F ortunatamente non sono mai stato in guerra. Non mi piacciono le armi, non mi piace la violenza e non mi piace nemmeno il disordine. Detesto l’anarchia, quindi quel momento di stato di eccezione in cui non vigono leggi, ma solo valori, mi farebbe impazzire. Non ho idea di cosa possa significare ritrovarsi in trincea, al freddo, con cibo scadente, uniformi tecniche pesanti, contornato da persone che non fanno parte della mia vita, ma che devo considerare come fratelli. Avendo come obiettivo soldati come me, che hanno la sola colpa di trovarsi dall’altra parte della barricata. Ma della guerra non mi piace nemmeno l’aspetto economico. Mi disturba il fatto che dalle tasse che pago nel mio paese, parte di questi siano inviati ad altre nazioni per supportare le guerre, oppure che siano investiti per produrre armi. Di questa cosa mi infastidisce non poco anche l’aspetto politico: una guerra in corso fa di me una persona che secondo altri farebbe il tifo per la vittoria di qualche nazione su qualche altra, semplicemente perché mi infastidisce pagare un servizio che non ho richiesto.
Tutto quello che so sulla guerra l’ho letto sui libri e visto dalle foto. Ciò che più mi ha dato la possibilità di immedesimarmi nella guerra, però, è stato il cinema. Solo grazie al cinema mi è stato possibile capire, da lontano, cosa poteva significare ritrovarsi in quella situazione, dandomi lo spunto per riflettere anche sul significato estremo del morire in guerra, del perdere i propri cari a causa di un conflitto, del rinunciare alla vicinanza di una persona amata o alle proprie ambizioni personali.
Parlare di cinema, guerra e modernità, equivale a parlare di America.
Alcune di queste riflessioni sono al centro di La fatale alleanza. Un secolo di guerre al cinema, una delle ultime fatiche editoriali di uno dei più originali critici cinematografici inglesi, David Thomson. Ma ovviamente c’è molto di più. Parlare di cinema e guerra, significa parlare di modernità. Il libro analizza film contemporanei, ma si spinge anche all’indietro, fino a film del 1914, “[…] quando la guerra mondiale e il cinema mondiale vennero alla luce nello stesso boato di cambiamento. Come un’esplosione.” Conseguentemente, parlare di cinema, guerra e modernità, equivale a parlare di America, e Thomson lo mette in chiaro sin dalla seconda pagina: “Nelle due guerre mondiali la patria americana era calma; la sua industria stava prosperando; le sue storie erano gonfie di splendore. Ciononostante, l’America desidera essere il paese leader nonché una stella negli studi sulla guerra. Quindi ha avuto ben pochi rivali nella realizzazione di emozionanti film di guerra, o nell’ingegnosità ed espressività delle sue spese militari.” Una considerazione che si traduce quasi in un lucido attacco: “Come se la giovane nazione volesse romanticizzare il combattimento o pubblicizzarlo.” Senza proseguire questo ragionamento atlantico, si possono fare molti riferimenti alla situazione bellica di oggi.
Thomson mette subito le cose in chiaro, senza aver paura di nascondersi: i film di guerra sono belli ed emozionanti. Quelli americani poi, in particolar modo. Come dargli torto? È senz’altro vero, i film di guerra americana sono i più belli, il cinema europeo può competere solo raramente. È una guerra persa – tanto per restare in tema.
I film che più attirano la nostra attenzione sono quelli spettacolari o in cui si analizza con precisione il punto di vista dei personaggi – che è quasi sempre ai limiti della sopportazione umana.
C’è una sorta di perversione umana, evidentemente, nel godere di certi prodotti culturali. Perché dovrebbe essere piacevole starsene in una sala cinematografica o su un divano e vedere un soldato crivellato di colpi o una cattedrale afflosciarsi sotto un bombardamento aereo? Non c’è una spiegazione razionale. I film insegnano molto sulla storia. Ci danno una panoramica visiva dei campi di battaglia, ma bisogna essere sinceri, i film che più attirano la nostra attenzione sono quelli spettacolari o in cui si analizza con precisione il punto di vista dei personaggi – che è quasi sempre ai limiti della sopportazione umana. Motivo per cui, “[…] siamo sul punto di interrogarci sull’impulso di genere più profondo del cinema.” Secondo Thomson infatti, “[…] la storia del cinema ha assecondato il desiderio umano (o l’impulso maschile) ricorrente di vedere il sesso e la violenza.” Le misure di censura che provarono a fermare questo impulso nei Sessanta e nei Settanta non ebbero la meglio. Ma nonostante questa libertà, la sessualità iniziò negli anni pian piano a diminuire, almeno al cinema, restando intrappolata soltanto nella pornografia. Un circuito a parte esente dagli imbarazzi e dai pudori. Al contrario, “[…] la violenza non ha conosciuto limiti e la computerizzazione della fantasia cinematografica è diventata la sua energia e la sua follia.”
Ecco il punto. La mia cinematografica idea della guerra è quella estetizzata dal cinema, impressionata da buio e luce con esplosioni fantasmagoriche, suspense e soprattutto azione. D’altronde, questa è una riflessione che sta al cuore del pensiero di Thomson. Nel suo Sleeping with Strangers: How the Movies Shaped Desire, del 2019, rifletteva su come il cinema non sia mai stato solo uno specchio passivo della realtà, ma abbia attivamente influenzato la nostra percezione del desiderio. Il cinema, fin dai suoi primi giorni, ha avuto la capacità di creare e proiettare fantasie, spesso idealizzate e irrealistiche, che hanno avuto un impatto profondo sulla società. Attraverso i film, abbiamo imparato a desiderare ciò che vediamo sullo schermo, che si tratti di corpi, relazioni amorose o ruoli di genere, e spesso abbiamo adattato le nostre aspettative nella vita reale a questi modelli immaginari.
La guerra è la cosa più politica che possa esistere, e forse realizzare un film sulla guerra che sia a-politico è solo un’utopia che fallisce in partenza.
Questo libro e La fatale alleanza. Un secolo di guerre al cinema segnano un punto di svolta nella parabola professionale dell’autore. Nato a Londra, si trasferisce in America dove diventa famoso per i suoi libri sul cinema, pieni di divagazioni psicologiche, aneddoti secondari che servono a costruire suggestioni altre e collaterali al critico. Un modo di intendere la critica diverso da quello consuetudinario. Da questo punto di vista, questi due libri non fanno eccezione. Partono dall’analisi di alcuni film come pretesto a discorsi altri, che hanno la capacità di allontanarsi dal tema, ma di non uscire mai fuori dai suoi confini. Questa modalità rompe ogni schema nel meta-romanzo Suspects, in cui l’autore immagina le storie segrete di alcuni personaggi di film noir, che ebbe successo tale da proseguire in Silver Light: stesso procedimento, ma con i personaggi del genere western. Ha scritto moltissimi libri pieni di fantasia, compresa qualche sceneggiatura. Per questo i due libri in questione rappresentano in qualche modo una svolta, in quanto sembrerebbero lanciare una critica proprio alla fantasia e all’immaginazione. A come il cinema ha condizionato il nostro immaginario, le nostre pulsioni.
La modalità resta però la stessa. Il primo film analizzato in La fatale alleanza. Un secolo di guerre al cinema è Black Hawk Down del grande Ridley Scott, uno dei film preferiti di Thomson, come confessa nel libro. Parte citando Hemingway, divagando ancora per poi affermare di avere
[…] il sospetto che l’invio in Somalia di truppe statunitensi pronte a combattere sia stato un gesto discutibile. È un elemento costante della nostra educazione valutare l’impertinenza dei sofisticati eserciti bianchi che vanno in giro per il mondo a imporre l’ordine ai paesi di colore, nonché altre lingue e visioni discordanti della storia.
Tutto il capitolo oscilla tra l’esposizione delle motivazioni per cui dovremmo indignarci per l’intervento militare statunitense a Mogadiscio nel 1993, e la celebrazione di questo film capolavoro, che è al tempo stesso controverso, dal momento che spettacolarizza proprio quell’evento. Thomson fornisce dati e racconta fatti, come ad esempio che l’esercito americano ha fornito i veri Black Hawk per la realizzazione del film e che ha ospitato il cast nelle loro caserme per una settimana di addestramento vero e proprio. Non fa sconti però e capisce anche lui che Ridley Scott è una sfinge. Non sapremo mai per quale motivo ha girato quel film, se fu contrario o meno all’operazione militare.
Il cinema non è mai stato solo uno specchio passivo della realtà, ma ha attivamente influenzato la nostra percezione del desiderio.
Il cinema bellico è anche questo. La guerra è la cosa più politica che possa esistere, e forse realizzare un film sulla guerra che sia a-politico è solo un’utopia che fallisce in partenza. Questo travalica anche i confini semplici del genere. Un film di guerra, secondo Thomson, non è solo quello con mitra ed elmetti. Particolarmente brillante è la sua riflessione su Io sono nessuno, un film sparatutto del 2021, interpretato da Bob Odenkirk, il Saul Goodman di Breaking Bad e Better Call Saul. Il film ha una trama davvero elementare: racconta la storia di Hutch Mansell, un uomo apparentemente comune e tranquillo, che vive una vita monotona. Quando dei ladri irrompono nella sua casa e lui decide di non reagire, viene percepito come debole dalla sua famiglia e dai vicini. Questo incidente risveglia un suo lato nascosto e pericoloso. Hutch in realtà è un ex assassino professionista che deciderà di vendicarsi, scatenando una serie di eventi violenti che lo porteranno a scontrarsi con una potente organizzazione criminale russa. Nulla di nuovo, anche perché negli ultimi anni il cinema sta proponendo in continuazione trame del genere, con uomini scolpiti dalla vita cui è meglio non rompere le scatole. Basta pensare a Don’t Breathe (che resta per me un film spassosissimo) o a Il fornaio. Io sono nessuno però è effettivamente un film particolare. Non è un film di guerra, ma il modo in cui sono rappresentati “[…] gli oligarchi e i teppisti russi al giorno d’oggi sarebbe messo al bando se si trattasse di gallesi o zulu. Questo è un film in cui allo spettatore umile e imbarazzato viene concessa la libertà di aprire il fuoco all’infinito nei suoi sogni.” Ecco perché secondo lui è un film di guerra.
Ridley Scott è una sfinge. Non sapremo mai per quale motivo ha girato Black Hawk Down, se fu contrario o meno all’operazione militare.
Il resto prosegue su questa scia. Tutti i classici e tutte le chicche del genere sono in quel libro, si parla de Il ponte sul fiume Kwai come dell’importanza del Guerra e pace tolstojano per il cinema bellico. Guerra e cinema, due angolazioni differenti, dalla quale poter vedere e capire molte cose. Spesso si pensa al cinema di guerra come un genere unicamente rivolto al passato, in quanto inerente a fatti storici. Ancora oggi si fanno film sulla Prima Guerra Mondiale o ovviamente su fatti ancora precedenti. Questo genere ha in effetti una rilevanza storica. Non di rado gli storici menzionano film del genere per approfondire un determinato aspetto o per facilitare l’immaginazione su un momento specifico. A volte questi film hanno il potere di rilanciare l’attenzione su alcuni momenti dimenticati della storia, come per esempio The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, o il classico JFK di Oliver Stone, capace di riaprire il caso sull’omicidio del presidente Kennedy. Non film di guerra, ma film che partono da eventi storici, come il 99% dei film di guerra. È il passato, certo, ma pare che ancora oggi nel mondo ci siano tutta una serie di paesi in guerra.