“E ro sdraiato nel letto e deliravo, rimasi in uno stato allucinatorio per circa 24 ore. Avevo in mente questa visione, un luogo che era una sorta di grande edificio, come un moderno albergo, con tutte queste stanze di cemento. C’era un occhio elettronico che scrutava ogni cosa. In una stanza c’era una coppia che faceva l’amore, ma senza amore. Era un sesso freddo, con libri e gadget e così via. In un’altra stanza c’era qualcuno che non faceva altro che guardarsi allo specchio, ossessionato da se stesso. In un’altra stanza c’era un musicista con un bancone di sintetizzatori, indossava delle cuffie, e non si sentiva alcun suono. Era un luogo terribile, tetro. Ognuno era preso egoisticamente da una attività che lo costringeva in un loop. Non erano prigionieri, erano tutti molto attivi, ma interagivano solo con loro stessi. E questo gli impediva di essere un problema o una minaccia per il freddo ordine rappresentato dall’occhio. Un paio di giorni dopo ero in spiaggia a prendere il sole e improvvisamente mi balenò in mente una poesia. Iniziava con ‘sono il proprietario del Penguin Cafe, vi dirò cose a caso’, e andava avanti parlando di quanto la casualità, la spontaneità, la sorpresa, l’inatteso fossero elementi preziosi nelle nostre vite. E del fatto che se sopprimi tutto questo per avere una vita bella e ordinata, uccidi le cose più importanti. Mentre nel Penguin Cafe il tuo inconscio può semplicemente esistere così com’è. Lì è accettabile, lì tutti la pensano così. C’è una capacità di accettare che ha a che fare con il vivere il presente senza avere paura di se stessi”.
Tutto inizia da una visione distopica, disumana, manifestatasi durante una brutta intossicazione alimentare di cui Simon Jeffes è vittima nell’estate del 1972, mentre si trova nel sud della Francia. Una visione spaventosa che però ne contiene al suo interno una speculare, questa volta utopica. Non una banale fuga nell’immaginazione, ma l’invenzione di uno spazio ideale in cui coltivare una nuova sensibilità, un umanesimo gentile, zen. In quel momento Simon Jeffes ancora non lo sapeva, ma qualche anno dopo quell’oasi di pace in cui, sono ancora parole sue, “dire un grande sì alla sopravvivenza del cuore in un’epoca in cui il cuore stesso è sotto attacco delle forze della freddezza, dell’oscurità e della repressione”, sarebbe esistita davvero. Solo che non si sarebbe trattato di un luogo fisico. Il Penguin Cafe sarebbe stato una musica, e l’orchestra che la eseguiva di volta in volta, di disco in disco, di tour in tour. A vent’anni esatti dalla prematura scomparsa del suo fondatore, avvenuta l’11 dicembre 1997, la Penguin Cafe Orchestra ha ancora parecchie cose da dire: l’idea di una musica strumentale che mescola geografie reali e immaginarie, suggestioni lontane nello spazio e nelle epoche, giocando con esotismo e surrealismo, fuori dal tempo e da coordinate precise e per questo incapace di invecchiare, è più attuale che mai.
Fino al 1976 l’Orchestra era esistita solo nella mente di Jeffes, e nella pratica di registrazioni sporadiche effettuate, con un ensemble variabile, nello spazio di quattro anni, mentre il musicista arrangiava dischi di Caravan e Kevin Ayers e per un certo periodo si era quasi convinto di poter diventare un cantante reggae. Era stato Brian Eno a imbattersi in quei nastri, adoperandosi immediatamente per pubblicarli sulla sua personale etichetta discografica, Obscure, il cui catalogo fotografava le tendenze più interessanti della musica sperimentale, raccolte, divulgate e filtrate dalla personale sensibilità del teorico della ambient music. A differenza di altri dischi targati Obscure, la musica di Jeffes e dei suoi adepti possedeva una indefinibile vena malinconica, accompagnata da uno humour surreale e sottile, una leggerezza confortevole, avvolgente, quasi impalpabile.
Non assomigliava a nient’altro che si potesse ascoltare all’epoca: i musicisti coinvolti avevano basi solidissime, ma si voleva mantenere il tutto in una dimensione naive, non finita, quasi dilettantesca. Era musica da camera fai da te, incisa con una economia di mezzi che riguardava non solo il budget (appena 870 sterline) ma anche l’attitudine. Una formula che permetteva di gestire con naturalezza incongruenze e paradossi spazio-temporali. Ad esempio in Giles Farnaby’s Dream, dove la melodia rinascimentale del compositore Giles Farnaby, con tanto di clavicembalo, veniva rapita da movenze folk sudamericane e trascinata su ritmi ballabili dagli strumenti a corda: immaginate La Bamba suonata in una corte europea rinascimentale. Ma anche una musica grazie alla quale si poteva sprofondare dolcemente in un intimismo minimalista e malinconico, con titoli che facevano riferimento al suono di una persona che ami che se ne va e non importa. Note che si prestavano a infinite suggestioni: il decano dei critici rock italiani, Riccardo Bertoncelli, scriverà pagine ispiratissime a partire da certe suggestioni “coloniali” (From The Colonies si intitola, appunto, uno dei brani), immaginando le note dell’orchestra fare da colonna sonora alle storie di Corto Maltese.
Con gli anni l’Orchestra, mentre Jeffes continua a lavorare per gli altri (è suo l’arrangiamento della My Way che Sid Vicious interpreta in The Great Rock ‘n’ Roll Swindle, documentario sui generis di Julien Temple dedicato ai Sex Pistols, nella celebre scena della sparatoria sul pubblico), diventa una realtà sempre più concreta, con tanto di prove, concerti, una formazione stabile di dieci elementi, e nuovi album. Il primo dei quali, omonimo, esce a cinque anni dall’esordio. Sulle copertine, dipinte dalla compagna dell’epoca di Jeffes, l’artista Emily Young, pinguini antropomorfi di gusto surrealista sono protagonisti di scene di vita quotidiana tra i muri di infinite varianti del Penguin Cafe.
Sul finire degli anni Ottanta il fenomeno world music è sempre più sotto i riflettori e l’abuso del termine spinge Jeffes a cercare un nuovo assetto, per certi versi più rigoroso.
Per quanto riguarda la musica, da lì in poi vale tutto o quasi: un harmonium semi funzionante abbandonato per le strade di Tokyo dà vita a una delle pagine più memorabili del repertorio (Music For a Found Harmonium), mentre utilizzando il segnale telefonico della British Telecom, trasformato in un morbido riff circolare, si inventa Telephone and Rubber Band, musique concrète per l’era delle telecomunicazioni, con una irresistibile vena pop. L’Orchestra attraversa tutti gli anni Ottanta con l’eleganza discreta che gli è propria, allargando i propri orizzonti, adagiando talvolta le proprie partiture minime di pianoforti, archi e fiati su ritmi in levare, giocando in modo creativo e sempre leggiadro con moduli ripetitivi. Appare addirittura alla televisione britannica, dove mostra agli spettatori la propria ritualità: tutti quanti vestiti da orchestrali, in circolo, seri ma non troppo, Jeffes a dirigere con aria divertita, imbracciando vari strumenti oppure seduto al pianoforte.
Sul finire di quel decennio l’aspetto più legato al folklore immaginario, alle poetiche incongruenze spazio-temporali, passa un po’ in secondo piano. Il fenomeno world music è sempre più sotto i riflettori, l’abuso del termine spinge Jeffes a cercare un nuovo assetto, per certi versi più rigoroso, senza perdere di vista gli elementi più ludici e un britannicissimo understatement che è ormai diventato la cifra poetica del progetto.
Gli ultimi anni di attività sono all’insegna di un ripensamento del repertorio, con un crescente perfezionismo, la voglia di ripercorrere i propri passi, spesso documentando l’operazione in dischi dal vivo. Non sembra un problema di insoddisfazione personale o di calo di ispirazione, piuttosto è il tentativo di limare un canone da trasmettere ai posteri. L’ultimo disco dell’Orchestra esce nel 1993, si chiama Union Cafe e tutto sommato passa un po’ inosservato, anche se l’affezionato e trasversale pubblico dei fan è, ovviamente, in prima fila. Molti, va detto, conoscono la PCO senza saperlo, avendone sentiti i brani, nel frattempo, in innumerevoli spot, documentari, servizi giornalistici.
Riascoltato in queste settimane, grazie all’etichetta Erased Tapes, punto di riferimento per gli amanti delle musiche a cavallo tra sperimentazione neocameristica e fruizione pop che lo ha stampato per la prima volta in vinile, Union Cafe ci sembra un perfetto riassunto del percorso artistico di Simon Jeffes. Dall’inizio a tempo di ragtime di Scherzo And Trio (attualmente sigla della trasmissione Le Storie su Rai Tre: sul successo di Jeffes come autore involontario di musiche per sonorizzazione si potrebbe scrivere un altro articolo) alla chiusura poetica di Passing Trough (il suono da registrazione sul campo che cattura un frammento di giga e, dopo una pausa, l’acqua che gocciola da un lavandino formando una suggestiva trama sonora, poco prima di scomparire nel nulla), passando per l’omaggio allo scomparso John Cage, Cage Dead, brano solenne e dilatato composto a partire dalle lettere del titolo (con la notazione anglosassone: C per Do, A per La, G per Sol, E per Mi e via dicendo).
Dopo questa uscita, la vita pubblica dell’Orchestra, a seguito di un periodo di intensa esposizione, si interrompe. Jeffes si concentra sullo studio del pianoforte, si trasferisce in campagna, nel Somerset, nei pressi di Glastonbury, dove ha acquistato una villa e l’ha trasformata in un accogliente studio di registrazione. Il destino ha però in serbo un brutto scherzo. Nel 1996 gli viene diagnosticato un tumore inoperabile al cervello, e pochi mesi dopo muore, all’età di 49 anni. Fine della storia? Non esattamente.
Nel 2007 il figlio di Simon, Arthur, anche lui musicista, si riunisce ad alcuni componenti storici dell’Orchestra per omaggiare il repertorio paterno: “Mi sono ritrovato con i vecchi musicisti di mio padre, quelli della formazione originale”, ci dice, raggiunto via email,
e abbiamo suonato tre concerti a Londra per commemorare tutto ciò che aveva a che fare con il Penguin Cafe. Le cose non sono ripartite a pieno regime da lì in poi, ma in qualche modo si è riaperta una porta e lì è iniziato un nuovo percorso, per far conoscere la storia del Penguin Cafe a una nuova generazione. Alla fine, ho pensato, c’è tutto un mondo musicale legato a qualcosa che mio padre aveva scoperto/inventato, un territorio che fino alla morte aveva esplorato a fondo. Però ci sono ancora parecchi frammenti della mappa da scoprire, ed è ciò che stiamo facendo adesso.
Quest’anno Erased Tapes ha pubblicato The Imperfect Sea, terzo album della nuova fase (in cui sparisce “Orchestra” dal nome del progetto, giusto per ribadire che l’attitudine resta ma le persone cambiano), un disco che contiene una sola rilettura dell’antico repertorio, e mette sul piatto un tentativo riuscito di allargare il discorso a nuovi generi – ambient, minimalismo, drone music – con in mente l’idea di realizzare un disco di musica elettronica suonata con gli strumenti. La visione distopica che cambiò la vita a Simon Jeffes è ancora lì, e probabilmente è ancora più concreta, minacciosa e vicina di allora. Ma Arthur possiede lo stesso ottimismo del padre: “Nella sua idea il Penguin Cafe rappresentava un antidoto, ma anche una risposta alla deumanizzazione. Più creiamo, per vivere, degli ambienti costrittivi intorno a noi, più reagiamo in modo creativo dando vita a delle connessioni tra individui, entrando in contatto con la nostra umanità – senza voler mettere il tutto in una prospettiva troppo drammatica. A me sembra più interessante questo scenario, quello in cui più preoccupante diventa la situazione intorno a noi, più diventiamo creativi e creiamo delle connessioni umane per riequilibrare la situazione”.