S ono passati dieci anni dalla pubblicazione della raccolta Les années 10 (2014) di Nathalie Quintane, poetessa, attivista e insegnante francese. Due dei testi della selezione, Una visita di Marine Le Pen in provincia e Le preposizioni, sono stati tradotti e pubblicati di recente anche in Italia, sotto il titolo di Stand up (2020, Tic Edizioni, tradotto da Michele Zaffarano). Nella seconda parte del volume, la narratrice coincide con l’autrice che si interroga su quali siano le particelle linguistiche adatte a indicare il verso della relazione fra i poveri e chi non lo è, dal momento in cui si appartiene a un’altra classe, alla classe media o alla classe dei lavoratori intellettuali. Quintane prende in analisi l’uso della preposizione per e prosegue scartando una serie di pietismi grammaticali, assumendo come punto di partenza il riconoscimento del proprio status:
Non c’è in corso nessuna discussione con i poveri.
I poveri vivono nei loro angoletti, nelle loro periferie, nelle zone rurali più sperdute, dove solo i corvi arrivano a portare i rifornimenti. Io invece
me ne sto qua sul mio computer a battere tasti.
Chi decostruisce il linguaggio, è privilegiato; chi subisce il linguaggio, proviene dal margine. I poveri sono per strada, ma anche sugli schermi del cinema e della televisione o nei documentari. Le loro rappresentazioni sono il filtro tramite cui i non poveri possono comprendere chi sono le persone per le quali (o contro le quali) votano o protestano. Se linguaggio è ciò che plasma le rappresentazioni, decostruirlo, nei limiti del possibile, permette di avvicinarsi alla realtà, osservandola da prospettive fuori dall’ordinario. Nel linguaggio cinematografico, il montaggio è la grammatica entro la quale si dà forma alla narrazione ed è anche dalla sua decostruzione che hanno preso le mosse le avanguardie.
Trasporre sullo schermo senza “smorfiette”, come direbbe Quintane, le raffigurazioni della classe dei poveri, richiede l’adoperarsi non solo nella scrittura di un film, ma anche nella regia, nel montaggio, nella fotografia e in tutti quegli aspetti che possano sovvertire lo sguardo dello spettatore. Ne è un esempio Senza tetto né legge (1985). Agnès Varda non occupa il punto di vista di Mona, la giovane protagonista vagabonda, ma la segue. In cento minuti cadenzati da tredici carrellate che, nel loro fluire da destra verso sinistra, accompagnano l’errare senza meta della ragazza, in direzione opposta rispetto al senso di lettura occidentale. Ognuno di questi movimenti termina soffermandosi su un elemento equivalente a quello con il quale comincia la carrellata successiva: una macchina agricola e degli pneumatici, una finestra aperta e una finestra chiusa, una caterva di bancali di legno e il tronco di un albero. Varda organizza il lungometraggio con estremo ordine, senza che gli argini entro i quali i personaggi si muovono appaiano dotati di un senso univoco. Confonde alcuni generi cinematografici tra loro con l’accostamento di scene drammatiche, alternate a una sorta di reportage. La narrazione è disseminata di interviste ai personaggi entrati in contatto con Mona che riferiscono alla telecamera come ad un investigatore, ma senza rivelare niente di utile ai fini dell’indagine; ognuno di loro depone le proprie considerazioni sulla libertà.
Un’indagine di tipo fenomenologico, nella quale l’identificazione del narratore con l’autore biografico pone il soggetto narrante come un Io in opposizione dialettica al mondo, alle cose,
agli oggetti materici e alle loro astrazioni.
In Senza tetto né legge Varda compone poesia in immagini crude, come Quintane scrive poesia in prosa, esercitando il suo sguardo sul mondo, sugli oggetti del quotidiano che osserva e descrive a partire dalla sospensione del giudizio, quasi in senso husserliano. La sua è un’indagine di tipo fenomenologico nella quale l’identificazione del narratore con l’autore biografico pone il soggetto narrante come un Io in opposizione dialettica al mondo, alle cose, agli oggetti materici e alle loro astrazioni. L’Io narrante di Quintane prende le distanze dal dispositivo letterario dell’autofiction, lavorando per sottrazione e lasciando che resti ciò che nello sguardo accomuna chiunque: una sorta di soggetto banale, nell’accezione arendtiana, e che occupa un punto di vista politico nel fare poesia. Ricerca e sceglie l’uso di un linguaggio modesto, capace di calcare sul reale contorno delle cose. Manifesta le sue intenzioni politiche fra le pagine di Pomodori (2010) dove racconta della sua esperienza ai festival di poesia, ponendosi contro ogni complicità richiesta dall’industria culturale e le sue logiche di profitto per le quali, se la letteratura non è accessibile alla massa, se il grande pubblico preferisce far festa, allora è la letteratura a dover diventare festa. La festa è il fantasma che:
Mette il sigillo chiude il sintagma dopo che hanno fatto girare tutti gli aggettivi tutti i nomi:
lettura-performance performance letteraria (al festival En toutes lettres nel giugno del 2009) festa della performance (al festival Les bouquinades di Marsiglia sempre nel giugno del 2009).
Quintane scrive per liberare il linguaggio, la poesia, dagli elementi neo-liberali intromessi tra le righe dei libri in concorso ai festival di letteratura e tra il pubblico delle prime file. Per farlo, in Stand up si mette prima nei panni di Le Pen e poi in quelli dei lavoratori, corteggiati dalla leader di Rassemblement National prima, durante e dopo ogni campagna elettorale. Distingue fra i “poveri poveri”, quelli che stanno per strada, dai “poveri di montagna”, che scendono a valle per fare la spesa al supermercato, invasi da una gioia da supermercato e che, a loro volta, non sono rappresentati dai “poveri da televisione”. I poveri da televisione sono i poveri delle periferie, che partecipano ai sondaggi d’opinione, che piangono in diretta, asciugandosi le lacrime. E poi ci sono “i poveri da documentario”, con dei pensieri da documentario. I poveri da televisione appaiono come coloro che tentano di uscire dalla marginalità, aspirando alla celebrità. Rispetto ai non poveri, adottano un altro codice comportamentale, sono soggiogati da altre mode, vengono attratti da altri prodotti, popolano altre nicchie di mercato. Quintane li immagina con lunghissime unghie smaltate, seni rifatti e natiche rotonde come palloni da calcio, gonfi al punto giusto da attrarre uomini che indossano occhiali grossi con le dorature ai lati, pantaloni a vita bassa, felpa col cappuccio e scarpe Nike. Sono coloro che barattano le loro emozioni, piangendo e urlando davanti alle telecamere, in cambio di una vita alla quale altrimenti non potrebbero mai permettersi di ambire.
Il movimento attrattivo che dal margine conduce verso il palcoscenico è raffigurato da Andrea Arnold in Fish Tank (2009) a partire dal punto di vista di Mia, un’adolescente dell’Essex, nella periferia a Est di Londra. La camera a mano di Arnold, insegue la protagonista come i fratelli Dardenne in Rosetta (1999), ma i percorsi tracciati dalle giovani sono diametralmente opposti, accomunati solo da un’affannosa frenesia che le spinge verso la rivalsa. Per appartenere a una comunità Rosetta sceglie il lavoro, Mia la fama. Arnold la pedina mentre si esercita per diventare una ballerina di street dance, l’unica speranza di rivalsa in suo potere.“You dance like a black” le dice Connor, il fidanzato di sua madre, interpretato da Michael Fassbender, per motivarla a esercitarsi. Lui proviene da un contesto sociale più fortunato e meno disfunzionale e sembra prendere a cuore l’educazione di Mia. Le presta la sua videocamera per registrare un’audizione di ballo, quasi come se volesse condividere il suo privilegio con l’adolescente di periferia e salvarla dalle condizioni precarie nelle quali si è trovata costretta a crescere. In realtà, le intenzioni di Connor non sono affatto edificanti: mira a possedere il corpo della ragazza, non alla sua liberazione.
Una scena che racconta lo sguardo, la percezione comune, che si esercita su una certa categoria di poveri, avvertita pericolosamente incomprensibile dalle classi più agiate a partire dall’abbigliamento e dalla partecipazione agli oggetti del quotidiano.
Mia porta sempre i capelli raccolti in una coda alta dalla quale lascia cadere un ciuffo liscissimo sulla fronte, mettendo in mostra dei grandi cerchi alle orecchie, esattamente come le sue coetanee. In una delle sequenze iniziali, si scontra per strada con delle adolescenti dal ventre scoperto, adornato da piercing appariscenti, ponendo fine alle loro prove di danza con una testata sul naso di una delle sue nemiche. Una scena che potrebbe essere assimilabile a tante altre del cinema di critica sociale e che racconta lo sguardo, la percezione comune, che si esercita su una certa categoria di poveri, avvertita pericolosamente incomprensibile dalle classi più agiate a partire dall’abbigliamento e dalla partecipazione agli oggetti del quotidiano. Basti pensare alla scrittura di personaggi divenuti iconici in lavori come La Haine (1995) o da lungometraggi provenienti dalla scena underground come Ma 6-T va crack-er (1997).
Al pari di Fish Tank, anche Bande de filles (2014) è costellato da pestaggi e clip musicali, animati da battle in stile hip hop fra giovanissime afrodiscendenti dell’estrema periferia parigina. Nella sua interpretazione da cinéma de banlieue, Céline Sciamma si concentra sulla brutalità fra bande di ragazze adolescenti, rivali senza alcuna ragione apparente e identiche nell’abbigliamento, nelle acconciature, nelle movenze e nelle condizioni sociali. Sciamma e la direttrice della fotografia Crystel Fournier dipingono di luce blu chiaroscurale i corpi delle ragazze vestite tutte uguali, dai capelli crespi domati in contropermanenti chimiche, con giubbotti succinti in finta pelle e le labbra appesantite da rossetti sgargianti, mentre competono fra risse e balletti, sempre rigorosamente in mezzo alla strada. In Bande de filles il rapporto con le cose, i prodotti e il loro carico simbolico, è sia estetico, sia etico perché identitario. La protagonista è Mariem, quando porta la tuta e le treccine arrampicate sulla nuca, ma diventa Vic quando liscia la sua chioma e indossa abiti rubati, con appese le placche antitaccheggio. Sciamma definisce i contorni di uno stereotipo, altrimenti inafferrabile per i non poveri, e inquadra da vicino i piedi della ragazza mentre si sfila le Jordan Air, prima che suo fratello la riempia di botte. Il destino di Mariem (aka Vic) è già tracciato ed è identico a quello di sua madre: lavorare di notte, quando i ricchi dormono, pulire i loro uffici, le loro abitazioni, servirli nell’ombra. Anche per questo, i poveri sono un mistero:
Perché i poveri sono così, sono una sorpresa permanente. Hai voglia a cercare di limitare
al massimo i rischi della sorpresa e di spiegare in modo chiaro, anzi chiarissimo, quello che sta succedendo, prima in dieci frasi e poi in cinque; hai voglia a reclutare team di grafici, di psicologi e di sociologi, di educatori di montagna, di spie nascoste dentro i computer: alla fine, le urne danno il loro verdetto e dopo è troppo tardi. O peggio:
non c’è nessun verdetto, silenzio.
Il feticismo verso gli oggetti dei poveri da televisione rispetto a quello dei non-poveri, non è diverso nelle dinamiche, quanto nell’intensità con la quale si dà come fenomeno. In Stand up (2014) Quintane sostiene come i poveri partecipino dell’oggetto a un livello superiore:
Consapevoli come siamo del fatto che se davvero riusciamo a raccontare cosa sia un povero è solo perché noi non siamo più poveri, o solo perché
non siamo più completamente poveri.
Per i poveri l’oggetto diviene il feticcio di un rinnovato destino da conquistare. D’altronde, la posta in gioco per un’automobile è direttamente proporzionale al tempo trascorso alla fermata dell’autobus o su di una banchina, in attesa di un treno suburbano, qualora non sia stato soppresso per dare spazio all’alta velocità. Per chi ha conosciuto solo la puzza della metropolitana, si arriva a un livello superiore di partecipazione all’oggetto e “di colpo, mentalmente, la vetrina esplode, come se ci fosse un’insurrezione”.
Le attese nei pressi delle pensiline sono i luoghi nei quali i non poveri potrebbero fare esperienza ravvicinata delle soggettività ai margini. Si tratta di spazi neutri nei quali le classi sociali si mescolano, senza contaminarsi.
Quintane suggerisce che le attese nei pressi delle pensiline sono i luoghi nei quali i non poveri potrebbero fare esperienza ravvicinata delle soggettività ai margini. Si tratta di spazi neutri nei quali le classi sociali si mescolano, senza contaminarsi. Del resto, le ambientazioni legate ai mezzi di trasporto pubblici sovente sono presenti nel cinema di critica sociale. In Senza tetto né legge Mona e i suoi compagni di viaggio bivaccano in una stazione ferroviaria, zona franca per chi non ha padroni e terra di confine fra le classi. In Bande de filles Mariem si muove in autobus e in metropolitana, dove i binari separano le faide tra bande. Sia sullo schermo, sia nelle periferie delle città i trasporti pubblici fungono da luoghi di interconnessione fra soggettività agli antipodi. Lo racconta Pietro Marcello in Il passaggio della linea (2007), dove per sessanta minuti si attraversa l’Italia a bordo di un treno notturno, sul quale viaggiano principalmente lavoratori, da sud a nord. Il titolo del film celebra il romanzo di Georges Simenon, dal quale Marcello ha estratto una frase, scelta per aprire il documentario:
Tre volte ho attraversato la linea di confine, la prima volta di frodo, con l’aiuto di un contrabbandiere, in qualche modo, almeno una volta legittimamente, sicuramente sono stato uno dei rarissimi che sono tornati di spontanea volontà al punto di partenza.
Il primo viaggiatore a rivolgersi alla telecamera è un uomo anziano dagli occhi chiari di nome Arturo. Dice che in treno la casa è assicurata, di aver sempre seguito la corrente del destino che lo ha portato a fare il pezzente, quindi a diventare “il più potente del mondo”. Una premessa alle immagini che scivolano fuori dal finestrino del treno, mentre i passeggeri nominano Poggio Reale, Velletri, la 167 o Scampia, parlano di decreti di espulsione e delle ingiustizie incassate sin dall’infanzia. Gli annunci sonori scandiscono gli arrivi e le partenze, gli sportelloni sbattono, componendo la colonna sonora assieme alle musiche di Marco Messina e Mirko Signorile. Lungo il tragitto, Marcello non intervista i passeggeri, ma li ascolta mentre si lasciano trasportare dai pensieri della notte. Ogni confidenza è intervallata da transizioni che assomigliano a carrellate diegetiche. La camera inquadra lo scorrere dei paesaggi fuori dal finestrino della carrozza e lascia che i tralicci, le luci, i cantieri, i palazzi delle periferie e le mareggiate diano forma al filo della narrazione. I poveri sono in movimento dalle periferie al centro, verso gli oggetti del loro desiderio, orientati dalla fame e dalla ricerca di uno status sociale diverso da quello assegnato dalla società che li respinge. I poveri sono in movimento quando insorgono in sommosse, senza alcuna guida. Chi partecipa alle insurrezioni fa parte del popolo, la comunità di chi non ha un posto, così come lo intende Quintane in Pomodori:
Un popolo è ciò che si mette in campo per sfuggire all’invisibilità decretata dall’assenza di controllo
sul destino sociale dei singoli. Il Popolo è la risposta attraverso i fatti (attraverso il popolo) alla mancanza di esistenza nella vita collettiva.
Il Popolo sarebbe ciò che si mette in campo, ciò che esercita un potere (per esempio quello di assumere
il controllo della strada e degli spazi pubblici, quello
di saccheggiare, distruggere o costruire in modi alternativi) quando non ci sono altre possibilità.
Nello spazio urbano abitato dal popolo si sfugge al controllo delle istituzioni e si innescano altre pratiche comunitarie, come quelle documentate nel centro storico di Genova in La bocca del lupo (2010). Pietro Marcello entra nella casa dove Mary, una donna trans, ha aspettato a lungo il ritorno dal carcere del suo compagno siciliano, Enzo. Nel documentario si susseguono le registrazioni che i due innamorati utilizzavano per comunicare quando erano entrambi incarcerati e che il regista utilizza per ripercorrere la loro storia. Una voce fuori campo lirizza le loro vicende, in una Genova abitata da persone provenienti da diverse parti del sud del mondo, accomunate da destini simili. Nei vicoli bui attraversati da rivoli di luce gialla, al di fuori dallo sguardo delle istituzioni, trovano spazio i reietti, gli emarginati da una società che affastella i poveri, stavolta compresi in un’unica accezione, tutti nello stesso spazio. Eppure, nel documentario La bocca del lupo l’altro lato della gentrificazione, che ghettizza e nasconde gli indesiderati, è svelato nel suo ordine alternativo, dove le soggettività oppresse sono solidali fra loro e creano comunità, perché “il popolo non può mai essere quello che uno si aspetta che sia, anzi il popolo è esattamente quello che uno teme quando sta dalla parte di chi nella società un posto ce l’ha”.
Il passaggio di linea e La bocca del lupo sono due documentari dal linguaggio lirico, dove lo sguardo del regista si dissolve; ciò che resta può essere definito come espressione di un realismo poetico, che accomuna chiunque tenti di avvicinarsi agli ultimi senza pretendere di poterli comprendere in un’inquadratura, in un paragrafo o nel verso di una poesia. Solo così è possibile trattenere lo scarto tra i non poveri e i poveri poiché, parafrasando il celebre verso di Friedrich Hölderlin, “ciò che resta lo fondano i poeti”.