblico e ciò che è privato o privatizzato, tra chi è utente, consumatorə, lavoratorə non pagatə della creatività digitale, e l’industria della moda stessa, che diventa a sua volta creator e piattaforma di contenuti. Hito Steyerl utilizza l’immagine del nastro di Möbius per spiegare questa contaminazione e l’impossibilità di individuarla all’interno del sistema capitalistico odierno, che si applica anche all’appropriazione del FUORI da parte di Gucci. Il brand si rivolge da una parte a consumatorз e utentз specifichз in grado di riconoscere non solo il movimento degli anni Settanta, ma anche il volume pubblicato da NERO; dall’altra a persone che vedono per la prima volta su una giacca o su una maglia quel logo che rimanda in qualche modo a un immaginario di liberazione. In entrambi i casi a essere centrali non sono più l’origine e il significato di quel logo, quanto l’immaginario o il mondo valoriale che Gucci comunica e di cui desideriamo far parte. La condivisione stessa nei nostri feed serve ad avvalorare, confermare e rendere pubblica questa appartenenza. Ma forse quest’immaginario è nato proprio da noi, utenti, consumatorз e veicolatorз di specifiche culture, storie e movimenti di cui Gucci utilizza l’immagine, l’involucro, la copertina, mettendole in vetrina e facendole proprie. Come un nastro di Möbius – dove è impossibile definire inizio e fine, interno ed esterno – diventa difficile comprendere chi abbia creato, sfruttato, condiviso o ricreato quell’immaginario, e per molte persone non ha più importanza.
Gucci mette in scena la rivoluzione contro il binarismo di genere e l’eterocispatriarcato, ma ciò che porta a compimento è il dominio biopolitico del desiderio da parte del capitale.
Gucci ha privatizzato temi, soggettività e immaginari per costruire la sua brand identity: è un processo in atto ormai da anni e in tutta l’industria della moda. Gucci, e non solo, si appropria, estetizza e privatizza temi come i diritti civili, la salute mentale – come ha fatto nel 2019 con la sfilata spring-summer 2020 –, le lotte froce e transfemministe ed elementi culturali riconducibili alla storia e all’iconografia queer, rendendoli esclusivi e vendibili. Nella serie del 2020, Gucci mette in scena l’utopia dei desideri dei corpi, della rivoluzione contro il binarismo di genere e l’eterocispatriarcato, ma in realtà quello che porta a compimento è il dominio biopolitico del desiderio da parte del capitale: quell’utopia è stata plasmata dalle storie di movimenti e lotte collettive, da ideali politici anti-sistema e anti-capitale, e Gucci se ne appropria per rivenderla svuotata del suo reale potere politico e rivoluzionario, disciplinando le connotazioni più radicali delle aspirazioni transfemministe e queer. Attraverso il lavoro non pagato di attivistз che hanno contribuito e contribuiscono alla storia dei movimenti, Gucci genera la sua utopia privatizzata, ben collocata a livello identitario.
In questo momento storico, identità e politiche identitarie sono strumenti centrali nella polarizzazione del dibattito pubblico e diverse aziende e brand se ne nutrono per posizionarsi sul mercato, costruire la loro immagine e trarre profitti. In Mission Accomplished: Belanciege Hito Steyerl si interroga proprio sulla questione: da una parte mantenere intatto il concetto di identità e identity politics serve come diversivo per distrarre e dividere in maniera illusoria, nascondendo lo sfruttamento capitalistico, l’aumento delle diseguaglianze sociali e il funzionamento del sistema stesso, proprio a partire dalla raccolta dei dati. Dall’altra l’identità diventa l’unica proprietà di chi non possiede nient’altro che il proprio corpo e i propri desideri, trasformandola in arma performativa di liberazione ed emancipazione. Tuttavia, il problema oggi è proprio definire i concetti stessi di libertà ed emancipazione, che, come molti altri, sono ormai svuotati di significato, parte di un vocabolario politico polarizzato, impiegati in battaglie culturali dai confini sfumati e labili, e infine resi estetizzabili, profittevoli e vendibili. Per Steyerl le identità non esistono realmente, ma sono i nostri corpi sotto un assedio costante da parte del capitalismo, di aziende online per la raccolta dati, di sistemi di cloud computing, di regimi turbocapitalisti transnazionali e di brand che diventano autorità disciplinari. I nostri corpi sono campi di battaglia da devastare, occupare e vendere al miglior offerente. Se alcuni di questi sono leggibili e considerati come profittevoli, hanno diritto alla visibilità, alla condivisione, all’esistenza, altrimenti, semplicemente non esistono. In fondo, quello che ci racconta Gucci nella sua serie del 2020 non è altro che un mondo utopico privatizzato in cui esistono solo i corpi brandizzati e selezionati dal marchio stesso.
Gucci ha bisogno di mantenere intatti le strutture di potere e lo status quo economico e culturale, e allo stesso tempo di appropriarsi di culture, immaginazioni, storie e soggettività e del flusso digitale di dati e informazioni per potersi alimentare.
Gucci ci propone i limiti della sua stessa immaginazione, perché ha bisogno di mantenere intatti le strutture di potere e lo status quo economico e culturale, e allo stesso tempo necessita di appropriarsi di culture, immaginazioni, storie e soggettività e del flusso digitale di dati e informazioni per potersi alimentare. C’è da chiedersi ancora per quanto. Questi meccanismi di conquista, appropriazione e sfruttamento non riguardano solo Gucci, ma sono una presenza costante nelle nostre vite e nei nostri corpi globalizzati e iperconnessi: dalla politica al mercato dell’arte e della cultura, dalla moda all’industria musicale, fino a quella televisiva e cinematografica. Tutto questo ci appare normalizzato e inevitabile, mentre continuiamo a ignorare coscientemente i pericoli di questo modello economico e di sorveglianza basato sulla raccolta dei dati. Si tratta di un sistema di dominio che si fonda sulla previsione di trend politici, culturali e sociali attraverso la raccolta di dati degli utenti provenienti dai social network e dal web: seguendo le conversazioni online, le immagini e i video postati e i loro flussi è possibile adattare la propria strategia politica e/o aziendale per catturare l’attenzione, generare profitti o consenso e allo stesso tempo manipolare l’informazione e i trend. È il sistema che ha permesso a Trump di essere eletto nel 2016, come ha rivelato l’informatico Cristopher Wylie, whistleblower nel 2018 dello scandalo di Cambridge Analytica, società che aveva raccolto illegalmente i dati personali di oltre 80 milioni di utenti Facebook, poi rivenduti per scopi di propaganda politica. È soprattutto un modello estrattivo e coloniale che permette di manipolare l’informazione, la cultura e le nostre stesse emozioni, al punto che non ci sembra possibile immaginare un’alternativa. Qual è la soluzione? Steyerl suggerisce di cambiare le regole del gioco finché si è in tempo, mentre Boaventura de Sousa Santos sostiene che “non c’è giustizia sociale globale senza giustizia cognitiva globale. Questo significa che il lavoro critico che ci attende non può limitarsi al generare alternative. In realtà, richiede un pensiero alternativo sulle alternative”. Forse allora sarebbe meglio far saltare l’intera scacchiera.