P er Wim Wenders si è sempre provato affetto, oltre che ammirazione. Consapevoli dei suoi alti e bassi come regista, anche di fronte alle opere più deboli si sceglieva di ricordare i tempi perduti e la sua importanza per la formazione di molti cinefili, critici e cineasti. Molto del suo status di autore intoccabile è stato però intaccato negli ultimi decenni, in parte per una carriera altalenante e in parte perché le opere d’arte sono talvolta soggette al lavorio impietoso del tempo: avete provato a rivedere oggi, con altri occhi, Il cielo sopra Berlino (1987) al di là del grandioso incipit? È sostanzialmente dall’odissea produttiva di Fino alla fine del mondo (1991) – ultimo tentativo di osare con le immagini, guidato da una insaziabile curiosità di artista – che Wenders si è adagiato su un cinema spesso incolore.
Almeno fino alla presunta resurrezione per acclamazione di Perfect Days (2023): un film inondato di attenzioni da pubblico e critica, nonché ideale casus belli da social network che ha diviso tra sensibili sostenitori e cinici detrattori, con questi ultimi accusati di muovere critiche per snobismo o altre forme di frustrazione. La cosa desta un relativo ma sincero stupore – personalmente, non mi sarei mai aspettato tanto entusiasmo dopo la tiepida visione della prima mondiale a Cannes – ed è assai significativa. Non è tanto Wenders a essere cambiato, e neppure più di tanto il (suo) pubblico. Sono i peana della critica a sconvolgere, per l’estrema superficialità con cui sono tessuti gli elogi del film, che manco a dirlo si concentrano su – ebbene sì – bella fotografia e belle musiche.
Ma facciamo un passo indietro e concentriamoci sulla storia. Con perfetta e scolastica circolarità, il film racconta alcune giornate nella vita di Hirayama, taciturno e solitario giapponese di mezza età, mentre si dedica – con nipponicissimo zelo – alla pulizia dei bagni pubblici di Tokyo. Un lavoro indegno per i nostri occhi da ricchi epuloni, ma che attraverso Hirayama (interpretato da Koji Yakusho, protagonista di straordinarie interpretazioni per Shoei Imamura, Kiyoshi Kurosawa e altri) percepiamo non solo come degno, ma come meritevole di dedizione e serietà, nobile al pari di ogni altra professione. Quando non è dedito alla pulizia delle toilette, Hirayama si diletta con pochi e semplici piaceri: l’ascolto di musica su arcaiche musicassette, fotografie in bianco e nero della luce che filtra tra gli alberi, la lettura di romanzi di William Faulkner o Patricia Highsmith. Solo più avanti si potrà intravedere qualche scorcio del privato di Hirayama – una sorella ricca, un padre con cui ogni relazione si è chiusa da tempo – ma nessuno scherzo del destino turberà il rituale quotidiano del protagonista, ormai devoto solo al piacere delle “piccole cose”. Che sia per la volontà di fuggire da un passato tragico o turbolento, o per una scelta di vita, non lo verremo mai a sapere con certezza, né Wenders, astutamente, ce lo rivelerà, evitando ogni possibile trauma.
Sono i peana della critica a sconvolgere, per l’estrema superficialità con cui hanno tessuto gli elogi del film.
Wenders crede serenamente di raccontare una storia semplice e universale, uno haiku che possa opporsi a un presente di angoscia digitale e violenza mediatica come un piccolo salmone, umile ma tenace, che persiste nel nuotare controcorrente. E non potrebbe scegliere luogo migliore del Giappone, immediatamente percepibile ai nostri occhi come “strano” e incomprensibile, ma meritevole di rispetto. Un luogo in cui la scelta di vita di Hirayama possa apparire come ascetica e ammantata di orientale saggezza. Quando Wenders sceglie di girare un film “giapponese” (un’idea che si sviluppa da un documentario, commissionato a Wenders, sui bagni pubblici di Tokyo), per cast e lingua utilizzata, gioca (in)consapevolmente con gli stereotipi che si è soliti associare al Sol Levante, ma mantenendo uno sguardo inequivocabilmente occidentale, tanto nel montaggio quanto negli accostamenti culturali – i brani scelti e gli autori, tutti o quasi angloamericani.
Inevitabile che qualche sostenitore tiri in ballo a sproposito Ozu – come avviene per ogni film girato in Giappone vagamente “contemplativo” – ma l’accostamento, frutto di pigre associazioni mentali post-colonialiste, non potrebbe essere più ridicolo. Perfect Days non è Tokyo-Ga (sempre di Wenders, 1985), che nasceva con tutt’altro intento, e da Ozu siamo lontanissimi sia per l’uso della macchina da presa che per l’etica a questo sottesa. Nell’utilizzo del bianco e nero per ritrarre i sogni di Hirayama vengono in mente i wendersismi di maniera che inquinavano molto del cinema anni Novanta, fino a contaminare anche registi di pregio come Wong Kar-wai. In Angeli perduti (1995), fratello minore dello straordinario Hong Kong Express (1994), il feticcio del dispositivo era utilizzato con modalità simili, a fini emozionali e nostalgico-sentimentali, in contrapposizione con i neon e il montaggio schizzato della metropoli: un espediente semplicistico, e debitore di Wenders, che costituiva il principale punto debole del film. Oggi è come se Wenders riprendesse la sua stessa maniera, ormai di seconda o terza mano, e tornasse a farla sua, predisponendo lo spettatore e inducendolo a quella che il critico cinematografico Dwight Macdonald definiva “reazione controllata”.
Macdonald è principalmente ricordato come l’ideatore del termine midcult, forma artistica che in Masscult e Midcult (1964) è individuata come il nemico più temibile della “cultura alta”. Se il masscult rende infatti evidente la sua volgarità e la sua volontà di semplificare, mercificare e spingere nelle braccia del puro intrattenimento, ecco che il midcult, rivestendo il tutto con una patina di autorialità e strizzando l’occhio a uno spettatore di media cultura, si rivela più subdolo ed efficace. Anche perché gli anticorpi che consentivano, in tempi ideologizzati ma culturalmente intransigenti, di individuare ed espellere il virus del midcult non ci sono più, smarriti tra la consultazione dell’ennesimo reel su uno smartphone e la costante necessità di “staccare” e lasciarsi andare alle lusinghe del lato emotional, a cui ci ha reso avvezzi un decennio di Facebook e di post scadenti e retorici.
Wenders sembra voler indurre lo spettatore a quella che il critico cinematografico Dwight Macdonald definiva ‘reazione controllata’.
L’epilogo di Perfect Days è da questo punto di vista emblematico: Wenders abbandona repentinamente un registro dominato dalla sottrazione e dalla ricerca di un’asciuttezza per inumidire di lacrime il sorriso di Hirayama, mentre ascolta Feelin’ Good (1965) di Nina Simone e il sole albeggia su Tokyo. Un lungo primo piano frontale, che lascia pochi dubbi sul proprio intento: la ricerca del “Gran Finale” conduce il regista a scoprire definitivamente le carte. Dopo aver costellato il film di richiami a una cultura media ma universalmente accettata, attraverso scelte banali ma indiscutibili – siano esse Perfect Day (1972) di Lou Reed o i libri di Patricia Highsmith – si lascia andare alla catarsi finale e calpesta la zona grigia del cattivo gusto pur di strappare una lacrima.
Il kitsch, scriveva Clement Greenberg, “predigerisce l’arte per lo spettatore, gli risparmia lo sforzo e gli offre una scorciatoia per i piaceri dell’arte, evitandogli le difficoltà proprie dell’arte di qualità”. Macdonald include nel kitsch anche il midcult, allargando il discorso alla sfera industriale e alla trasformazione in seno alla società, con un accesso più esteso alla cultura e una maggiore mercificazione della medesima. Ma resta difficile trovare parole migliori di quelle di Greenberg per descrivere la predeterminazione della cosiddetta “reazione controllata” messa in atto da Wenders. A ogni scelta narrativa autoesplicativa corrisponde una reazione inevitabile, quasi pavloviana. Non ci si può che commuovere di fronte a un uomo che affoga la sua malinconia in un’alba, sentendosi bene. Non si può far altro che volare con la fantasia e sognare con lui, quando – grazie alla “magia” del cinema – vediamo i suoi sogni, decolorati in un poetico bianco e nero. Non si può che sorridere davanti alla sua collezione di musicassette, anche se la sequenza di brani è degna di una proposta di Spotify.
Il distacco di Hirayama dagli affanni del turbocapitalismo è presentato come una sorta di rinuncia, di silenziosa ribellione. Ma rimuovendo l’involucro e concentrandosi sul grande rimosso del nostro presente, ossia la questione socio-economica, ecco che la serena accettazione del più umile dei lavori e il suo escapismo si rivelano perfettamente funzionali al sistema. Un mondo esasperatamente competitivo e alienante non chiede di meglio che la defezione di qualche “concorrente”, evidentemente inadeguato, per meglio oliare la macchina. Un sospetto da cui Hirayama, ma soprattutto Wenders, non viene mai sfiorato.