L e femmes aussi sont du voyage è il titolo originale di Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione (Tlon), il saggio della giornalista e femminista francese Lucie Azema. Il titolo francese, così assertivo, è più fedele allo spirito battagliero di questo saggio che è insieme un manifesto per viaggiatrici e una riflessione sul viaggio come scoperta di sé e di conseguenza anche come “itinerario di emancipazione”. Azema, classe 1989, parte da due presupposti importanti; uno scontato, l’altro molto meno. Il primo è che il viaggio è stato, nei secoli, una prerogativa maschile. Ulisse viaggia, Penelope lo aspetta. Ulisse compie imprese leggendarie, a sua moglie va il merito dell’attesa. Per viaggio non intendiamo “vacanza”, ma avventura, rito di passaggio, partenza come punto di rottura esistenziale. L’altro presupposto, altrettanto importante, è che viaggiare significa abitare il mondo, occupare uno spazio che noi donne “avremmo preso facilmente se fossimo stati uomini”: da qui l’approccio femminista di un libro che può anche essere letto come un manuale di autodeterminazione. Il viaggio diventa il luogo ideale per smontare, uno a uno, tutti gli stereotipi di genere, tutti i cliché sul corpo delle donne, sulla violenza maschile, sulla sicurezza e infine su quella che in assoluto è per le donne la conquista più difficile e agognata, più desiderata e controversa: la libertà.
Il libro è diviso in due parti, la prima si chiama “Essere libera di viaggiare”, la seconda “Essere libera per viaggiare”: tra queste due preposizioni c’è un mondo. Nella prima parte del volume Azema racconta come il viaggio sia stato una “fabbrica della maschilità”. Il termine testicolo viene dal latino testis che significa “testimone”: i testicoli sarebbero dunque “testimoni della virilità”. La filosofa Olivia Gazalé parla di “ossessione della prova virile” e di un sistema “viriarcale” anziché patriarcale: la definizione è perfetta per l’uomo avventuriero che è esentato dai doveri paterni e può esercitare la sua virilità andando a far visita nei bordelli in giro per il mondo. Fermarsi qualche annetto con Calipso, per intenderci. Azema passa in rassegna tutti i miti del viaggio al maschile, le fanfaronate, le menzogne, lo sprezzo del pericolo (a volte un tantino esagerato). Sono pagine molto divertenti anche per i lettori maschi che vedranno andare in frantumi alcuni capisaldi dell’immaginario collettivo. La leggenda di “prima le donne e i bambini” in caso di operazioni di salvataggio, per esempio, è perlopiù un mito: l’ordine viene dato per la prima volta soltanto nel 1852, e acquisterà notorietà con il Titanic nel 1912; tuttavia la verità è che, in questi casi, la legge del più forte ha sempre la meglio nel corso della storia. Le donne sono sempre state svantaggiate nella fuga.
Innumerevoli sono le piccole esagerazioni o infiorettature degli scrittori di viaggio, come ad esempio Pierre Loti o Chateubriand che raccontano le loro imprese eroiche, salvo poi essere smentiti dai più veritieri racconti dei loro domestici o accompagnatori (per leggerne altri di molto divertenti consiglio Secrets de voyage di Jean-Didier Urbain). A volte la menzogna può rappresentare un modo per eludere la rovina, come della storia famosissima di Donald Crowhurst, l’uomo che nel 1968, partito per il giro del mondo in solitario lasciando a casa la moglie e quattro figli, una volta a bordo della sua barca a vela si accorge di non essere in grado di portare a termine l’impresa. Invece di tornare indietro o chiedere aiuto, falsifica le posizioni e la velocità, redige un falso diario di bordo, fino a interrompere ogni contatto con la terraferma e farci ipotizzare un suicidio.
Per secoli e secoli le donne che volevano avventurarsi in mare dovevano travestirsi da uomini. Perché in Italia le donne vengano accettate nella Marina Militare bisogna aspettare il 2000.
Il bisogno di dimostrare, di testimoniare la propria virilità avventurosa è tragicamente vero nel caso di questa incredibile vicenda. Eppure, per millenni il mondo marittimo delle esplorazioni è stato quanto di più inaccessibile alle donne, considerate “persone non gradite” a bordo, al pari di conigli e preti. Per secoli e secoli le donne che volevano avventurarsi in mare dovevano travestirsi da uomini. Perché in Italia le donne vengano accettate nella Marina Militare bisogna aspettare il 2000 e in Francia il 2002. Come riassume bene Azema: “Se gli uomini raccontano avventure che non hanno mai vissuto, le donne vivono le avventure che non racconteranno mai”.
C’è poi la questione dell’erotizzazione del viaggio e della colonizzazione, di nuovo tipicamente maschili e legati al concetto di dominio. I luoghi da visitare sono sempre popolati di bellezze locali possibilmente esotiche (ancora una volta pensiamo al mito di Calipso). La donna fa parte del bottino, è moneta di scambio per viaggiatori e pirati. Del resto, quando si parla di viaggi, le donne avevano fino a qualche tempo fa un ruolo decorativo. L’esempio che fa Azema è quello delle assistenti di volo, deputate a soddisfare gli occhi e i capricci dei viaggiatori. Oltre ai requisiti fisici in odore di razzismo richiesti alle assistenti di volo (avere un “naso largo” era vietato, scrive Gloria Steinen in My life on the road), le hostess dell’Air France fino al 1968 non potevano sposarsi (pena il licenziamento) e quelle della Qatar Airways fino al 2015. L’autrice passa poi a demolire – in modo talvolta un po’ severo e schematico, ma interessante – alcuni miti. Da Jack Kerouac, misogino fino alla caricatura, a Paul Gauguin o Rudyard Kipling con il loro sguardo a dir poco coloniale, ma non risparmia nemmeno uno dei più famosi e bravi scrittori di viaggio della contemporaneità: Sylvain Tesson. Del resto, sono proprio i racconti di viaggio e la letteratura coloniale ad aver contribuito a preparare il terreno, “feticizzando le donne e erotizzando i territori”, per un’attività oggi ancora tristemente diffusa: il turismo sessuale. Per “decolonizzare” il viaggio, suggerisce Azema, occorre decolonizzare l’immaginario, resistere alla tentazione di concepire ogni Paese come isola prodotta dalle proprie fantasie, imparare la lingua del posto, studiare la grammatica.
Nella seconda parte del libro l’autrice affronta vari aspetti del rapporto tra donne e viaggio, a partire dalla sua esperienza di viaggiatrice solitaria pronta a percorrere strade tortuose. “Odio fare le valigie, ma mi piace tantissimo disfarle”, scrive Azema che ha viaggiato e vissuto in Libano, India, Turchia e nel 2017 si è trasferita a Teheran. Partendo da sé, e dalle rinunce fatte a favore di una vita tanto avventurosa e libera quanto difficile e solitaria, Azema passa in rassegna tutti gli sforzi e i sacrifici compiuti dalle donne per poter – a un certo punto della storia – prendere parte al viaggio. “Prima di viaggiare, le donne hanno dovuto, innanzitutto, uscire”, scrive.
Per decolonizzare il viaggio occorre decolonizzare l’immaginario, resistere alla tentazione di concepire ogni Paese come isola prodotta dalle proprie fantasie.
Altro pregiudizio importante da superare, in particolare nel nostro Paese, è quello della solitudine. “La solitudine è socialmente inammissibile per una donna perché implica necessariamente un’assenza, un vuoto da riempire”. La donna che viaggia da sola è libera, e libera perché sola. Con l’aiuto e le testimonianze di alcune mitiche avventuriere del passato come Isabelle Eberhardt, Alexandra David-Néel, Isabella Bird o Karen Blixen, Azema spiega come le donne si siano lentamente liberate dei loro fardelli più pesanti. A partire da quello che lei chiama il “carico estetico” ovvero l’obbligo di abbigliarsi in maniera appropriata, di indossare corsetti e crinoline e partire con interi bauli. Famosa è la storia della giornalista Nelly Bly che quando decise di fare il giro del mondo in 80 giorni e ne parlò con il suo capo, le fu detto, per tutta risposta, che nessuna donna avrebbe potuto compiere questa impresa: sarebbe partita con troppi bagagli. Nelly Bly si fece allora cucire un unico abito che avrebbe indossato per i successivi tre mesi. Porto con sé anche un bustino di seta, due cappelli, tre velette, un paio di pantofole e un vasetto di crema idratante che in seguito rimpiangerà di aver portato. Quando a bordo di una nave in Egitto incontra un giovane che le confida di aver sempre represso il desiderio di innamorarsi perché non si aspettava di incontrare una donna che viaggiasse senza un gran numero di bagagli, Nelly si accorge che il giovane si cambia tre volte al giorno. Gli domanda allora quanti bauli avesse con sé. La risposta fu: diciannove.
Il libro affronta anche due grossi temi, quello della sicurezza e quello della maternità. Il fattore di rischio è quello che frena molte donne dal viaggiare da sole, ma al contempo è anche il corollario della libertà. Sono rare, scrive Azema, le viaggiatrice morte perché donne. Molte di loro hanno campato e viaggiato fino a tardissima età, come Freya Stark o Ella Mailart. “Viaggiare è affittare la gioventù a tempo indeterminato”, scrisse Alexandra David-Néel, la prima donna a viaggiare in Tibet. La “maternità vagabonda” è una questione che meriterebbe un libro a sé: in passato le donne rinunciavano o abbandonavano i loro figli se volevano intraprendere la vita dell’avventuriera. Oggi è un po’ diverso e c’è chi viaggia con prole, benché la madre viaggiatrice sarà sempre “più sospetta, mentre il viaggiatore può utilizzare la paternità come leva per esaltare la sua aura virile ed eroica”.
Lucie Azema nel suo libro è riuscita a miscelare teoria e pratica, aneddoti e riflessioni non scontate. Per chi ha viaggiato da sola o ha conosciuto donne che lo hanno fatto è un libro rassicurante, quasi un balsamo protettivo. Per chi non ha mai avuto il coraggio di farlo è un invito irrinunciabile a partire. Ho sentito una forte sorellanza con l’autrice, nonostante Azema potrebbe essere mia figlia. Mi sono sentita in totale sintonia con il suo spirito di lettrice-viaggiatrice, spinta a partire soprattutto dalla voglia di spaesamento e di un altrove che non dominiamo. Come Azema, sono per l’indugio: non mi interessa “viaggiare” ma restare in un posto. Fare la spesa, andare al cinema, entrare nelle case delle persone. “In realtà, per molti aspetti non sono una viaggiatrice”, scrive Azema. “La traversata mi seduce meno dell’attracco, amo gli arrivi più delle partenze. Cerco il tempo lungo, la sua densità, la sua profondità – la complessità della realtà, accessibile solo se si resta. Il viaggio esige l’indugio”. Il senso ultimo del viaggio è proprio un costante esercizio di umiltà: rifiutare di essere dominate significa anche rifiutare di dominare. E tentare di creare un rapporto alla pari con il mondo.