C he cos’è un classico nell’Italia che non legge? Somiglia molto al maglioncino infeltrito e ceruleo del “Diavolo veste Prada”: oramai reso tascabile, economico, accessibile a tutti con ennesime ristampe e riduzioni e versioni di tipo, ha perso la potenza dell’esordio unico e irripetibile, si affaccia liso al mondo. Forse perché un classico appartiene all’eldorado dei lettori forti di una volta e allora si pensa abbia avuto sempre vita facile. Un classico è una storia che viene dal passato, addirittura da prima della crisi dei lettori e delle librerie (quando ancora esisteva un’idea di catalogo e un editore come Einaudi pubblicava persino la Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata).
Ma il classico non è semplicemente classico come quel “maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, ma è effettivamente ceruleo”. Anche un classico può avere avuto un destino difficile e non scontato, pur essendo uscito armato di tutto punto come Minerva dalla testa di Giove. È successo a Se questo è un uomo di Primo Levi, uno dei grandi libri sull’esperienza della deportazione e della prigionia nei campi di sterminio, scritto da un ragazzo che alla maturità al liceo D’Azeglio era stato rimandato in italiano, un classico che quest’anno compie settant’anni e che ha avuto una vita editoriale avventurosa, e oggi trova la pace definitiva con la pubblicazione nelle Opere complete di Primo Levi, monumentale lavoro di curatela di Marco Belpoliti per Einaudi.
Tiratura
Ad aprile saranno trent’anni dalla morte di Primo Levi. Da molto tempo non è più l’autore di un libro solo, ma Se questo è un uomo rimane un’opera unica. Lo definiva “un libro di dimensioni modeste” ma anche “un animale nomade”, da cui tutta la sua produzione aveva preso piede e a cui continuamente ritornava. “Da quando Einaudi ha in catalogo Se questo è un uomo, cioè dal 1958 – racconta Oscar Perli della casa editrice – includendo tutte le edizioni, il venduto netto a fine 2016 è di circa 2.529.000 copie. La media negli ultimi dieci anni è di cinquantasettemila copie l’anno, prima della contrazione del 2011 se ne vendevano sessantaquattromila”. Da queste cifre rimane fuori l’incalcolabile – per ora – tiratura delle 26 edizioni di Einaudi Scuola (“Letture per la scuola media”, dal 1973 al 1989). Da ragazzo lo lessi in una edizione del catalogo per corrispondenza Euroclub. L’edizione per le scuole, quella bianca con le tre barre rosse scelte da Bruno Munari per contenere l’immagine di copertina, la si trova spesso nei mercatini. Ma non solo quella.
Giorni fa a Roma sono entrato nella libreria dell’usato Simon Tanner per mostrare ai due librai un falso, una copia pirata proprio del tascabile di Se questo è un uomo, una replica goffa e bizzarra, ridotta nelle dimensioni, col dorso azzurro e la carta grigia, dai caratteri minuscoli e la stampa simile a una fotocopia. Qualche truffatore l’aveva spacciata negli anni Novanta e gira ancora da quel dì. I librai mi hanno guardato come si rimprovera qualcuno che abbia voglia di scherzare mentre nell’aria c’è qualcosa di più serio. Sul bancone di legno, dove si valutano i libri e si commentano le scelte dei clienti, stava appoggiata la prima e molto rara edizione di Se questo è un uomo: quella scritta da un giovane chimico in stato di trance in soli dodici mesi, quella pubblicata non da Einaudi, che la rifiutò, ma da De Silva in 2500 copie nel 1947, poi svenduta per decenni come un banale libro usato, affogata negli scatoloni delle rese in un magazzino di Firenze nell’alluvione del 1966. Il classico dei classici della letteratura italiana moderna, il big bang del racconto sulla Shoah, un testo che vale da solo un pezzo di Novecento, un libro che ha sudato decenni per imporsi ed è finito clonato per troppo successo, era lì tra le mie mani.
Copertina
Come tutti i libri fatti con la carta di guerra l’edizione De Silva è molto fragile, la brossura è vulnerabile, la carta patinata della copertina è sottile, la pasta chimica invecchia facilmente. Rispetto alla solidità delle edizioni che verranno poi, gli indistruttibili coralli e supercoralli einaudiani, sembra un libro di paglia. La grafica scelta è essenziale: bianca con titolo minuscolo in rosso, la sovraccoperta porta un disegno di un uomo schiantato a terra, è un disegno preparatorio di Goya, un’immagine livida come molte altre copertine della memorialistica che verrà. La tiratura è nella media: “per il repertorio di Gambetti e Vezzosi si parla di 2500 copie pubblicate dalla Stamperia Artistica Nazionale, è il numero 3 delle collana dedicata a Leone Ginzburg” spiegano alla Simon Tanner. “Ha una quotazione alta per l’importanza del libro e la sua storia editoriale, ne esiste solo un’edizione che in origine doveva intitolarsi I Sommersi e i salvati, può arrivare a duemila euro se la sovraccoperta è in ottimo stato”. Costa insomma come il mio scooter. Ma poi è la libreria Pontremoli di Milano, a cui mi rivolgo per sapere altri dettagli del libro, a ricordarmi che “l’edizione De Silva ha valore solo negli ultimi 25 anni, prima non aveva quotazione, lo si vendeva come libro usato. I nostri primi cataloghi del Novecento italiano risalgono agli anni Ottanta, il mercato è ancora molto giovane. Ci sono aste straniere fuori da ogni logica. Certo, quando ci arriva una copia del libro è sempre una grande emozione”.
Quanti lettori hanno comprato questa edizione? “Non esistono stime di vendita” scrive Belpoliti in Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda), “si sa che venne letto poco fuori della cerchia torinese, le vendite non furono esaltanti ma inferiori alle attese di editore e autore”. Levi mangia la foglia, “scritto il primo libro ho chiuso la bottega dello scrittore” e si butta a lavorare come chimico, trova un posto stabile, si sposa, cerca uno standard di vita. È proprio la precarietà di questo libro a restituire il valore del legame tra l’ex deportato e scrittore Primo Levi e l’editore Franco Antonicelli, fondatore di De Silva, ex presidente del Cnel Piemonte e personalità dell’editoria italiana: come editor della Frassinelli ha fatto tradurre Moby Dick e Dedalus da Cesare Pavese, e poi ha introdotto Kafka e Isaak Babel. Entrambi erano stati arrestati grazie a una delazione: Levi in quanto partigiano, l’antifascista Frassinelli segnalato dallo scrittore Pitigrilli, spia dell’Ovra. Questo libro è anche un patto di fiducia tra due persone tradite dal vicino di casa e che in tempo di pace, anzi, di tregua, si ritrovano a raccontare l’orrore della Shoah da zero, senza quel dizionario della vergogna e quell’immaginario sull’Olocausto oggi acquisito e condiviso che è fatto di archivi fotografici, film, banche dati, mostre, musei, saggistica e romanzi.
Avventura
Cosa c’era prima di questa copia di Se questo è un uomo? Come si arriva al libro? Sono passati settant’anni ma la carambola della sua genesi è sempre sconvolgente. La sua pubblicazione ha qualcosa di avventuroso, di quell’avventura che sta nel coraggio dell’autore che fa come il Barone di Münchhausen, cavalca la propria palla di cannone e si tira fuori dalle paludi prendendosi per i capelli. Questo libro in carta di guerra poteva non essere mai scritto, o poteva andare perduto, inceppato dalla fatica del ritorno e dal terrore della rievocazione. Levi ha ventiquattro anni quando viene arrestato come partigiano. Non viene fucilato ma finisce a Fossoli, il campo di concentramento per gli ebrei. Nel febbraio 1944 viene spedito ad Auschwitz. Volontà, intelligenza, coincidenze, casualità, in una parola fortuna – in senso machiavellico – e ne esce vivo ad aprile 1945. Riesce a tornare a casa a ottobre, incolume, dopo una pericolosa odissea per Polonia, Bielorussia, Ucraina, Romania, Ungheria, Germania ed Austria. Dal giorno della sua cattura ad Aosta è passato un anno e nove mesi. Scrive ne La Tregua: “Avevamo resistito, dopo tutto: avevamo vinto. Dopo l’anno di lager, di pena e di pazienza; dopo l’ondata di morte seguita dalla liberazione; dopo il gelo e la fame e il disprezzo e la fiera compagnia del greco; dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; eravamo in risalita, in cammino verso casa”.
Levi era riuscito a mandare tre lettere dal campo di Monowitz a suo rischio. Aveva scritto altri appunti che non ha potuto conservare. Inizia allora al ritorno con i racconti orali ad amici e parenti. Rientrato a ottobre 1945 a casa, già a febbraio 1946 ha scritto 14 pagine di resoconto, ma non gli bastano. Entra in fabbrica a lavorare e scrive ancora nelle pause come il Faulkner di Mentre morivo. Scrive da pendolare sul treno che lo porta al lavoro, scrive brutte copie a mano, su fogli volanti, in stato di trance, senza esitazioni e senza ordine, poi riscrive a macchina. Non è un libro dettato, un resoconto stenografico: dietro le pagine consegnate a De Silva ci sono appunti, quaderni, dattiloscritti, copie differenti. Levi passa così tutto il 1946 a scrivere febbrilmente e questo carattere si mantiene nel libro: “I capitoli sono stati scritti non in successione logica ma per ordine di urgenza, il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano ed è posteriore” scrive Belpoliti. Riesce ad anticipare alcuni capitoli su L’Amico del Popolo, il settimanale della Federazione Comunista Vercellese ma “nessuno li ha visti mai” dicono da Pontremoli. L’anno dopo a ottobre pubblica quello che salvo alcune correzioni e integrazioni anche importanti è il testo che un qualsiasi ragazzo può leggere oggi. Un anno solo, incredibile.
Anticamere
Ogni scrittore vive di amori illeciti ed è complice delle follie altrui. Nel 1981, quando già Se questo è un uomo è diventato un classico, Primo Levi scrive ne “La ricerca delle radici” un elogio viscerale per Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Horcynus Orca è una sorta di monolite nero della letteratura italiana. Pubblicato nel 1975, l’autore ha speso vent’anni della sua vita per dedicarsi solo a questo libro, un testo di oltre mille e duecento esuberanti, tortuose e ripetitive pagine, senza poi mai finirlo tanto che gli venne sottratto a forza da Mondadori che aveva sostenuto D’Arrigo con assegni e tanta pazienza. Quale lusso inaccettabile poteva sembrare la morbosità e la fatica di D’Arrigo al reduce di Auschwitz smanioso di raccontare cos’era successo? Eppure era letteratura anche quella, necessaria come il coraggio, e Levi glielo riconosceva perché “era la passione per un folle autentico che ha il coraggio di esprimere fino in fondo la propria ramificata follia e che ha visto come lui la Gorgone in pieno viso”, così mi disse Domenico Scarpa in uno scambio di email post laurea. A ognuno la sua fucina: un anno contro venti.
Una manciata di recensioni, sparse nell’arco di un anno – Arrigo Cajumi sulla Stampa subito e Calvino solo nel 1948 le più convinte – e poi il libro di Antonicelli e Levi cade nel vuoto. Nell’archivio del Corriere della sera si trova una recensione datata agosto 1948, sopra il titolo sta scritto “Uno di Auschwitz racconta”. È una recensione garbata. Non ci sono infografiche ad accompagnarla, il testo su due colonne è dentro una pagina fitta dove la vita scorre via in altre faccende: strilloni di cronaca tipo “la bomba contro la madonna fu lanciata da comunisti”, “Adamo passeggia sul sagrato non potendo soffrire gli insetti” “belve confezionate giungono in europa, a saperli prendere anche i serpenti a sonagli non mostrano un brutto carattere”, “il ponte in ferro di Piacenza sarà pronto entro l’anno”, “cade tra la ressa in stazione ed è derubata di 40mila lire”, e poi pubblicità di panettoni, agenzie di viaggio aeree e lamette, annunci privati. Belpoliti ricorda che non esistono interviste di Levi negli anni Quaranta e Cinquanta. Levi affida la sua voce unicamente al libro ma la casa editrice chiude i battenti a febbraio 1949 e passa alla Nuova Italia, così anche le copie invendute di Se questo è un uomo.
Alluvione
La copia che ho avuto tra le mani è rara perché 1100 copie della tiratura (altri stimano almeno 500, altri 600) di Se questo è un uomo le cancella l’Arno, quando devasta il magazzino della Nuova Italia a via del Ghirlandaio durante l’alluvione del 1966. Ci sono finite perché De Silva ha venduto tutto da tempo, “è probabile che il libro considerato ormai vecchio e di poco conto sia stato svenduto negli anni a prezzi scontatissimi. Solo dopo la morte di Levi questo libro ha cambiato valutazione – mi racconta Massimo Gilbert della libreria antiquaria omonima di Torino – c’è anche chi ha provato a camuffare una fotocopia per la copertina e a venderla così. Difficile da trovare con la dedica, Levi aveva l’abitudine di firmare pochissimo”. Sulla pagina Facebook “Vecchia Firenze mia” c’è un archivio di foto dedicate all’alluvione: in una a colori di Antonio Panunzio una Lancia Flavia Berlina, scaraventata dalla furia dell’Arno sul muro dell’istituto salesiano di via del Ghirlandaio, è rimasta lì appoggiata in verticale. Il segno dell’acqua arriva fino a metà delle finestre del primo piano.
Giorgio Mosci, libraio della Coliseum di Roma, racconta: “ho visto molti libri alluvionati ma nessuno di Levi. L’editore Olschki ha tenuto per anni in catalogo libri alluvionati. Arrivavano un po’ contorti, macchiati, con la dicitura ‘alluvionati’. In alcuni casi hanno recuperato il recuperabile. Ma per un romanzo del dopoguerra, anzi un vecchio libro perché nel 1966 era già di Einaudi e quindi al 99% non poteva essere commercializzato più dalla Nuova Italia, non avrebbe avuto senso fare un investimento folle di recupero. Di fronte all’alluvione la cartaccia del libro e la pessima carta patinata della copertina ricca di gesso hanno capitolato”. Le casse affogate nell’acqua, le pagine ridotte in poltiglia. Quanta beffa, quanta frustrazione c’è in una storia del genere? L’alluvione del 1966 è forse l’unico capitolo non scritto che manca a “Se questo è un uomo” e che neanche il picaresco La tregua, sul ritorno a casa, avrebbe potuto immaginare.
Rifiuti
Ci vogliono undici anni dall’edizione Da Silva per convincere Einaudi a pubblicare Levi. Il primo rifiuto arriva nel 1947, per Levi forse si tratta di un “libro che guasta la festa” in un’Italia che fatica ancora a misurare le dimensioni e la specificità dello sterminio. Il paradosso è che nel 1954 Einaudi sceglie di pubblicare sul tema Il diario di Anna Frank ma soprattutto La specie umana di Robert Antelme, altro capolavoro sui Campi, che è stato pubblicato nel 1947 a proprie spese da Antelme fondando con la moglie Marguerite Duras una casa editrice fantasma, Les editions de la Cité Universelle, chiusa poco dopo. Sembra un destino rovesciato rispetto a Levi: Einaudi pubblica Antelme in Italia prima che lo faccia persino Gallimard nonostante Antelme ci lavori da anni come redattore scientifico. La specie umana è il primo e ultimo libro di Antelme. Scrive la Duras: “una volta finito il libro, stampato e uscito, non ha più parlato dei campi di concentramento tedeschi”. Levi invece avrà più tenacia e si rivelerà scrittore di molti libri e capolavori.
Nell’edizione Einaudi che verrà Levi cambia l’incipit, racconta l’arresto da partigiano e riassume così lo stato d’animo: “Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione”. Col dopoguerra almeno è finita la segregazione e i suoi divieti: “Fino a pochi anni prima – commenta Lucia Di Maio della Pontremoli – l’ebreo Bassani pubblicava il suo primo libro di racconti Città di pianura a proprie spese e alla macchia, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi a seguito della Commissione per la bonifica libraria istituita dal fascismo. Altro caso è quando Garzanti rileva il marchio della Treves, a seguito delle leggi razziali: tutto l’invenduto verrà ricopertinato, compresi i primi due libri di Buzzati”.
Einaudi
Nel 1947 Se questo è un uomo lo leggono Natalia Ginzburg (moglie di Leone Ginzburg, a cui De Silva dedicò la collana) e Cesare Pavese: non arriverà mai, però, sul tavolo delle riunioni. Lo dice Giulio Einaudi: “La ricerca del colpevole non ha senso, chiunque sia stato il lettore la responsabilità di non pubblicare il libro ricade in toto sulla casa editrice. L’importante è che l’oro non sia stato perduto. a pochi anni dalla prima edizione lo abbiamo ripubblicato noi, e da allora Levi è diventato una bandiera della casa” (la dichiarazione è presa da uno speciale dello Studio Oblique realizzato sul libro nel 2012 a cura di Manila Brandoni, Rossella Gaudenzi e Tiziana Sorrentino). Negli anni Levi inizia a collaborare con le edizioni scientifiche della casa torinese: traduzioni, revisioni, letture di bozze e pareri editoriali.
Nel 1952 viene fatta una proposta ufficiale: è proprio Giulio Einaudi a non convincersi. Nel 1955 si torna alla carica e in estate Levi firma finalmente il contratto per la riedizione del libro nella collana Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria. Addio all’edizione De Silva? Non ancora, per due motivi. Il primo è la crisi economica dell’Einaudi: i tagli rimandano la pubblicazione sino al 1958 quando uscirà nei saggi, quelli con la copertina rossa. La sovraccoperta la disegna Bruno Munari: in rilievo c’è uno steccato nero, dietro stanno delle tavole stilizzate coloratissime, grigio, arancione, rosso, blu. È una edizione relativamente più rara, ma meno ricercata, perché più riconosciuta e identificata. La tiratura è inferiore a De Silva, duemila copie. La cautela va a braccetto con la crisi: l’anticipo di soldi si trasforma in azioni societarie. Anche nella seconda tremenda crisi economica degli anni Ottanta Primo Levi sosterrà l’editore che ha corteggiato a lungo: per Se non ora quando? non percepirà anticipo (lo racconta Guido Davico Bonino in “Alfabeto Einaudi” per Garzanti).
Secondo il bibliofilo Giampiero Mughini, che sui libri rari ha scritto un gioiello come La collezione (Einaudi Stile Libero) e che sul libro di Levi è tornato anche in Una casa romana racconta (Bompiani), la tiratura di Se questo è un uomo – seppure in tempo di crisi – è “il segno tangibile di un’impotenza, di una sfiducia nel libro di Levi che continuava, all’Einaudi non pensavano di venderne di più”. Belpoliti puntualizza: “all’Archivio di Stato di Torino nella cartella della corrispondenza di Primo Levi ed Einaudi ci sono i resoconti delle vendite del libro uscito nel 1958: fu un successo immediato, ristampe fatte e rifatte e copie vendute”. Il passo resta lento, “comunque le copie fanno fatica ad esaurirsi” dice Mosci. La svolta sarà la vittoria al Campiello 1963 del secondo romanzo di Levi, La tregua. Dai Saggi, Se questo è un uomo passa nei più accessibili Coralli, nella letteratura. Ancora duemila copie di tiratura ma da qui inizia una vita nuova. Mentre scriverà altri grandi libri, Levi continuerà a seguire il suo esordio: curerà l’edizione per le scuole, che enorme fortuna porterà allo scrittore, e scriverà un’autointervista per rispondere alle tante domande dei ragazzi, che diventerà l’appendice naturale al testo.
Del resto, ed è per questo che ogni copia dell’edizione De Silva è un capolavoro di resistenza umana, quando Primo Levi firma nel 1955 il suo tanto atteso approdo a Einaudi, non manderà nessun dattiloscritto nuovo con correzioni e integrazioni. Come ricorda Belpoliti su moked.it, il portale dell’ebraismo italiano, Levi invia una copia personale dell’edizione De Silva, con dedica alla moglie, a cui acclude dei fogli dattiloscritti e delle striscioline di carta con le parti nuove. Lo fa perché quel libro di paglia rappresenta la certezza della boa che avvisa i naviganti nel mezzo del caos dell’esistenza, è il segno dell’impresa: essere riuscito a scrivere, dopo tutto, nonostante tutto. Settanta anni dopo, il chimico Primo Levi è l’unico autore italiano interamente tradotto in inglese, grazie ai tre volumi della Norton Liverlight.