E ddie James “Son” House Jr ha vissuto la sua vita all’insegna di grandi vizi e un’intensa fede cristiana. Quasi sempre contemporaneamente. Figura fondamentale per la storia del Delta blues – padrino del blues moderno e per estensione di tutti i generi da esso derivati –, House è uno dei pochi rappresentanti del blues delle origini ad essersi smarcato dallo status di leggenda intangibile, avvolta dai fumi di storie strampalate e incertezze biografiche. La sua storia si può mettere nero su bianco. Un’infanzia burrascosa in Mississippi, gli esordi da predicatore nella chiesa battista e poi la chiamata del blues; la carriera durante gli anni ’20 interrotta dal carcere per omicidio, l’oblio e la riscoperta della sua arte durante gli anni ’60, fino alla morte nel 1988. La vita di Son House è una perfetta parabola blues e un manifesto dell’importanza della religione – delle sue istituzioni e dei ruoli di riferimento – per la musica e la comunità afroamericana.
Per lo stereotipo, blues e religione non sono mai andati d’accordo. In particolare nel profondo sud degli Stati Uniti, nella zona del Delta del fiume Mississippi, considerato quasi all’unanimità il luogo d’incubazione del genere. È impossibile individuare il momento preciso in cui si sviluppò questo antagonismo, ma pare emergere fin da subito nella figura del bluesman all’inizio del novecento: un uomo afroamericano solitario, irrequieto, sempre in movimento. Compagni di viaggio solo una chitarra e un bagaglio di debolezze antologiche, donne e dipendenze. Il Mississippi è considerato tuttora un inferno razzista; la scrittrice afroamericana Jesmyn Ward ne ha descritto lucidamente le caratteristiche in un bell’articolo uscito per l’Atlantic, riassumibile nel titolo: Racism Is ‘Built into the Very Bones’ of Mississippi. Il razzismo è nelle ossa del Mississippi, insito da sempre nelle sue istituzioni e nella forma mentis degli abitanti. È da questo contesto di estrema oppressione e disperazione che si sviluppa il blues, l’humus in cui cresce. E nello stesso contesto, prima del blues e più o meno in concomitanza con la fine solo legislativa della schiavitù (il “Proclama di emancipazione” a firma di Abramo Lincoln risale al 1863), si fanno largo le congregazioni religiose afroamericane, soprattutto la battista e la metodista.
W.E.B. Du Bois è ancora oggi uno degli intellettuali afroamericani di riferimento. Il suo lavoro è imprescindibile soprattutto per la comprensione della fase di storia afroamericana che va dalla fine della schiavitù fino alla prima metà del novecento. Nella sua opera più importante, The Souls Of Black Folks (1903), interamente dedicata alla storia della condizione afroamericana nel sud degli Stati Uniti, concentra un intero capitolo a quella che definisce “la religione dei padri”: l’evoluzione della religione degli schiavi africani, dalle pratiche ancora strettamente legate ai culti originari del continente africano, all’incontro con la cristianità dei padroni bianchi. Il ruolo della religione cristiana è fondamentale per comprendere la psicologia che si cela dietro molti meccanismi dell’universo afroamericano. Scrive Du Bois “niente si adattava poi alla sua condizione [ndr. di schiavo] meglio delle dottrine di sottomissione passiva incarnate nella cristianità appena appresa”. Un ulteriore sistema di controllo insomma, incentivato proprio dagli stessi schiavisti, in gran parte fautori dell’indottrinamento: “il lungo sistema di repressione e degradazione del nero tendeva a enfatizzare quegli elementi nel suo carattere che lo rendevano un bene materiale di valore: la cortesia divenne umiltà, la forza morale degenerò in sottomissione, e l’innato, squisito amore del bello divenne un’infinita capacità di muta sofferenza”. Ancora più subdolamente, il messaggio cristiano di “giorno del giudizio”, una salvezza futura intangibile quanto certa attraverso la sofferenza terrena, divenne un degradato e narcotizzante “sogno confortante”. Come scrive Du Bois, questa prospettiva utile agli schiavisti si ritorse in parte contro gli stessi proprio durante gli anni del movimento abolizionista e della guerra civile americana. L’idea di salvezza finì infatti per sovrapporsi a quella di libertà, alimentando il fuoco degli attivisti e dei ribelli afroamericani, sostenendoli durante la durissima lotta per l’emancipazione.
Du Bois descrive il sentimento alla nascita del blues, una disperazione esistenziale così intensa da piegarsi su sé stessa e diventare beffa.
Il ruolo del predicatore venne conservato nella fase di cristianizzazione. Già a partire dalla vita nella piantagioni, si concretizzò come la prima figura di potere della storia afroamericana: “il predicatore nero si sollevò come un bardo, medico, giudice e prete, e sotto di lui si innalzò la prima istituzione afro-americana, la chiesa nera”. Un’altra caratteristica degna di nota è che “la chiesa nera precede la casa nera” manifestando l’importanza di una morale comunitaria, l’espressione e allo stesso tempo l’imposizione di un’interiorità comune affidata a un’istituzione che con il passare del tempo e delle generazioni diventa sempre più potente e ricca (per gli standard di una società oppressa), sempre più indissolubilmente intrecciata alla vita dei suoi adepti. Ma cosa succede quando viene conquistata la tanto agognata libertà, ormai sovrapposta a tutti i messaggi cristiani; cosa succede quando conquistandola ci si accorge che in realtà il regno dei cieli non è arrivato, le pene non sono finite, ma si è anzi solo all’inizio di un nuovo percorso ugualmente complesso, disperato e frustrante? “Conscio della sua impotenza e pessimista, egli stesso diventa amareggiato e vendicativo; e la sua religione più che un culto diviene una protesta e una maledizione, un lamento piuttosto che una speranza, un sogghigno piuttosto che una fede”. Insomma, diventa blues. Du Bois qui descriveva esattamente il sentimento alla nascita del blues, una disperazione esistenziale così intensa da piegarsi su sé stessa e diventare beffa: una presa in giro rivolta verso sé stessi, uno sguardo disincantato che diventa il velo di maya attraverso cui si filtra la realtà, i rapporti con la società, le persone, le istituzioni.
La si potrebbe considerare una degenerazione del sentimento religioso originario o più semplicemente una presa di coscienza razionale e terribile. Di certo c’è che nella chiesa afroamericana questo tipo di negatività distruttrice, nichilista, non poteva trovare spazio. Questa volta infatti a voler mantenere lo status quo non sono gli schiavisti bianchi, ma proprio i predicatori neri, che dopo decenni di umiliazioni e povertà hanno assaggiato benessere, influenza, potere – diventando a tutti gli effetti una casta, una classe sociale superiore rispetto all’individuo afroamericano comune. “Nella chiesa nera di oggi si può vedere riprodotto in un microcosmo tutto quel grande mondo da cui il nero è tagliato fuori a causa del pregiudizio razziale e della condizione sociale. […] L’attività di una chiesa come questa è immensa e di vasta portata e i vescovi che presiedono a questa organizzazione nel paese sono tra i più potenti governanti neri del mondo”. È forse qui che va ricercato il reale motivo dell’antagonismo della maggior parte della comunità afroamericana nei confronti del blues: un genere portatore di caos, di uno stile di vita che scardinava a colpi di note crude le strettissime maglie della morale della comunità, facente capo alle congregazioni e ai loro leader, destinatari di energie e finanze.
Son House nasce nei primissimi anni del novecento, nel momento in cui sentimento religioso e chiesa afroamericana si trovano in questa fase intermedia: un conflitto interno ed esterno, l’emorragia di una ferita esposta e profonda. La sua è una famiglia instabile. Come riporta il suo biografo più preciso, lo storico Daniel Beaumont, è lo stesso House che nelle sue testimonianze fa emergere da subito l’antagonismo precoce tra musica blues e religione – nella figura di suo padre, un musicista e alcolista che in seguito a una crisi mistica provò a vivere una vita cristiana. House s’iniziò alla carriera di predicatore a soli quindici anni, animato da una fede sincera e in una fase della sua vita in cui solo l’evocazione del blues – musica, stile di vita dei suoi interpreti – lo disgustava. Negli anni seguenti si spostò di città in città, si sposò e abbandonò sua moglie poco dopo, a causa di un genero che lo costringeva a lavorare a ritmi massacranti. Il lavoro manuale sfiancante è una costante della vita di House, un incubo che lo insegue dalla nascita: erano gli unici lavori a cui un giovane afroamericano potesse aspirare per sopravvivere. Non vedendo altre vie di uscita, visse lo stesso mutamento di sentimento religioso descritto da Du Bois: la sincerità iniziale venne affiancata dal calcolo razionale circa le sue possibilità. Come racconta Beaumont infatti, “il predicatore nero era il solo uomo nell’universo del giovane Son House che avesse qualche possibilità di sfuggire alle brutali condizioni del lavoro rurale del Sud”.
“Non posso tenere Dio in una mano ed il Diavolo nell’altra. I due non vanno d’accordo. Così ho abbandonato il pulpito”. Abbracciò una chitarra: per la società dell’epoca, l’equivalente del passaggio da chierichetto a ladro di offerte dei fedeli. Non è chiaro come o quando House abbia imparato a suonare, ma sappiamo che ad allontanarlo dal pulpito (dal miglior lavoro a cui potesse aspirare) fu il senso di colpa dovuto all’alcolismo. Per soddisfarlo si ritrovò sempre più spesso nei juke joint, i “locali” gestiti da afroamericani per gli afroamericani, dove regnava la promiscuità, si suonava blues e si beveva tutta la notte. Luoghi intrisi della vitalità intensa che l’oppressione razziale cercava in tutti i modi di reprimere, cancellare dalla comunità afroamericana. Il matrimonio con la musica blues era quasi obbligato. Pare che House sia stato definitivamente conquistato dalla “musica del diavolo” dopo aver ascoltato un chitarrista utilizzare la tecnica bottleneck, che prevede che si faccia scorrere un collo di bottiglia rotto sulle corde invece di premerle con i polpastrelli lungo la tastiera, liberando il suono della chitarra dalla precisione delle note discrete per permetterle di doppiare i lamenti vocali del performer. La sua tecnica autodidatta si sviluppò presto, fino a diventare un punto di riferimento per tutti i musicisti del Delta, contemporanei e non – qualche anno dopo Muddy Waters, la prima star del blues, indicò in House la sua principale fonte di ispirazione. Son House non suona la chitarra, la picchia: si abbatte senza pietà sulle corde dello strumento percuotendole con un’insistenza diabolica, come a volerne estorcere una confessione; sembra voler far scontare all’oggetto inanimato il senso di colpa per averlo imbracciato. È come se nei ripetitivi ritmi creati riuscissimo a sentire il ritmo degli strumenti di lavoro che tenevano il tempo delle “work songs” da cui il blues si origina. Come dice Beaumont: “House aveva perso la religione. Adesso aveva l’arte. Lo strano suono della chitarra bottleneck che lo aveva catturato era il cigolio di una porta che si apriva, ma anche di una che contemporaneamente si chiudeva”.
In realtà non abbandonò mai il sentimento religioso che, anzi, rimane la propulsione di ogni sua registrazione ed esibizione. A testimoniarlo ci sono i testi di molti suoi brani, su tutti “Preachin The Blues”, che riesce a racchiudere tanto la sua lotta intestina quanto quella esterna, le condizioni socio-economiche che lo hanno portato a fare determinate scelte. La voce, ancor più della chitarra, è testimone della sua originaria lontananza dal genere: è uno stile “predicatore”, un timbro potente unito ad un’estensione notevole – più vicino all’ancora inesistente gospel. Percepiamo una costante nota morale, come la voce di un genitore severo e spaventato che rimprovera il figlio, mosso dalla terrorizzata consapevolezza di chi quegli errori li ha già commessi tutti.
Yes, I’m gonna get me religion
I’m gonna join the Baptist Church
You know I wanna be a Baptist preacher
Just so I won’t have to work […]
I was in the pulpit, I’s jumpin’ up and down
My sisters in the corner, they’re hollerin’ Alabama bound
Grabbed up my suitcase and I took off down the road
I said, “Farewell church, may the good Lord bless your soul”
You know I wish I had a heaven of my own
I’d give all my women a good ole happy home
I’m gonna preach these blues
And I’m gonna choose my seat and sit down
I’m gonna preach these blues
È come se House, per permettersi di suonare blues, avesse dovuto impregnare la musica di messaggi cristiani, da predicatore. Un blues privo di significato non gli interessava. Un patto con il diavolo per diffondere un messaggio religioso, anche se l’ascoltatore non ha bisogno di essere cristiano o credente per identificarcisi. Basta avere, in egual misura, una profonda disperazione interiore e un’immotivata, quasi ottusa, scintilla di speranza nel futuro – quella incarnata ad esempio dai juke joint.
L’importanza della figura simbolica del predicatore e la continua sovrapposizione di ruoli spesso in aperta antitesi tra loro (performer e predicatore; musicista famoso e figura di riferimento per la comunità; uomo di religione e primo tra i peccatori) è una costante della musica afroamericana, e arriva fino ai giorni nostri. Basti pensare al ruolo dei rapper afroamericani provenienti da zone “difficili”: il mito del self-made man americano si sovrappone alla necessità di dare speranza a una comunità che sprofonda nell’iniquità socio-economica e soprattutto razziale. Basti pensare all’impressionante mobilitazione dopo la morte precoce (per assassinio) di Nipsey Hussle – rapper di Crenshaw, uno dei distretti periferici di Los Angeles dominato dalle gang. Hussle faceva dell’attivismo nella sua comunità una cifra distintiva, impegnandosi soprattutto per il diritto all’educazione e contro la cultura delle gang di strada, attingendo alla sua esperienza personale fino a diventare a tutti gli effetti un punto di riferimento imprescindibile. Le immagini dei suoi funerali, con fiumi di persone riversatesi per giorni per le strade, raccontano l’addio a una figura che aveva oltrepassato la sfera dell’influenza musicale. C’è poi il caso più eclatante, quello di Kanye West e dei suoi “Sunday Service”. Un progetto musico-religioso che vede Kanye indossare esplicitamente i panni di un predicatore 3.0: circondato da musicisti vestiti come in un coro, in location studiate nei minimi dettagli, West è al centro della scena – catalizzatore, mittente e destinatario – e dirige l’energia della performance. Prendendo spunto dalla figura di West, si potrebbe ipotizzare una terza degenerazione di quel sentimento religioso originario descritto da Du Bois. Quest’ultima causata dal sistema iper-capitalistico contemporaneo e dal rapporto ai limiti dello sfruttamento che l’industria musicale intrattiene spesso con gli artisti afroamericani. Una degenerazione per cui quella stessa forma di potere, di carisma, detenuta un tempo dal predicatore nero, viene proiettata sulle star contemporanee, diventando uno strumento per aumentare le vendite; facendo leva su quello stesso meccanismo psicologico comunitario di antagonismo, da “fuori o dentro” il cerchio. Sfruttato per far comprare biglietti, dischi, merchandising di ogni tipo, forma e contenuto. I cui proventi vengono, qui la differenza fondamentale, non direttamente sfruttati dal predicatore/artista.
C’è una scena, nel documentario It Might Get Loud, in cui Jack White (famoso per essere stato il cuore del duo The White Stripes, e per l’approccio da collezionista di tradizioni musicali) fa suonare su un giradischi uno dei brani più famosi di Son House, “Grinnin’ in Your Face”. Grinnin’ è un dialettalismo difficile da tradurre, un “ghignare” con una sfumatura aggressiva, minacciosa – il romanesco “imbruttire” gli si avvicina molto. Il brano consiste nella sola voce di House, che si accompagna con l’esclusivo battere delle mani, fuori tempo; il testo manifesta il sentimento universale e atemporale della difficoltà di trovare persone di cui fidarsi, amici sinceri. Tutti ti parlano dietro, tutti ti giudicheranno prima o poi (“Just bear this in mind, a true friend is hard to find / Don’t you mind people grinnin’ in your face”). Mentre ascolta con lo sguardo serioso perso nel vuoto, la voce di White racconta di come quel pezzo per lui abbia “significato tutto. Un uomo contro il mondo, in una canzone. È il mio brano preferito”. Non è mai stata “solo” musica. Il filo conduttore, dal 1920 al 2020 è la comunità: il rapporto dell’autore con essa e il mondo che lo circonda. Sia quando la comunità è protagonista per antagonismo, come in questo brano di Son House; quando è sfruttata, repressa, ignorata; oppure quando il sentimento comunitario si eleva una forma artistica, diventando co-autore insieme al performer. Il blues di Son House, animato dai suoi demoni personali e dallo stile predicatore, rimane ancora oggi anello di congiunzione tra le grida ancestrali delle donne e degli uomini afroamericani nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti e il blues elettrico moderno di Chicago e alla rivoluzione musicale che innescò; arriva fino all’ascesa contemporanea di leader afroamericani attraverso la carriera musicale e s’infonde nella storia dell’oppressione razziale e dell’influenza religiosa sull’arte afroamericana.