N egli anni 70 e 80 un nuovo tipo di rivista ha cominciato a diffondersi nelle città americane. Vagamente ispirati al formato del “Village Voice”, erano pubblicati con cadenza settimanale, anziché quotidiana, e la maggior parte di loro aveva un orientamento di sinistra anti–establishment, al contrario dei quotidiani, con la loro continua tendenza al mainstream. In quella lontana epoca pre–internet, i settimanali alternativi erano anche la fonte migliore di informazioni sulla musica dal vivo e qualsiasi altro evento locale. Erano disponibili gratuitamente (come avviene anche adesso) nelle caffetterie, nelle librerie e nei distributori di giornali piazzati per strada. E gli editori facevano profitti grazie agli annunci pubblicitari. (I “coffee shop” statunitensi sono diversi dai caffè italiani: sono luoghi dove i clienti stanno seduti anche per ore, leggendo, lavorando o facendo altre cose. L’ambiente perfetto dove diffondere riviste orientate ad un pubblico giovanile). Per me la cosa più significativa di questi settimanali alternativi (o “alt–weeklies” come vengono chiamati attualmente) era il fatto che pubblicassero fumetti. Grazie al loro approccio editoriale più aperto, un nuovo genere di fumetti cominciò ad emergere e a radicarsi nella stampa alternativa. Lavori che erano troppo sperimentali, o avanguardisti, o politicamente espliciti, per trovare spazio in qualunque altro luogo. Era una forma d’arte cresciuta con e per i settimanali alternativi, e alla fine è stata gettata via come robaccia inutile quando i tempi si sono fatti più duri e le entrate pubblicitarie si sono assottigliate. Ma di questo parlerò più avanti.
Se il fumetto può essere descritto come il parente povero dell’arte americana, allora i cartoons pubblicati dai settimanali alternativi americani sono stati il parente povero del parente povero. C’è stata gente molto in gamba che ci ha provato per anni. Alcuni sono riusciti a resistere, altri no. Nei giorni degli esordi e prima di chiunque altro, sul “Village Voice” c’era Jules Feiffer, il capostipite di tutti noi. E quelli che sono arrivati dopo hanno nei suoi confronti un enorme debito di gratitudine per aver messo in moto le cose. Più tardi, nei 70 e negli 80, vivevo a New York, sopravvivendo con spaghetti liofilizzati e leggendo il “Village Voice” quando me lo potevo permettere (prima che adottassero il modello a diffusione gratuita). A quel tempo c’era la folle e intricata “MacDoodle Street” di Mark Alan Stamaty (più tardi ribattezzata “Washingtoon”), c’era Stan Mack con la voyeuristica “Real Life Funnies”, dove gli episodi prendevano mezza pagina di giornale. E poi venne la generazione successiva, l’età dell’oro, il “baby boom” del nostro piccolo settore, quando i settimanali indipendenti erano all’apice del successo e hanno prodotto delle star come Matt Groening e Lynda Barry.
Anche se è stata pubblicata soltanto in settantacinque testate, Lynda era una rockstar: divenne un’ospite regolare del “David Letterman Show”, la conoscevano tutti. E Matt… beh, tutto il mondo ha sentito parlare dei Simpson, anche se per me Matt sarà sempre e prima di ogni altra cosa il genio che ha partorito “Life in Hell”, uno di quei fumetti che mi hanno ispirato a fare quel che poi ho fatto nella vita. Nel 1983 ho vissuto per un periodo in un sobborgo di Chicago, facendo il pendolare in città per uno sconfortante lavoro di bassa lega negli uffici di una grande agenzia pubblicitaria, e una delle cose che attendevo con ansia ogni settimana era il nuovo numero del “Chicago Reader”, una testata incredibilmente attenta agli amanti del fumetto, che pubblicava molti pionieri del nostro piccolo settore: Matt e Lynda, Charles Burns col suo “Dog Boy”, mi sembra che ci fosse anche Gary Panter, e forse anche “The Angriest Dog In The World”, una strip del regista David Lynch, che ogni settimana proponeva le stesse vignette variando solamente i testi. In quel periodo mi sono capitati in mano i lavori grandiosamente strani di Norman Dog, che pubblicava le sue strip sull’“East Bay Express”, e che più tardi sarebbe diventato un amico col quale avrei condiviso lo studio per molti anni, dopo essermi trasferito a San Francisco.
E in effetti c’erano molti di noi nella “Bay Area” di San Francisco all’epoca. Ma non ci facevo molto caso, neppure quando una allegra combriccola di cinquanta, a volte anche cento fumettisti si incontrava tutti i mesi al bar. Sembrava così normale: in fondo chi è che non vorrebbe fare fumetti? Mi piaceva. E anche molto. Ed era quello che volevo fare. E intendo proprio fumetti per settimanali alternativi, al di fuori del rigido formato delle pagine dedicate ai fumetti sui quotidiani, ma anche fuori dal recinto delle fumetterie. Queste riviste ti davano l’opportunità di raggiungere un pubblico totalmente differente. Ed ero abbastanza fortunato – incredibilmente fortunato – da riuscirci, da ritagliarmi uno spazio tutto per me. A quei tempi sembrava che non ci fosse più spazio per nuovi fumetti, era tutto già occupato. A pensarci adesso era davvero un periodo perfetto, ma mentre ti accade non ti rendi conto di quanto sei fortunato ad avere l’età giusta al momento giusto. Di sicuro i fumettisti della mia generazione non sarebbero mai diventati un Jules Feiffer, e non avrebbero mai avuto la sua rilevanza o la sua ubiquità, perché quell’epoca era finita. Non saremmo stati neppure come Matt e Lynda, il “duo dinamico” che dominava i settimanali alternativi negli anni 80. Ma ci siamo fatti valere ugualmente: Derf, Max Cannon, il sottoscritto, Lloyd Dangle, Ruben Bolling, Ward Sutton, Ted Rall, Keith Knight, Carol Lay e Tony Millionaire. Perfino il mio vecchio amico Dave Eggers, prima di diventare “il famoso autore Dave Eggers” aveva una strip intitolata “Smarter Feller” sul “SF Weekly”, che comprendeva tra i suoi vari personaggi anche una borsetta parlante.
Quelli che sono arrivati dopo di noi hanno dovuto aprire strade completamente nuove. Il mio amico Matt Bors è riuscito a convincere la First Look Media a finanziare “The Nib”, un magazine di fumetti online che ospita i lavori di molti artisti che in passato sarebbero stati pubblicati sugli alt–weeklies. Ho contribuito a creare una sezione di fumetti sul sito liberal “Daily Kos”, che pubblica anche Matt, Jen Sorensen e altri. Brian McFadden è presente ogni settimana nel “New York Times Sunday Review”. È un peccato che l’importanza dei cartoons per gli alt–weeklies sia stata costantemente ignorata, dimenticata e messa da parte col passare degli anni, ma il mondo cambia, e devi adattarti. Che altro potremmo fare? In ogni caso, come dicevo, mi considero fortunato. Non ho avuto un lavoro vero per venticinque anni, almeno non quel tipo di lavoro dove devi essere in un certo posto ad un determinato orario, per fare quello che fa la gente con lavori veri.
Non sono nemmeno sicuro di quale sia stato il mio ultimo lavoro vero, perché non c’è mai stata una chiara linea di demarcazione, un momento specifico dove mi sono alzato in piedi annunciando con grande passione che qualche datore di lavoro avrebbe potuto prendere il suo lavoro e ficcarselo in quel posto (per usare le parole di un noto pezzo di musica country). La mia vita nei reparti artistici degli uffici si è conclusa piuttosto in sordina: ad un certo punto ho semplicemente terminato una giornata lavorativa, ho salutato le persone con cui lavoravo, e non ho mai avuto l’esigenza di tornare indietro. E venticinque anni di indipendenza non sono una cosa da poco. C’è stato ovviamente un prezzo da pagare, come per tutte le cose: nel mio caso è stata una costante e inesorabile scadenza settimanale che pendeva sulla mia testa come una spada di Damocle, dettando il ritmo della mia vita per ogni ora di ogni giorno di questi venticinque anni. Sopravvivo da un’idea all’altra, e ogni settimana mi porta su un nuovo campo di battaglia dove io sono da un lato e il resto del mondo è dall’altra parte.
Uno dei trucchi per mantenere questo tipo di indipendenza è fare in modo di non lasciare i tuoi mezzi di sussistenza in mano ad una sola persona. Cerchi di tenere il piede in due staffe, o di “mettere le uova in molti panieri”, come diciamo noi americani. E per un po’ di tempo pensavo di aver capito come farlo. Pensavo con orrore all’idea di essere incorporato alla redazione di un singolo giornale. Diffondevo i miei fumetti col sistema delle “syndication” [negli Usa, l’equivalente delle agenzie di stampa per i fumetti, NdT] vendendoli al maggior numero possibile di alt–weeklies. E se ogni tanto perdevo qualche giornale qua e là ne rimanevano comunque molti. Le mie uova erano in tantissimi panieri. Quello che non avevo messo in conto era che i panieri avrebbero cominciato a fondersi tra loro.