A trentacinque anni dai loro esordi, Flavia Mastrella e Antonio Rezza continuano a girare l’Italia portando in scena i loro spettacoli, i più antichi e i più nuovi. L’ultima edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, lo scorso luglio, ha visto la prima di HỲBRIS, la nuova fatica del duo. Oltre alle sperimentazioni di habitat e di allestimento, concepite da Mastrella e poi invase e modellate dal caos combinatorio di Rezza, oltre agli zompi di questi (che all’improvviso, dopo vari incontri dal vivo, mi ricordano qualcosa di ovvio: i salti felini e le coreografie disegnate da Pazienza), sulla scena si accompagnano i performer Manolo Muoio, Chiara Perrini e Enzo Di Norscia (che hanno debuttato con RezzaMastrella ai tempi di Anelante), Antonella Rizzo e Daniele Cavaioli (alla prima esperienza), e la stupefacente Maria Grazia Sughi (“che ha lavorato con Strehler e tanti altri, un pezzo di storia del teatro che cammina”). Tra i protagonisti poi, come sempre, Ivan Bellavista: è entrato negli spettacoli di Rezza e Mastrella quasi quindici anni fa, e da lì è stato impiegato in tutte le loro produzioni teatrali. “Con Ivan dopo Fratto X abbiamo esaurito tutte le possibilità del rapporto a due”, mi dice Rezza, “quello che abbiamo fatto lì è insuperabile”.
Rispetto all’ultima intervista sul Tascabile, del 2017, è successo che il comune di Nettuno vi ha sfrattati dal laboratorio dove per più di trent’anni avete concepito i vostri spettacoli. Come ha influito sul vostro lavoro? Dove lavorate adesso?
Antonio Rezza: Quello innanzitutto era un luogo votivo. Perché non è che manchino le disponibilità, le possibilità di comprare un altro spazio, un capannone, adibirlo a teatro… Era uno spazio votivo, è come non avere un braccio. Io ci stavo da quando ho 18 anni. È dove sono nati tutti gli spettacoli, quello che è successo è grave per l’importanza propiziatoria che aveva quello spazio.
Flavia Mastrella: Ho costruito tutti gli allestimenti in base a quello spazio, gli habitat sono nati dall’influenza di quella stanza; io sento molto l’energia del luogo, e non troverò più un posto come la divina. Quel luogo sprigionava un’energia magica, era un non luogo.
AR: Ci hanno chiesto di essere ospitati in tutta Italia, Napoli, Urbino, Bari, Milano… Abbiamo un comune ipercommissariato, vi sono infiltrazioni mafiose, della ‘ndrangheta, è normale sia andata così. Io non me ne ero mai accorto perché facevo spola da casa mia alla Divina Provvidenza e non avevo scambi sociali sul territorio. E poi eravamo sempre in giro con gli spettacoli. Quando mi hanno mi hanno cacciato da lì mi sono accorto di dove abitavo, e non me ne sono accorto a vent’anni, me ne sono accorto a cinquantadue. Quindi dico… ma dove ho vissuto? È venuto a mancare un elemento, appunto, che determinava la mia estraneità al territorio.
FM: C’è da dire che si sono attivati nel momento in cui si è cercato di far frequentare quel luogo dalla popolazione, perché comunque dove c’è la mafia ci deve essere ignoranza. Stiamo cadendo nel baratro, ma questo vale per tutta l’Italia, il malaffare è dappertutto.
HỲBRIS è nato quindi in uno spazio nuovo, o è l’ultimo spettacolo nato alla Divina Provvidenza?
AR: Abbiamo provato per due anni nello spazio vecchio questa cosa della porta [al centro di HỲBRIS c’è lo scatto di una porta che separa il dentro dal fuori, ndA] prima di trasferirci in uno spazio più piccolo sotto casa di Flavia, che però ha modificato completamente la percezione del lavoro, perché sembrava che tutto andasse bene, perché la porta non dovevo nemmeno spostarla nello spazio, lì è lo spazio che ci avvolge. Poi, chiaramente, lavorando in uno spazio più grande escono i limiti perché lo spazio mangia il movimento. Poi a San Simone, qui a Spoleto, lo spazio era più piccolo di dove abbiamo provato, quindi è diverso… lo spettacolo è venuto bello e diverso, deve solo essere automatizzato perfettamente.
Ma San Simone era più piccolo di dove avete provato? Lo avete provato in un hangar?
AR: San Simone è piccolo!
FM: Lo spazio prima era piccolo e poi è diventato enorme, era una serra, una serra per gli alberi penso, perché era gigantesca. Ora a San Simone è di nuovo piccolo. Ma la caratteristica di questo lavoro è la difficoltà.
AR: Questo spazio si chiama Lilliput, è a Nettuno, e ci è stato molto utile.
Altra novità di questi ultimi anni: il Leone d’Oro alla carriera. È cambiato qualcosa per voi? Cosa significa quel premio?
AR: No, non è cambiato niente.
FM: Siamo gli unici per cui non è cambiato niente dopo il Leone d’Oro. Lì per me è stato ancora più amaro vedere che c’è qualcosa che non va nella cultura italiana; durante il festival sono stata pervasa da un senso di solitudine, c’è proprio qualcosa che non funziona. Siamo tra i pochi italiani che hanno vinto il Leone d’Oro. Chi si occupa di cultura lo fa in modo troppo superficiale, manca il coraggio, ci sono troppi pregiudizi.
AR: È uno dei peggiori paesi dove lavorare. Però chiaramente la velocità che ti dà la lingua che conosci non te la dà una lingua straniera. Quindi tentare un espatrio adesso, quando dovevamo farlo a vent’anni… L’unico rammarico è non essere andati via – lo dico con lucidità. Però chiaramente a vent’anni stai cercando di capire meglio chi sei, quello che fai. Insomma, bisognerebbe essere schizofrenici per prendere consapevolezza di quello che sei quando non sai nemmeno quello che fai. A chi comincia adesso dico “andate via senza sapere chi siete”.
FM: Io non penso che i giovani debbano andare via, la materia umana italiana è talmente varia e interessante che basta guardarsi intorno per organizzare una drammaturgia, è davvero sorprendente la varietà culturale che abbiamo in Italia e la varietà di opinioni che esiste nonostante il prodigioso indottrinamento mediatico. Bisogna restare in Italia e viaggiare e lavorare nel mondo, restare e cercare di combattere per una cultura più evoluta, combattere l’analfabetizzazione.
Avete mai lavorato pensando di fare qualcosa che, già a priori, potesse essere traducibile?
AR: Abbiamo fatto degli spettacoli in Russia tradotti simultaneamente, perché loro non usano i sottotitoli, siamo stati a New York con uno spettacolo con delle parti in inglese e il resto sottotitolato, a Madrid con Pitecus tradotto tutto in spagnolo, funziona come qui, a Parigi con 7-14-21-28 un po’ in francese… e poi Io tradotto in inglese è molto shakespeariano.
FM: Beh, lo spettacolo Io in inglese sembra proprio Shakespeare [ride]. I nostri lavori hanno anche un linguaggio visivo evoluto, internazionale.
AR: Il discorso è questo: essendo fuori da un meccanismo di sovvenzioni ministeriali tutte le volte che siamo andati all’estero, e ci siamo sempre riusciti, l’azione è partita da uno sforzo nostro, a New York per dire ci ha aiutato il Teatro Vascello. Se non sottostai a una legge di sovvenzione lo Stato italiano non ti aiuta a uscire come meriteresti.
FM: Il problema è che la cultura italiana da esportare deve essere inoffensiva, è obbligatorio un certo tipo di gestualità primitiva affiancata a problemi arcaici. Non ci danno la possibilità di avere un’avanguardia. Se si emigra in Germania, in Inghilterra, in America, da lì si può diventare italiano di avanguardia, come ha fatto Maurizio Cattelan; ma dall’Italia non lo puoi fare.
La questione mi sembra dipendere anche da fattori strutturali, economici e politici; rispetto ad altri Paesi siamo costretti a un ruolo ancillare, periferico.
FM: Combattere questo sistema è il compito di tutti in questo momento, non dobbiamo sottostare alle decisioni della cabina di regia del governo che ci sta rubando anche la funzione dello spettacolo.
AR: Questo è un paese profondamente di destra. Nasce di destra, già a sinistra. L’errore che fa la destra? Far finta che non sia già al potere. La destra sarà sempre al potere perché è rappresentata ancora in modo più radicale da questa falsa mentalità sinistrata. In questi due anni sono stati fatti degli scempi, se pensiamo come ci si comportava nei confronti di chi non si adeguava a certe regole coercitive con un approccio razzista, gerarchico. Però se c’è una cosa che non riesco a capire è perché questa destra, che chiaramente è la cosa che più aborrisco, non riesca a conquistare anche il Ministero della Cultura. Se c’è una cosa che più detesto è la mentalità di destra che si basa su dei preconcetti di meritocrazia fisica, di provenienza, ma anche preconcetti intellettuali, teorici… “Se vali più di un altro lo devi dimostrare”. Le basi della destra stanno proprio qui. Però non lo so se una destra così razzista potrebbe fare peggio di quello che sta facendo una certa falsa sinistra, detenendo un ministero come quello della bellezza, della propagazione, delle idee innovative. Quindi io auguro alla destra, con tutto il disprezzo che ho, di conquistare tutto.
FM: In questo momento non esiste più destra né sinistra. Il consumismo ha inquinato ogni concetto, siamo clienti in mano all’economia, al malaffare che è dappertutto. Vengono imposti modelli di vita e di lavoro deleteri, e soprattutto si spingono i giovani all’analfabetismo.
AR: Chiunque toglie libertà al prossimo è di destra, secondo me. La dinamica di approccio a uno spettacolo è la stessa rispetto all’approccio a Dio; chi crede in Dio può manifestare, esprimersi. La messa si svolge come si svolge uno spettacolo, la gente si siede, è questa la situazione. Non è stato detto nulla sul fatto che i teatri e i cinema siano stati svuotati perché non meritavano di essere affollati come le chiese. Questa non è tradizione, e se è una tradizione è vergognosa. Perché è accaduto tutto ciò? Perché i teatri sono stati pagati da un ministero che ha comprato il loro silenzio.
I vostri spettacoli lottano con questioni eterne, la famiglia, il sesso, la morte. La cosiddetta attualità non ha mai trovato spazio. Di fronte a un problema così ubiquo come la pandemia, con ripercussioni anche gravi sulla vostra attività, avete tentennato?
FM: L’attualità nei nostri lavori entra attraverso i canali ufficiali dell’informazione, si esprime con le parole, la forma, il movimento, il colore. L’immagine e il movimento delineano il concetto universale che poi raggiunge la completezza nella fantasia dello spettatore. Nei nostri lavori abbiamo raccontato la realtà di questi ultimi decenni, indirettamente certo, senza riferimenti al momento storico. HỲBRIS parla della sensazione che abbiamo provato durante la pandemia, senza nominarla: noi non nominiamo l’oggetto, nominiamo la sensazione, le emozioni che provoca l’accadimento su una persona sensibile.
AR: Il gioco della porta, che stabilisce chi sta dentro e chi sta fuori, è nato involontariamente già prima della pandemia.
FM: La porta nasce prima della pandemia, quando nell’aria c’era già questo senso di oppressione del libero pensiero. La porta apre sul nulla e chiude sul nulla, ha perso il suo significato: ma l’uomo che non sta al passo coi tempi la usa come è abituato a fare.
AR: Per quanto mi riguarda, tornando alla pandemia, ricordiamoci che lo Stato in questi anni ha negato l’esistenza della cultura. E adesso c’è chi crea spettacoli con i soldi dello stesso Stato che ha negato l’esistenza della cultura in un paese che vive sulla cultura del passato, sui geni del passato. Chi fa questo deve sentirsi un miserabile. Io posso dirti che, fino a dover lasciare il mio lavoro, se fosse andato avanti questo obbligo vaccinale e io non avessi potuto esprimermi, posso dirti con lucidità che avrei abbandonato quello che faccio.
Negli ultimi due anni (che temo verranno dimenticati presto) spesso il rispetto per le opinioni divergenti è saltato del tutto, è mancato un riconoscimento pacifico delle differenze.
AR: È uscito fuori quello che è l’essere umano. L’ultima volta al Piccolo di Milano c’erano 1200 persone: durante l’apoteosi e l’applauso finale io ho detto “tutto ciò senza vaccino!” e l’applauso si è abbassato istantaneamente. Ho chiesto se avessi detto qualcosa di offensivo, e l’applauso si è rialzato subito. Tra le persone che ti amano c’è chi ha fatto giustizia sul tuo corpo.
FM: Non è solo negli ultimi anni che si sta tra simili, tutti con la stessa idea; l’appiattimento delle opinioni è in corso da diverso tempo. Io e Antonio siamo due persone che agiscono e pensano in modo diverso, e nella creazione delle nostre opere questa diversità crea ricchezza di contenuti. Da sempre questo aspetto non è molto considerato.
Su cosa avete lavorato, negli ultimi anni?
FM: Abbiamo lavorato tantissimo. Al chiuso, ovviamente. Abbiamo finito HỲBRIS, concepito Amistade, la contaminazione di Fratto_X con il lavoro di Fabrizio De André attraverso video e parole, abbiamo finito Samp, il film on the road (2002 2014), Antonio ha lavorato al film Il Cristo in gola, a Encefalon – Le carte da giogo, Groppo e Galoppo: Il Pianto Del Centauro (videoinstallazione sonora). Io ho lavorato a La Legge (video-lettura della Costituzione italiana recitata dagli animali con la voce del padrone), a EXPLò – scultura da asporto e a Euforia Carogna, l’esposizione per Spoleto. Insomma, abbiamo fatto quello che ci passava per la testa.
Parliamo di Samp, ricordo l’atmosfera della prima al cinema Beltrade, il cinema come macchina del tempo. Cosa significa lavorare a un progetto che era fermo da vent’anni? È stato straniante?
FM: No, non direi, per me il tempo non esiste proprio. Poi il lavoro ha una freschezza particolare, è ancora d’attualità nella problematica e nel modo di trattare l’immagine.
AR: Il cinema è diverso dal teatro, è meno libero. Quindi abbiamo deciso di fare il teatro, continuare a girare e montare film e non farli uscire.
FM: L’ambiente cinema, è più difficile. Lo strumento cinema invece è il massimo. È eterno.
Infatti in Samp ti sei rivisto vent’anni più giovane. Hai visto qualcosa di diverso nel modo in cui ti muovi, o parli? C’è qualcosa che ti è tornato in mente riguardandoti?
AR: Mi alleno, ancora ce la faccio, è chiaro che il crollo è più vicino rispetto a vent’anni fa. Non sento dei cambiamenti, ecco magari ci metto un po’ di più a recuperare gli sforzi, però mi alleno molto più adesso che prima. Non vedo grandi differenze. Ho dei capelli in meno, rispetto alla chioma che c’era, ma nient’altro.
L’altra sera alla prima pensavo che probabilmente sei l’estraneo che ho visto più volte nudo quest’anno. Perché questo ricorso alla nudità, è solo un gioco? Il corpo come strumento neutro che può piegarsi insieme al tragico e al comico?
AR Il nudo è un gioco. E quando inizia il gioco, non finisce più.
Perché HỲBRIS? Avevate altri titoli in mente? Per voi la ricerca dei titoli è qualcosa di paralizzante o vi diverte?
FM: Direi che ci divertiamo. Questo titolo ha una storia, era proprio la sera della prima di Samp al Beltrade, stavamo fuori a chiacchierare con Monica Naldi, che dirige il cinema con Paola, e parlavamo di questo titolo. Le spiegavamo che ci serviva un titolo che rispecchiasse lo strapotere dei social, questa situazione di totale caos politico che viviamo. Lei è anche una linguista, e insomma ci ha proposto delle parole tra cui HỲBRIS, che ci è piaciuto molto. Le avevo detto che doveva racchiudere anche lo strapotere di questi influencer; poteva andare anche Influencer come titolo, però era troppo diffuso.
Furbo?
FM: Ecco, ci voleva qualcosa che desse l’idea di quel tipo di essere che sfida tracotante l’altro. È proprio quello che ci sembra succedere adesso, c’è un allontanamento dalla natura, dall’umanità, oggi ci vogliono soldatini.
AR: Che speranze abbiamo di fare qualcosa? Cioè per noi sì, c’è la speranza di fare qualcosa. Poi se tutta l’umanità in qualche modo non morirà, ci sarà chi porterà il lavoro nostro in giro per il mondo. Se è sopravvissuto Shakespeare perché non dobbiamo sopravvivere noi? Portiamo in scena spettacoli di trent’anni fa senza che abbiano perso un minimo di grinta e di contemporaneità.
Influencer come titolo non mi piaceva perché queste persone vanno abbattute. Come fai a fare un lavoro che si basa sulla capacità di far fare ad altri quello che fai tu? Vuol dire che ammetti di avere a che fare con delle persone inferiori. Io non voglio avere a che fare con persone inferiori; se uno fa quello che gli suggerisco, mi è inferiore. Di conseguenza l’influencer guadagna in modo infame. Perché? C’è un rapporto talmente impari che genera ignoranza, e genera profitto e ricchezza nelle tasche di chi tratta l’altro come fosse il nulla.
In HỲBRIS si ritrova questo aspetto di comando, dittatoriale…
AR: Sì, com’è che si dice.. la circonvenzione di incapace. L’influencer è uno che fa circonvenzione di incapace. Gli influencer andrebbero arrestati, denunciati, e invece diventano dei fari di costume. Ma è evidente che siamo in pieno reato.
FM: Tutto questo serve al potere per educare l’attenzione. Una volta che si è consolidata l’attenzione in una certa direzione, cambia l’uso del gesto: l’influencer vessillo dell’inutile diventa oggetto politico.
AR: E poi questi seguaci possono essere anche violenti. Se non tu non parli il linguaggio possono diventare veramente persone aggressive. Durante la pandemia abbiamo fatto una diretta con il Muschio Selvaggio, e nei commenti abbiamo ricevuto delle offese solo perché portavamo un pensiero diverso. Non solo offese molto visibili, ma offese violente. “Chi sono questi due stronzi? Chi sono questi due mentecatti?” e altre cose molto brutte. Tu non gli dai quello che loro si aspettano e ti arriva della violenza ottusa e inattendibile.
FM: Non solo offese però! Devo dire che tutti i figli delle mie amiche ci vedevano, tredicenni e quindicenni che mi hanno scritto contenti, in un attimo sono diventata l’idolo di questi ragazzi.
AR: Un milione di visualizzazioni! Cifre assurde. Certo ci sono i complimenti ma anche offese violente, non di critica obiettiva. E infatti nello spettacolo nuovo dico che questi giovani mi dispiace non vederli morire [ride] perché essendo più grande muoio prima io, con questo dispiacere. Comunque quei ragazzi [del Muschio] rispetto a quel territorio di YouTube sono intelligenti, insuperabili. Anche se parlano in modo… orribile.
FM: Raga!
Vi siete formati in un’epoca dove esistevano, per davvero, il mainstream e l’underground. Uno si misurava sulla differenza dall’altro. Oggi c’è un nuovo ecosistema, infinite nicchie a cui rivolgersi, pubblici frantumati…
FM: Esisteva già internet ma sembrava uno spazio libero, l’underground si muoveva anche nel web. Poi all’improvviso alcuni partiti hanno cominciato a organizzare le primarie… e dopo poco tutti su Facebook, Twitter, e nell’enormità del web ci si perde.
Noi due abbiamo rilasciato interviste con giornali di grossa tiratura, partecipato a trasmissioni televisive di consumo. Se il tuo scopo è fare dei passaggi per ottenere la visibilità (che ora significa esistere), magari fai un passaggio giusto e poi riesci a parlare la tua lingua con più persone che in altri modi non potresti raggiungere. Ieri ho messo un video su TikTok, in un giorno l’hanno visto settecentotrenta persone che non avrei potuto contattare in un altro modo!
Ma io ammiro la tua voglia di aggiornarti, di metterti in gioco su quelle cose… io sono molto più pesante. Devo alleggerirmi?
FM: Lascia sta’, ti devi alleggerire di molto…
… Raga! Tornando a Spoleto: Palazzo Collicola in queste settimane ospita Euforia Carogna, una mostra curata da Flavia Mastrella e Marco Tonelli. Una retrospettiva sulla vostra attività trentennale. Eravate già finiti in un museo? Ci si sente imbalsamati?
AR: Beh noi nasciamo dai musei e dalle gallerie fotografiche, a fine anni Ottanta a Roma facevamo spesso performance in posti del genere. Abbiamo avuto la prima monografica al Mambo nel 2005, e poi altre, insomma siamo avvezzi al formato.
E questa mostra a Spoleto ha qualcosa di nuovo, rispetto alle altre?
AR: Sì certo, è più varia e ampia, può diventare un format esportabile in altre gallerie, una mostra itinerante.
FM: Allestirla è stato difficilissimo perché il piano nobile del palazzo Collicola è veramente uno spazio difficile, seicentesco, stratificato.
Tra gli habitat e le sculture di Mastrella, e i libri e altri reperti, c’era una sala dedicata a un nuovo progetto di Rezza: Groppo e galoppo. Il pianto del centauro, una installazione video dove dal tuo corpo deformato da specchi metallici prorompono suoni prerazionali, mantra gutturali, le lacrime del centauro. Rispetto ai tuoi libri, dove c’è un lavoro sulla lingua ossessivo, qui il linguaggio viene smontato, diventa puro suono, gorgoglio. È da considerare come un’evoluzione, o due aspetti diversi ma coesistenti della tua attività?
AR: In realtà ho altri due libri pronti, uno stava uscendo a pezzi sull’Espresso. Vorrei farlo uscire come una sorta di Scritti corsari, prima o poi uscirà. Poi ho un altro romanzo. Durante la pandemia mi sono cimentato in questo esperimento musicale [Groppo e galoppo] perché mi interessa la musica come ritmo. E avevo iniziato anche a fare la parte delle percussioni. In inverno uscirà un progetto nuovo, proprio un disco, con la nave di Teseo; esce come vinile, come oggetto. Groppo e galoppo è la prima volta che viene esposto, ci vorrei fare degli allestimenti, presentarlo nelle gallerie… abbiamo tante sensibilità diverse, il problema è riuscire ad assecondarle. Purtroppo oggi in Italia c’è un modello tutto sballato, ai giovani si fa la promessa di diventare qualcuno senza esserlo. Se io fossi un terrorista andrei a colpire lì, nei canali dell’estetica, perché non c’è etica senza estetica. E lì ognuno si deve sentire colpevole. Lo posso dire con cognizione perché mi hanno offerto di partecipare come giudice ai talent show in televisione, c’erano tanti soldi in ballo. Bisogna rifiutare i soldi che arrivano dalla parte sbagliata.
Finirei con la televisione. In passato, parlando di tv, ci sono sempre stati due nomi che avete portato come eccezioni: Enrico Ghezzi e Angelo Guglielmi, senza il quale non sarebbero esistiti Blob, Fuori Orario e tanti altri esempi di sperimentazione televisiva. Che ricordi avete di Guglielmi? Quali spazi hanno creato, Guglielmi e Ghezzi, per il vostro lavoro?
FM: Guglielmi l’ho incontrato solo poche volte, invece Enrico Ghezzi è stato fondamentale per la nostra evoluzione. Lo abbiamo conosciuto a Bellaria dove dirigeva il Film Festival insieme a Morando Morandini. Erano i primi anni di attività, lavoravo da poco con Antonio. Sono stati momenti importantissimi per me grazie alle fantastiche retrospettive che organizzavano i due critici: ho visto film e ho conosciuto autori che mi hanno aperto nuove strade. A Enrico ho fatto anche il ritratto.
AR: Con Guglielmi abbiamo avuto un rapporto solo di conoscenza. La relazione con Enrico Ghezzi per noi è stata fondamentale.
Tra le vostre cose ce n’è una forse meno nota che mi piace molto, l’ho scoperta da poco, ovvero la Tegola e il caso (Rai Tre). L’idea è semplice: le vostre performance vengono improvvisate nelle case “della gente”, si fa teatro in cucina, tra le sedie i quadri e la telecamera di Mastrella a inquadrare la scena.
FM: È stato un lavoro di grande destrezza, maturato attraverso il montaggio. Dai sessanta minuti di girato, per ogni puntata, abbiamo ottenuto dieci minuti di trasmissione. Insieme a noi al montaggio, Barbara Faonio.
Di fronte a queste persone sconosciute, spesso anche anziane, vi trovate a raccontare la vostra poetica. Per esempio: “la velocità distrugge il sentimento, distrugge il controllo gerarca del cervello”. Che rapporto avete con la velocità? Perché bisogna distruggere il controllo del cervello?
AR: Io negli anni ho provato veramente emozione nel vedere che non dovevo pensare le cose, ma era l’intuito che mi faceva essere più veloce. Quindi il cervello è un controllore, niente di più, un setaccio.
FM: Io la penso al contrario, su questa cosa io e Antonio siamo completamente diversi [ride].
AR: Comunque per La tegola e il caso noi volevamo gente così, che non ci conosceva, perché con i giovani che si conoscevano si creava un altro ritmo, molto più blando. E le persone anziane che si abbandonavano a quel gioco dimostrano che chi sta a casa non è stupido. Erano quindici anni che c’era questo progetto che voleva dimostrare che chi sta a casa non è stupido. E noi abbiamo dimostrato che chiunque non è stupido, e che quindi è infame e razzista il palinsesto di ogni televisione che si mette nella testa di chi poi a casa deve gradire questo o quell’altro. Tornando al cervello: io improvviso da 35 anni, ma è un metodo che richiede sempre dei cambi di ritmo. Non puoi fare uno spettacolo di pura improvvisazione perché magari il 50% è bellissimo, ma l’altro 50% ti imbarazza. Non è un metodo scientifico, esportabile. Però è emozionante quando tu capisci che ci sono dei momenti in cui non pensi quello che dici e quello che dici è frutto di una velocità acquisita. Ecco. Fine.