L’
epidemia di COVID-19 ha mostrato un’impreparazione dei governi europei, che sono passati in tempi diversi dalla difesa dello stile di vita normale e del sistema produttivo a misure emergenziali simili a quelle adottate in Cina. Filosofi e intellettuali hanno mostrato un simile spiazzamento nel tentativo di elaborare quel che sta accadendo. In molti hanno visto e vedono nell’epidemia il momento della verità – una verità già scritta – prima ancora di capire le effettive caratteristiche e conseguenze della malattia, che tuttora risultano in parte oscure. Esaminerò reazioni di puro allarme, come quella di Giorgio Agamben, e altre che colgono nell’epidemia anche un’occasione positiva, come quelle di Slavoj Žižek, Olga Tokarczuk, Arundhati Roy, Rebecca Solnit. Il compito di orientarsi in questa situazione è arduo, ma in tutte queste reazioni c’è qualcosa di spropositato: ci dicono più del nostro spaesamento precedente all’epidemia che del futuro che vorrebbero anticipare, anche se aiutano a individuare alcuni problemi con cui abbiamo a che fare. Sosterrò che di fronte alla complessità dell’epidemia, mentre ci domandiamo se le cose andranno peggio o meglio di prima, bisogna esaminare con cura le parole che mettiamo in circolo: diffidare delle certezze individuali (anche di intellettuali autorevoli), privilegiare il confronto critico sulle comuni incertezze, collegare diverse informazioni e competenze disciplinari (scientifiche e non solo), confrontare i diversi modelli culturali e politici che guidano la reazione alla pandemia. In particolare, suggerirò l’opportunità di un confronto tra le reazioni diffuse nei paesi occidentali e modelli alternativi come quello cinese, in cui si può leggere qualcosa del nostro futuro.
“Stato di eccezione”, apocalisse e falsi profeti
Mentre leggevo freneticamente dati e articoli per farmi un’idea dell’epidemia, il filosofo Giorgio Agamben ha pubblicato un post intitolato “L’invenzione di un’epidemia” (22 febbraio). Agamben ha sostenuto che “i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni”. “Stato di eccezione” – ricordiamo – è una nozione che Agamben riprende da Carl Schmitt e altri filosofi, e a cui ha dedicato molte ricerche (tra cui un libro del 2003) e indica la sospensione temporanea dell’ordine costituzionale vigente effettuata dallo stesso potere che normalmente lo garantisce – una condizione che, per esempio, è espressione della dittatura. Con queste parole, dunque, Agamben alludeva a una sorta di complotto inteso a caricare emotivamente l’allarme su quella che pareva essere invece “una normale influenza”: l’invenzione dell’epidemia avrebbe fatto parte di una strategia di abolizione del diritto. In post successivi Agamben ha difeso le sue posizioni sostenendo che “il nostro prossimo è stato abolito” senza valide ragioni. Rispetto al punto di vista scientifico, che in molti gli hanno rimproverato di aver trascurato, ha presentato i disaccordi tra i medici sulla reale entità del rischio epidemico come conflitti di tipo religioso.
Naturalmente non c’è stata nessuna invenzione dell’epidemia: sostenere, come ha fatto Agamben, che una macchinazione occulta di governo e mezzi di informazione abbia trovato in questa epidemia una nuova occasione, dopo il terrorismo, per impedire gli assembramenti e togliere il potere al popolo, ha la stessa credibilità delle tesi dei novax sul fatto che l’epidemia serva a promuovere la vaccinazione di massa e l’arricchimento delle case farmaceutiche. È anche falso che ci sia un diffuso panico, con l’eccezione, forse, di località come Bergamo, dove il continuo passaggio delle ambulanze ha sconvolto i residenti a causa appunto della realtà del contagio e delle vittime. In altre zone la preoccupazione per l’infezione si unisce a quella per la perdita del lavoro e del reddito, e c’è soprattutto un carico emotivo di fatica e irritazione per l’impossibilità di uscire, andare a lavorare, incontrare gli altri, divertirsi, soprattutto quando stare in casa significa affrontare circostanze difficili. Nell’Italia immaginata da Agamben, invece, i cittadini la pensano come i soggetti delle sue teorie: “l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita”.
Di fronte alla paura della morte i cittadini si affidano alle misure del governo, il che assomiglia a una situazione hobbesiana in cui l’individuo aliena ogni diritto a un sovrano assoluto.
D’altra parte è vero che l’epidemia ha un aspetto politico. Di fronte alla paura della morte i cittadini si affidano alle misure del governo, il che assomiglia a una situazione hobbesiana in cui l’individuo aliena ogni diritto a un sovrano assoluto. Ma a differenza della finzione hobbesiana, esistono in Italia entità intermedie della società civile – associazioni politiche, sociali e culturali, centri di ricerca pubblici e privati, e così via – che elaborano la situazione e in alcuni casi sono state coinvolte nelle decisioni del governo, che da parte sua ha la funzione di garantire la salute pubblica. Semmai si può obiettare che il governo abbia commesso errori e negato responsabilità. Anch’io ho trovato frustrante che il governo, dopo aver imposto il lockdown indiscriminato, a lungo non abbia presentato un piano di monitoraggio e trattamento dei contagi, né spiegato quali strategie sanitarie si proponeva di mettere in atto per rendere possibile l’annunciato ritorno alla circolazione delle persone e la ripresa di servizi e attività produttive e commerciali. Critiche puntuali sono formulate da settimane, sia sul piano regionale sia sul piano nazionale, mediante opportuni confronti con la situazione di altri paesi: si parla di impreparazione, anche di incapacità e responsabilità penali, il che ovviamente è ben diverso dal teorizzare un complotto. Al tempo stesso, si discute del problema giuridico della sospensione dei diritti nella cornice costituzionale di uno stato liberale e democratico, usando più opportunamente – come ha fatto Gianfranco Pellegrino – l’espressione “stato di emergenza” per designare una situazione che non è senz’altro incompatibile con la legittimità, ma va giustificata.
Rispetto a queste discussioni l’intervento di Agamben – uno dei filosofi che godono di maggior credito in Italia, che peraltro si è sempre presentato come un pensatore politico – non offre alcun contributo alla comprensione di quello che accade, ma ci dice piuttosto qualcosa su abitudini intellettuali d’origine novecentesca che sarebbe ora di abbandonare. Come ha scritto bene Davide Grasso “certa critica teorica, in ambito accademico e “militante”, ha scelto di ritagliare per sé il vezzo esclusivo ed escludente del negativo puro: si limita ad analizzare le dinamiche di potere, chiamandosi fuori dal problema decisivo che esso rappresenta anche per la trasformazione.”
Negli ultimi interventi di Agamben trovo, in particolare, un esempio di disinformazione, miopia e narcisismo intellettuale. Disinformazione, perché Agamben ha continuato a non basarsi su un’analisi approfondita dei dati (epidemiologici, giuridici, economici, ecc.) per corroborare le proprie analisi; miopia, perché ha applicato un concetto inadeguato per caratterizzare una situazione obiettiva di emergenza senza entrare nella questione dei provvedimenti di governo che sarebbero stati a suo avviso migliori per affrontarla; narcisismo, perché il concetto di “stato di eccezione” appartiene al repertorio teorico su cui Agamben ha costruito la sua figura di filosofo anti-sistema, per cui il suo intervento sembra mosso piuttosto dalla volontà di confermare i propri discorsi che di capire qualcosa di ignoto, come invece tentano di fare altri studiosi e scienziati – col risultato di convergere con le posizioni più becere degli anarchisti epidemiologici e dei complottisti.
Per capire la portata di questo modello negativo nelle attuali circostanze è interessante notare che lo stesso disprezzo della scienza si trovava, in un post di novembre, applicato al tema dell’emergenza climatica. Qui Agamben sosteneva che Greta Thunberg “crede ciecamente in quel che gli scienziati profetizzano e aspetta la fine del mondo nel 2030”, cioè appartiene a un fenomeno religioso, millenaristico, come altri “fedeli” della scienza. Non voglio sostenere un’immagine della scienza come fonte di certezze inconfutabili (quale invece la considera Agamben – e non solo lui), né difendere “gli scienziati” dall’indagine critica sulle scienze, che è oggetto del mio lavoro di ricerca da oltre vent’anni. M’interessa al contrario il metodo scientifico in quanto procedura per ridurre (ma non eliminare) l’incertezza in base a evidenze accessibili a tutti. Il punto è che Agamben argomenta le sue tesi con affermazioni altisonanti prive di giustificazione. Per esempio: “la funzione escatologica” dei profeti, “che la chiesa ha lasciato cadere”, è “stata assunta dagli scienziati”. La scienza “si è sostituita alla fede”, è “la religione del nostro tempo”. Greta Thunberg “crede ciecamente”. E d’altra parte, “le proprie scelte e le proprie ragioni […] in ultima analisi non possono essere che politiche”. Il tutto è formulato con un tono auratico, da uno scrittore che si sente autorizzato a “mettere in guardia” i propri lettori dal “dispositivo” dell’escatologia propinato dalla religione scientifica che “rafforza la fede” e “assicura la classe sacerdotale”.
Nel pensiero di Agamben ricorre questo procedimento di generalizzare un tema invocando “archeologie” e “dispositivi” (secondo lo stile di Foucault) o etimologie latine e greche (secondo lo stile di Heidegger), senza preoccuparsi abbastanza di esaminare le circostanze storiche e i contesti disciplinari dei problemi che di volta in volta esamina, mentre la “scienza” resta sempre e soltanto un dogmatismo non pensante. Così lo stesso Agamben – e il discorso varrebbe anche per molti suoi modelli, anche sedicenti intellettuali “illuministi” – finisce con l’assumere toni e metodi settari e profetici. Questo per me è un tradimento rispetto al compito della filosofia. I filosofi dovrebbero fare chiarezza sul significato dei nostri discorsi, gettare ponti tra i linguaggi disciplinari e quindi studiarli, avere cura di farsi capire sia dagli specialisti, sia dal pubblico di non specialisti. Quando si arroccano nel proprio linguaggio e nelle proprie cerchie di adepti i filosofi si condannano all’irrilevanza, la stessa che poi ogni tanto viene lamentata di fronte alla tendenziale scomparsa delle discipline umanistiche dalle università di tutto il mondo.
Quando si arroccano nel proprio linguaggio e nelle proprie cerchie di adepti i filosofi si condannano all’irrilevanza.
Se le parole dei filosofi al tempo della pandemia sono un riciclaggio di ragionamenti già fatti, allora sembra preferibile il silenzio; ma la filosofia avrebbe molto da dire sulle questioni epistemologiche, morali e politiche che si pongono oggi, che non possono ridursi a semplici questioni “tecniche” o a sequenze di dati: i dati vanno letti e interpretati, per decidere come la società deve trattare la vita e la morte dei suoi membri. Eppure, nel “comitato” per la ripresa dopo il lockdown non c’è nessun filosofo.
Nel modo logicamente sbagliato di fare filosofia che ho esaminato c’è anche una mancanza di empatia: questioni di principio precedono la considerazione concreta di quella stessa vita individuale che Agamben considera il tema principale del suo pensiero. Per esempio, in “Perché non ho firmato l’appello sullo ius soli“ Agamben motivava le proprie riserve su un possibile provvedimento di estensione della cittadinanza scrivendo che la cittadinanza è un istituto di diritti e doveri sotto cui l’individuo ricade suo malgrado dalla nascita, cosa che in linea di principio non gli piace; dopodiché resta il “problema” di chi sia senza patria o migrante (inclusi gli italiani senza cittadinanza). Allo stesso modo, Agamben presenta l’emergenza climatica e quella epidemiologica come occasioni per contestare “le autorità” e “gli scienziati”, invece che come un problema concreto per miliardi di persone. Una stessa difficoltà si trova in molti filosofi che stanno riflettendo sul lockdown come sospensione della normalità, come Peter Singer, per il quale non sarà possibile assistere abbastanza persone bisognose senza riattivare il normale funzionamento del sistema economico, per cui “sì, la gente morirà se riapriamo, ma le conseguenze del non riaprire sono così gravi che forse dobbiamo farlo lo stesso”. In questo caso, oltre a riconoscere la necessità di “riaprire” – un dato di fatto abbastanza ovvio – bisognerebbe almeno discutere i principi morali su cui si basa questa conclusione (in questo caso chiarire che si segue una morale utilitaristica) e magari l’ipotesi di cambiare quel sistema per far fronte a una distribuzione del rischio e dei benefici profondamente diseguale.
In effetti l’analogia tra pandemia e mutamento climatico, in quanto eventi naturali che mostrano la fragilità e l’insostenibilità del sistema socio-economico globale, ha portato molti a sostenere che il problema non sarebbe tanto “la sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro”, ma proprio quel normale che è stato interrotto. Del resto anche leader neoliberali come Trump e Bolsonaro, per i quali le vite dei cittadini meno protetti sono sacrificabili al progredire del sistema economico, hanno tentato di negare l’evidenza della pandemia presentandola come una diceria esagerata o una macchinazione per affrettare un ritorno alla normalità. Quindi, a quale normalità vogliamo tornare?
Il time out della storia
Con straordinario tempismo Slavoj Žižek ha interpretato la pandemia del coronavirus come un “colpo al capitalismo” e una svolta storica. Secondo Žižek, mentre il mercato agonizza e i governi statali prendono le redini dell’economia, starebbe emergendo “un nuovo senso comunitario”, “una sorta di nuovo pensiero comunista”. Žižek mi è sempre sembrato un altro esempio di scarso rigore argomentativo e il suo instant book Pandemic! COVID-19 Shakes the World non fa che rafforzare le mie riserve: trovo puerile che parli delle sorti progressive del mondo attingendo soprattutto all’immaginario pop, come quando paragona il coronavirus alla “tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita” di Kill Bill di Tarantino, che ucciderà il “sistema del capitalismo globale” in pochi passi. Non si capisce come si realizzerà questa fine del capitalismo con annessa rinascita di un senso comunitario, e perché non dovremmo aspettarci invece una crescita delle disuguaglianze e una guerra di tutti contro tutti. In tutto ciò, nei passi dedicati alla città cinese di Wuhan, la realtà di milioni di persone soggette all’epidemia e alla reclusione è trasfigurata in un’immagine utopica:
Le strade abbandonate di una megalopoli – i centri urbani solitamente affollati che sembrano città fantasma, i negozi con le porte aperte e senza clienti, solo un pedone o un’automobile qua e là, danno un’impressione di come potrebbe apparire un mondo non consumistico.
Le immagini e le webcam delle città deserte sono effettivamente sublimi e stranianti e resteranno nella memoria di questo periodo. Da quest’immagine di sospensione della vita, da questo apparente grado-zero della civiltà, intellettuali impegnati contro l’iniquità del sistema e il suo impatto ecologico hanno trovato il punto di innesto per rilanciare le proprie idee. Un esempio è la scrittrice indiana Arundhati Roy, che in un bell’articolo ha raccontato come l’emergenza abbia messo in luce, soprattutto negli Stati Uniti, l’ingiustizia di un sistema sanitario che esclude i più poveri, e come il governo indiano di Narendra Modi l’abbia affrontata con una retorica populista che nasconde la completa inadeguatezza e iniquità della società indiana. Roy ha concluso:
La gente si ammalerà e morirà a casa. Potrebbero non divenire nemmeno statistiche. Possiamo solo sperare che gli studi secondo cui il virus prospera nel clima freddo siano corretti (anche se diversi ricercatori ne hanno dubitato). La gente non ha mai desiderato tanto irrazionalmente una bruciante e punitiva estate indiana.
Nello stesso tempo, Roy riconosce che l’arresto della vita ha un suo aspetto di speranza:
mentre il virus prolifera, chi non si sente eccitato dall’aumento di uccelli che cantano nelle città, dai pavoni che danzano agli incroci e dal silenzio dei cieli?
L’interruzione della normalità produce l’idea che la crisi pandemica possa essere un passaggio verso un altro mondo:
Il coronavirus ha fatto inginocchiare i potenti e fermato il mondo come nessun’altra cosa prima. Le nostre menti continuano a correre avanti e indietro, anelando a un ritorno alla “normalità”, cercando di ricucire il futuro con il passato, rifiutandosi di riconoscere la rottura. Ma la rottura esiste. E nel bel mezzo di questa terribile disperazione, ci offre l’opportunità di ripensare alla macchina dell’Apocalisse che abbiamo costruito per noi stessi. Niente potrebbe essere peggio di un ritorno alla normalità. Storicamente, le pandemie hanno costretto gli umani a rompere con il passato e immaginare il mondo daccapo. Questa non è diversa. È una porta, un passaggio tra un mondo e il successivo. Possiamo scegliere di varcarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro pregiudizio, dell’odio, dell’avarizia, le nostre banche dati e le nostre idee morte, i nostri fiumi morti e i cieli pieni di fumo. O possiamo camminarci con leggerezza, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo, e pronti a lottare per esso.
Molti hanno condiviso questo tipo di approccio, immaginando un mondo futuro più povero ma migliore. La scrittrice polacca Olga Tokarczuk, in un articolo intitolato “Un nuovo mondo dalla mia finestra”, ha scritto che “anche gli animali sembrano in attesa, chiedendosi che cosa accadrà”, e ha ammesso:
Per moltissimo tempo ho sentito che c’era troppo mondo. Troppo, troppo veloce, troppo rumoroso […] Mi preoccupo, naturalmente, se penso alle persone che hanno perso il lavoro. Ma quando ho saputo della imminente quarantena ho sentito una specie di sollievo […] Non è forse il caso di tornare a un normale ritmo di vita? Forse il virus non è la distruzione della norma, ma esattamente il contrario – il mondo frenetico di prima era abnorme.
Credo che in queste reazioni bisogna distinguere un aspetto un po’ salottiero da un’esperienza che è importante capire meglio. Per un verso, non dovremmo farci ipnotizzare dall’impressione estetica di azzeramento della storia – i branchi di coyote a San Francisco, le volpi sotto casa mia a Roma, le molte fabbriche ferme – che cospirano col nostro desiderio di un mondo migliore e meno votato alla distruzione dell’ambiente. Considerare la bellezza naturale come la promessa di un ordine morale futuro andava bene fino al Settecento di Alexander Pope e di Kant, quando il capitalismo globale era ancora poco conosciuto e non si parlava di antropocene: il peso della civiltà umana era considerato ancora trascurabile rispetto all’ordine naturale, ma oggi le cose sono cambiate. Il rischio di riaffidarci a queste impressioni è illuderci di vivere nella scena di un film apocalittico dove i fiorellini spuntano sulle strade deserte e nuovamente paradisiache: la catastrofe semmai deve ancora venire, sarà affollatissima e molto diversa a seconda delle finestre da cui la guardiamo. Gli animali non si stanno riprendendo il mondo, come nei filmati del territorio disabitato di Chernobyl. A dire il vero, l’industria alimentare è tra quelle che hanno subito la minore interruzione in questo periodo.
Ma, per altro verso, la sospensione c’è, ed è vero quello che scrive Rebecca Solnit in un altro lungo articolo sul coronavirus e la “speranza”:
Cose che si ritenevano inarrestabili si sono fermate, e cose che si ritenevano impossibili – l’estensione di diritti e benefici per i lavori, la liberazione di prigionieri, la distribuzione di trilioni di dollari negli Stati Uniti – sono già avvenute.
Simili osservazioni sono state fatte da Paul Mason, che ha sottolineato come ciò che era “impensabile” per la maggioranza degli economisti e degli investitori si è realizzato: “pagamenti universali, salvataggi statali e finanziamento dei debiti pubblici da parte delle banche centrali sono stati adottati con una rapidità che ha scioccato anche chi normalmente sosteneva queste misure”. Per Mason questo vuol dire che bisogna senz’altro pensare a un mondo post-capitalistico, mentre economisti come Adam Tooze sono più prudenti e osservano che, per giudicare l’efficacia delle reazioni finanziarie alla recessione “senza precedenti” che sta avendo inizio, bisognerà aspettare il diffondersi dell’impatto economico della pandemia oltre i paesi europei e gli Stati Uniti.
Tra chi propende per la tesi che la pandemia distruggerà il sistema si ripropone spesso il paragone tra la pandemia e il mutamento climatico come eventi che mostrano i limiti del sistema capitalistico globale. Questo paragone è interessante e va approfondito. Un evento naturale è riuscito laddove la riflessione e la conversazione tra gli uomini hanno fallito ed ha permesso di diffondere un allarme che gli studi sul cambiamento climatico non sono riusciti a far circolare a dovere. Da questo punto di vista, l’epidemia sembra un esperimento sulle limitate capacità cognitive degli uomini, che – come hanno sostenuto psicologi ed economisti – sembrano incapaci di rinunciare a un beneficio immediato in previsione di danni futuri: la rapidità della pandemia forse riuscirà a suscitare un allarme e un ripensamento maggiore di quelli prodotti dal mutamento climatico con la sua lentezza. Questo fa della pandemia un’effettiva possibilità di ravvedimento, che però lascerà traccia solo se amplificata da movimenti culturali e politici di massa.
L’immagine di un altro mondo intravista dalla finestra, quindi, potrebbe lasciare traccia o lasciare il tempo che trova. Il ritorno degli animali per le strade e nelle acque dei porti potrebbe restare un episodio suggestivo, ma anche segnalare che la civiltà umana esiste all’interno di una più ampia storia naturale, di cui fa parte lo stesso virus, e che le nostre società hanno a lungo trascurato. È importante, di nuovo, tenere i piedi per terra e consultare gli specialisti: il crollo dei consumi e del prezzo del petrolio greggio e il temporaneo calo dell’inquinamento urbano, che per alcuni preludono a una svolta economica ed ecologica, potrebbero invece risolversi in una maggiore difficoltà a investire nelle economie verdi e in un peggioramento delle disuguaglianze globali. Il crollo del prezzo del petrolio greggio danneggerà i Paesi poveri fortemente dipendenti dall’esportazione e in generale non aiuterà i governi a investire su nuove forme di energia. Come ha scritto Gionata Picchio sulla “Staffetta quotidiana”, “l’emergenza covid, che inevitabilmente dirotta energie e risorse verso il contenimento della crisi sanitaria, è per molti versi la peggiore delle condizioni possibili per affrontare efficacemente le sfide ambientali di lungo termine. Sei mesi fa il principale ostacolo a un accordo vincolante sul clima era la resistenza dei governi, ma le condizioni per raggiungerlo erano comunque assai migliori di oggi”. L’aria di questo inizio di primavera è dolce e pulita, si sente meglio il canto degli uccelli, ma non c’è, per ora, niente da festeggiare.
Individuo, comunità e modello cinese
“Ci vorrà del tempo, ma ce la faremo ad uscire dal tunnel, e ne usciremo molto migliori di come ci siamo entrati”. Il pensiero che la pandemia potrebbe produrre un miglioramento, che è molto circolato nei giorni del lockdown, ha un significato ambiguo: può riferirsi alla società, come abbiamo visto, ma anche all’individuo. Il rischio, in questo secondo caso, è che diventi un mantra motivazionale e presenti la pandemia come un esame per ottenere una specie di patente morale. Qualcuno ha proposto paragoni moralistici con la guerra, sostenendo che agli italiani si è chiesto solo di restare a casa e non di fare grandi sacrifici, e non sono mancati i momenti di autocelebrazione degli italiani bravi a rispettare le regole, l’inno di Mameli sparato dai balconi e i tweet nazionalistici dei cantanti pop. Di nuovo, qui c’è il rischio di una perdita di contatto con la realtà. Le misure di limitazione del contagio vanno rispettate ed è auspicabile cogliere l’occasione per ricavarne qualcosa di buono. Ma lo slogan #iorestoacasa resta solo e soltanto deprimente. Chi invita a farne un’occasione edificante nasconde la reale ricaduta individuale dell’emergenza sanitaria. Il rischio è proporre di farsi una ragione del malessere e dell’impoverimento dovuti al forzato isolamento dal mondo cercando di essere felici grazie a un processo interiore, lo stesso rischio che si trova negli insegnamenti di chi propone il buddhismo o la filosofia come semplici mezzi per stare meglio. Stare bene è ovviamente uno scopo fuori discussione, che si può perseguire anche con questi mezzi, ma non bisogna dimenticare che il pensiero filosofico – e anche quello buddhista – ha un potenziale di critica della realtà che viene disinnescato se lo si riduce a una tecnica di autoaiuto rivolta all’individuo isolato dal contesto. È importante in proposito ricordare un’obiezione rivolta più volte alla cultura angloamericana del self-help, secondo cui questa favorirebbe l’acquiescenza dell’individuo a una società competitiva e fondata sulla disuguaglianza, senza metterne in discussione i presupposti. Insomma, il messaggio sarebbe: la realtà è questa, non si cambia, migliorati e impara a essere felice lo stesso.
Piuttosto che cercare di aumentare la nostra resilienza – come si dice spesso con una parola che sottolinea la capacità di adattarsi ai colpi – la pandemia è un’occasione per riflettere sul nostro rapporto con la società. Il fatto che l’epidemia abbia avuto origine in Cina, da questo punto di vista, ha portato a ripensare a un paese che per secoli è stato un termine di confronto per l’Europa e al tempo stesso sinonimo di una lontananza che indebolisce la nostra capacità di provare empatia e partecipazione morale. Per un verso, la Cina è stata presentata come il regime totalitario che avrebbe inizialmente tenuto nascosta l’epidemia e che in seguito ha tenuto i cittadini in casa con la minaccia della corte marziale. Per altro verso, si è ammirata la disciplina del popolo cinese rispetto alla presunta indisciplina degli italiani. In realtà le cose sono più complesse e sfumate. Come è stato sottolineato, la Cina non avrebbe avuto interesse a insabbiare a lungo l’epidemia, anche se certamente tiene sotto controllo l’opinione pubblica, e alcuni aspetti della gestione cinese del contagio sono stati effettivamente efficaci. Per l’altro verso, molti cinesi hanno ignorato i divieti di circolare nei giorni del Capodanno non meno degli europei (un’amica mi ha mandato foto di cinesi che, beffandosi del lockdown, si facevano selfie vittoriosi a Shangai dov’erano andati per visitare Disneyland – subito dopo chiusa dal governo). Ma c’è in effetti una questione di modelli culturali. Il confucianesimo, che pone tradizionalmente la società prima dell’individuo, è un modello ancora vivo in Cina, che entra in contrasto con la nostra tendenza a privilegiare la libertà individuale. È l’occasione di un confronto con una cultura che da molti anni si avvicina alla nostra, che va fatto – come ha osservato Simone Pieranni – tenendo conto che in Cina un certo primato accordato all’ordine sociale è antico quanto il confucianesimo, anche se coesiste con una altrettanto radicata tendenza alla disobbedienza.
Un modo per conoscere meglio la cultura cinese è la narrativa. Nella letteratura cinese è molto frequente l’immagine del sacrificio dell’individuo per la collettività, anche tra romanzieri che non si possono considerare affatto portavoce delle idee del governo. In un articolo recente, la sinologa Melinda Pirazzoli offre una interessante rassegna del tema del corpo e del sacrificio individuale nella letteratura dall’epoca maoista a oggi, che conferma questa idea nella sua dimensione carnale. In particolare, nei romanzi di Yan Lianke si trovano racconti sul sacrificio di un vecchio che si seppellisce per permettere la crescita di una pianta in un’epoca di carestia, o di una madre che si uccide per permettere la guarigione dei figli con un decotto delle proprie ossa (i due racconti sono raccolti nel volume I giorni, i mesi, gli anni). Al tempo stesso, come si evince dai romanzi I quarantuno colpi di Mo Yan (2003) e Il sogno del villaggio dei Ding (2006) dello stesso Yan Lianke, la diffusione di una mentalità sempre più dominata dall’arricchimento nella Cina capitalista è percepita come una degradazione della società tradizionale, che si esprime con la contaminazione del cibo e con diffusione di malattie. Si tratta di scrittori e intellettuali particolarmente attenti alle condizioni della popolazione, il cui contributo, oggi, può giocare un importante ruolo in un dialogo interculturale che è solo all’inizio. In questo senso, è interessante leggere i recenti interventi di Yan Lianke sull’importanza della libertà di opinione per la limitazione dell’epidemia, su quella della memoria storica per il futuro bilancio storico sull’accaduto e il suo giudizio severo sugli scrittori che, dalla loro condizione protetta, vedono nella pandemia un momento liberatorio: “assurdi e ridicoli sono coloro che vedono chiaramente la morte e sentono nitido il rimbombo degli spari, eppure descrivono i colpi e le fucilate come petardi di giubilo, presagio di un trionfo immediato”.
Piuttosto che cercare di aumentare la nostra resilienza – come si dice spesso con una parola che sottolinea la capacità di adattarsi ai colpi – la pandemia è un’occasione per riflettere sul nostro rapporto con la società.
Ancora più esplicita è stata un’altra scrittrice, Fang Fang, il cui diario da Wuhan, iniziato il 25 gennaio e pubblicato online, racconta la vita quotidiana, celebra l’impegno di medici, addetti alle pulizie e gente comune, ma accusa il governo di non avere reagito prontamente e di aver favorito il diffondersi del contagio. Il diario ha avuto milioni di visualizzazioni e ha ricevuto aspre critiche per il fatto di dare un’immagine negativa della Cina, portando alla temporanea disattivazione del suo account. Si tratta di una lettura adatta a avviare una condivisione interculturale di quell’esperienza che, poco tempo dopo, abbiamo fatto anche in Italia, il cui senso politico – come accade di solito in Cina, anche a causa della censura – è immerso nella concreta testimonianza individuale.
In senso più tecnicamente politico, la Cina si è imposta come termine di paragone per i mezzi di controllo dell’individuo che sta dispiegando come misura per arginare il contagio. La perdita di privacy che dipende dal sottoporsi a questi meccanismi di monitoraggio dei movimenti e delle interazioni sociali, che in Cina preesisteva all’emergenza sanitaria, è diventata per forza di cose un tema di riflessione anche da noi. Si tratta oggi di valutare diversi modelli di condivisione di informazioni personali che mettono in gioco in vario modo diritti individuali, ripresentando quell’idea di un monitoraggio occulto che è stata per decenni un modello politico distopico.
Nello stesso tempo, il controllo dei movimenti pone la questione più ampia dei confini. Ricordiamo che, nella prima fase dell’epidemia, i ristoranti cinesi in Italia si sono svuotati e molti cinesi sono stati oggetto di violenze in quanto visti come potenziali untori. In poche settimane, ognuno è apparso straniero ad ognuno, e agli italiani è stato ed è tuttora impedito l’accesso a molti paesi. Non è chiaro quando e a quali condizioni sarà di nuovo possibile quella libera circolazione – almeno per noi europei – che con poche eccezioni ha costituito la norma per decenni e sui cui si fonda l’industria del turismo, che nell’ultimo decennio ha coinvolto circa un miliardo di persone all’anno. Come italiani viviamo oggi un’esperienza per noi eccezionale che, fino a pochi mesi fa, era la norma per una cospicua parte di popolazione mondiale, cioè il divieto di accedere liberamente in un altro paese, finanche di chiedere un visto: lo stesso tipo di divieto che ha spinto moltissimi cittadini africani alla migrazione illegale (ed è probabile che la migrazione per motivi economici divenga un motivo sempre più diffuso tra gli italiani).
Ancora una volta, non è possibile fare previsioni: le riflessioni potenzialmente suscitate da questa situazione potrebbero sollecitare una nuova presa di coscienza globale e favorire una cultura di maggiore apertura e equità, ma potrebbero anche lasciare il campo a una maggiore chiusura e alla riduzione dell’idea stessa di solidarietà internazionale. Torna fondamentale restare attenti al contesto mutevole senza chiudersi in una discussione falsamente isolata e astratta. A questo proposito il ritorno negli spazi comuni di convivenza e di incontro tra gli individui, prima di tutto quello della scuola pubblica, sarà molto importante: questi spazi rendono possibile un’esperienza collettiva insostituibile, cioè l’incontro tra persone di diverse classi e culture, che vivendo isolati a casa restano entità remote di una comunità immaginaria.
Epidemia e parole
Pensare l’epidemia vuol dire consultare fonti e statistiche, ma anche fare attenzione all’uso delle parole. In questi giorni mi è venuto in mente, leggendo il Dioniso dello storico delle religioni Károly Kerényi, che “epidemia” voleva dire originariamente l’“arrivo nel paese” di qualcosa in grado di sopraffare: poteva essere una malattia, ma anche un dio, come Dioniso – dio della vita e della morte – che liberava l’io dai vincoli che lo trattengono nella sua esistenza normale. L’epidemia è stata in effetti un evento che ha posto all’attenzione il potere incontrollabile della vita e della morte biologiche – la vita come zoé – sconvolgendo la vita dell’individuo umano – che i greci avrebbero chiamato piuttosto bíos. “Pandemia”, allora, è un’esperienza che sconvolge la vita di tutti.
Ho ripensato anche allo sciamano e portavoce degli indios Yanomami, Davi Kopenawa, che accosta le malattie alle parole che “entrano nei pensieri”, presentando entrambi come fattori “patogeni” cui i Bianchi si erano impadroniti degli indigeni. Se alle malattie si reagisce con le medicine, alle parole messe in circolo dagli invasori – proseguiva Kopenawa – si reagisce con altre parole. La pandemia che stiamo vivendo è in primo luogo una faccenda sanitaria, in cui è importante conoscere le caratteristiche biologiche del virus e la nostra capacità di reagire. È poi una faccenda sociale e politica, in cui ne va delle capacità e dei protocolli di riorganizzazione della società. Ma è anche un evento accompagnato dalla circolazione di parole – come “eccezione”, “normalità”, “crisi”, “miglioramento”, “ripartenza”, “Cina” – e per affrontarlo è importante fare attenzione al senso di queste parole e agli anticorpi culturali che, inavvertitamente, fanno rilasciare nei nostri pensieri.