N egli anni Ottanta a Roma un gruppo di giovani poeti, scrittori, artisti aveva preso a riunirsi a Sant’Agata de’ Goti: avevano già intuito lo scollamento tra arte e pubblico, in particolare tra poesia e pubblico. Ci si stava allontanando dalla lingua e conseguentemente dai fruitori, dai lettori. Da questa esperienza era nata una rivista che, seppure in piedi solo fino al 1984, avrebbe prodotto un’eco persistente lungo l’intera penisola. Scrive Claudio Damiani:
Ciò che caratterizzava Braci era una reazione istintiva e vitale (ma al tempo stesso molto cosciente e piena di studio e dedizione) al totalitarismo ideologico e desertificante della poesia del secondo Novecento, al suo progressivo insabbiarsi nell’afasia e nell’impotenza; e un ritorno alla lingua, ai padri, come era successo alle origini della nostra letteratura moderna con Alfieri e Foscolo, come se noi fossimo giunti a parlarne un’altra, di lingua (che noi chiamavamo spregiativamente “linguaggio”), e avessimo dimenticato la nostra. Parallelamente un ritorno alla vita, ossia alla possibilità della poesia di dire la vita, e quindi di essere veramente poesia.
Della esperienza di Braci facevano parte Colasanti, Salvatori, Del Colle, Lodoli e, appunto, Damiani. Ma soprattutto un giovane che si era presentato per leggere delle poesie proprio a Sant’Agata de’ Goti. Si chiamava Beppe Salvia e bisogna usare l’imperfetto perché Salvia si è ucciso a soli trentuno anni nel 1985. Quanti, fuori da Braci e oltre i poeti, conoscono la poesia di Salvia? Un giovane occhialuto che aveva stupito tutti. Lui non era la brace, era il fuoco che ondeggiando la rendeva viva e intoccabile. Nel libro “La difficile facilità” (Lantana, 2016) Damiani confessa che quella poesia annunciata da Salvia fino ad allora “era assolutamente impensabile, e fu una rivoluzione. C’è qui un tempo di impossibilità, di impotenza, un tempo in cui manca tutto, vita senza vita, tempo finale e, insieme, iniziale. Tutto l’affondo nell’esplorazione della lingua, il ricongiungimento tra la lingua della poesia e la lingua della realtà, giunge a questa foce estatica di chiarezza e di calma, di dolore nitido e insopportabile, di meravigliosa musica. Qui davvero è superato, come ebbe a dire Emanuele Trevi, l’ermetismo, che la neoavanguardia non riuscì a superare. Qui è superato il Novecento”.
Ecco Salvia, nel 1988, da Cuore (cieli celesti):
I miei malanni si sono acquietati,
e ho trovato un lavoro. Sono meno
ansioso e più bello, e ho fortuna.
È primavera ormai e passo il tempo
libero a girare per strada. Guardo
chi non conobbe il dolore e ricordo
i giorni perduti. Perdo il mio tempo
con gli amici e soffro ancora un poco
per la mia solitudine.
Ora ho tempo per leggere per scrivere
e forse faccio un viaggio, e forse no.
Sono felice e triste. Sono distratto
e vagando m’accorgo di che è perduto.
Al Festival di poesia di Villa Borghese del 1984 Salvia se ne andò tra le fratte mentre l’altoparlante ripeteva il suo nome. Quale gesto più reazionario ancora oggi? Lasciare un posto vuoto, un silenzio parlante. Il silenzio è semplice o difficile? Sta qui dentro la “difficile facilità” rubata a Petrarca dai “bracieri”. Quella che ha consumato fino alla morte Elisa Sansovino, ovvero Beppe Salvia (un eteronimo al femminile del poeta). E c’è chi, come Silvia Bre, si chiede tra i versi:
Ancora non sappiamo / quale male fu tuo che non è nostro.
Claudio Damiani fa una cosa commovente nel suo saggio di “appunti per un laboratorio di poesia”. Idea una sezione di “Piccola antologia di nuovi poeti italiani” e inserisce, accanto a Giuliano Goroni, Umberto Fiori e Davide Rondoni, anche Beppe Salvia. Sì, lo mette tra i nuovi, tra i viventi, tra i contemporanei. Claudio prende ancora per mano Beppe, come i poeti non fanno quasi mai, colti dalla loro reciproca mal sopportazione. Gli vuole bene. Lo vuole ancora appoggiato al portone della chiesa di Sant’Agata dei Goti a fumare parlando di poesia. Di cui, peraltro, Damiani ci dà una splendida definizione: “La poesia è, come la morale, arte del togliere”. È necessario dunque “che le parole siano coerenti alle cose, e dunque non appaiano in quanto parole, che diventino invisibili. Che siano la coerenza stessa delle cose con se stesse. Che le parole non diano nell’occhio, che non si getti fumo nell’occhio, è l’arte. Che l’artificio sia celato, che sia celata l’arte. Che l’opera sia anch’essa, come è, natura. Che la poesia sembri facile. Come acqua che scorre. Questo chiamava Petrarca: ‘difficile facilità’”. In un editoriale di Braci Beppe Salvia ha cercato di enucleare anche il suo modo di intendere la poesia, di fare luce con quel “lume”, altra parola ritrovata e sonante, fresca.
E noi, noi moderni, costretti a sperare o dimenticare, riviviamo ogni giorno un giorno troppo uguale. Si perde così ogni passione. Anche perché le passioni non più scritte o coltivate in una scrittura interiore son tutte eguali. E il piacere è gioia e la gioia è dolore. E il ricordo felicità e la felicità dimenticanza. Allora non più i nostri versi si ingannano se appaiono confusi, ma ben più grato è il nostro amore per essi se un disteso piacere li rende aggraziati e al contempo un rigore di pensiero li provi al diffuso dolore.
Ecco perché Beppe Salvia è il migliore tra i nuovi poeti italiani contemporanei. E ho usato troppi aggettivi: se la poesia è “quello che rimane dal cancellare, cancellare fino allo spasimo” (Rodolfo Di Biasio), Beppe Salvia è il migliore tra i poeti. È vivo e può dirci lui se la poesia è ancora viva. Perché si legge pochissima poesia in questo tempo. Salvia che aveva nome nella radice di “salvare” e di “salus”, salute, ma anche salvezza. La pianta ha forse sofferto di poca luce, ma ci ha consegnato frutti lucenti. E, da Elemosine eleusine, un ultimo consiglio:
se dopo la vivisezione alcuno si accorgesse che ben pochi dei suoi sentimenti richiedono la poesia, che faccia solo quel poco o magari niente, e ricerchi in un laborioso ozio quello che può sostituire per lui la poesia in versi.