Come nasce una copertina leggendaria: un’intervista a Vincenzo Sparagna.
Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di "Figli delle stelle" (Baldini e Castoldi, 2014), "Macao" (Feltrinelli digital, 2012), "Teneri violenti" (Einaudi Stile Libero, 2016) e "L'età della tigre" (Il Saggiatore, 2019).
Nicolò Porcelluzzi è editor del Tascabile, ha scritto per Internazionale e altre riviste. Autore di podcast. Ha scritto "Fare i versi" (Quanti, Einaudi 2022) e, con Matteo De Giuli, "MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)" (Not, NERO editions 2021).
Frigidaire è stata la rivista più impulsiva, sfrenata e poetica nella storia italiana. Inoltre, lo diciamo convinti, per diversi motivi Frigidaire può essere considerata l’ultima avanguardia del Novecento italiano. Per raccontarne la storia, abbiamo realizzato per Chora Media un podcast che si chiama Frigo!!!, un audio documentario che non è un racconto sistematico, ma una totalità di frammenti raccolti con studio e amore e divisi dentro sei scatole. Non è stato semplice fare selezione su un materiale sterminato. Si sente ancora l’eco della scure che si abbatte per separare ciò che si è deciso di tenere da ciò che andava escluso, o al quale si è riservato giusto qualche riga di script. Ogni volta era una sofferenza. Tra gli elementi non del tutto approfonditi, in particolare, c’è il rapporto fra Vincenzo Sparagna, primo e unico direttore di Frigidaire, e suo padre Cristoforo. Avrebbe meritato una serie a parte, per tante e fondate ragioni.
Sparagna padre, infatti, è il protagonista di un episodio unico nella storia editoriale del nostro Paese. Nel settembre del 1983, Frigidaire mostra in copertina la foto di un vecchio dal volto antico e irresistibilmente umano. È un’immagine che buca e non lascia indifferenti. Anche perché Frigidaire, con i suoi colori fluo e l’interesse verso tutto ciò che è freddo e artificiale e per l’estetica della prima computer graphic, fu anticipatore di gran parte dei linguaggi visuali degli anni ’80. Che cosa c’entra, allora, nel sintetico continuum delle copertine di Frigidaire, l’immagine senza compromessi di quell’anziano inerme, con la barba lunga e ispida e le clavicole nude e sporgenti? Il vecchio sembra uscito da una grotta o reduce da un lungo viaggio per mare. Ci guarda e ci parla da una profondità senza tempo. Il titolo in copertina è Come Odisseo. Sottotitolo: La vita, l’arte, il destino, la speranza in un’intervista esclusiva al profeta di Minturno. Minturno, paese di mare al confine tra Lazio e Campania, è dove Cristoforo Sparagna (1905) era tornato in età adulta, dopo aver costruito in trent’anni di lavoro, totum manibus sue, una bizzarra casa-monumento di pietra, “ornata di colonne e sculture, volti, uccelli, stemmi e profili contadini, che spuntano dai muri come in certe chiese del Quattrocento”. Lo stesso volto del figlio Vincenzo è scolpito su una di quelle pietre.
Nel servizio del fotografo Mauro Baldrati, Cristoforo era ritratto a torso nudo, esibito nella sua scabra e desolante magrezza. Cambio d’abito: in altre foto indossava una vecchia giacca e pantaloni, come una sorta di contadino dandy. Il testo era scandito da buffi ritrattini di padre e figlio, firmati dalla star del fumetto Andrea Pazienza, che insieme a Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scozzari e Massimo Mattioli, fu uno dei fondatori di Frigidaire. Il disegno di Pazienza, le foto di Boldrati e le parole di Cristoforo Sparagna, si tengono in un perfetto equilibrio. Non è frequente vedere tanta bellezza in un giornale. Qualche mese dopo l’uscita del numero, il 10 dicembre 1983, Sparagna si trova a Londra e lì viene raggiunto dalla notizia della morte del padre, a 78 anni.
Durante il nostro lavoro abbiamo avuto occasione di discutere con decine di lettori di Frigidaire. Molti ancora oggi storcono il naso e dubitano di quella pensata di Sparagna, come se fosse la prova di un uso personalistico della testata o addirittura un gesto impudico ed egocentrico. Non è così. Si trattò di un’azione artistico-letteraria, genuina e senza precedenti giornalistici, che contribuì a fare di Frigidaire un incessante esperimento performativo, fuori dalle convenzioni e lontanissimo dal lavoro dei colleghi. Ascoltando certi giudizi severi degli ex lettori, viene come il sospetto che l’ondata planetaria di narcisismo ed esibizionismo di questi ultimi quindici anni, abbia prodotto, come effetto secondario, l’incapacità di distinguere fra il gesto stupido di mettersi in mostra e ciò che invece è pura avventura, salto nel vuoto e poesia.
Qualche anno fa Sparagna dedicò a suo padre un volume, Il minturnese. La vita e l’arte del mio geniale e profetico papà, dove Vincenzo raccontava la vita e l’umanità non comune di suo padre, pubblicando a tutta pagina i suoi disegni e dipinti. Quella apparsa su Frigidaire nel settembre ‘83, tuttavia, non fu un’intervista, ma una “schiuma”. Nel gergo di Frigidaire “schiuma” erano puri flussi di racconto, sbobinati, tuttalpiù editati, ma mai inframmezzati da domande o considerazioni dell’intervistatore. Invece di una “schiuma” quella che segue è una tradizionale intervista: domande e risposte.
Definisci tuo padre un anticonformista e un eretico. Perché?
Mio padre è stato uno dei rarissimi intellettuali italiani del Novecento che si è ribellato, prima per istinto, poi in modo più razionale e motivato, a quella che potremmo definire l’ideologia del sedicente Progresso, che identificava lo sviluppo dell’umanità con la crescita dell’industria. Aveva chiari i limiti di questa concezione della storia umana come accumulazione infinita di oggetti prodotti dalla scienza e dalla tecnologia. Si trattava e si tratta di un’ideologia che allontana l’umanità dalla consapevolezza dei limiti suoi e della natura. Dunque è stato un ecologista radicale antelitteram, un critico impietoso del parossismo consumistico e un lucido profeta della deriva distruttiva che ne sarebbe derivata non solo sugli equilibri tra uomo e natura, ma sulla consapevolezza dell’umanità sulla propria condizione e destino. La sua opera poetica, letteraria ed artistica è pienamente coerente con questa intuizione. Queste idee nella prima metà del XX secolo erano assolutamente controcorrente, perfino dileggiate dai politici, dai pensatori, dai letterati e dagli artisti, legati alle ideologie in voga al tempo, sia quelle di derivazione marxista che quelle tipiche del capitalismo, fondate sulla concorrenza e l’individualismo. Le sue idee avevano in un certo senso qualche parentela con il tolstoismo pacifista, ma si sono comunque sviluppate nel pieno delle tragedie del secolo, le guerre per i mercati e il dominio, il razzismo genocida, la creazione dell’atomica, il saccheggio delle regioni allora periferiche del mondo, la cancellazione delle culture e dell’esistenza di interi popoli.
Si conobbero, Andrea Pazienza e tuo padre?
Si conobbero quando papà venne in redazione mentre stavo preparando il servizio su di lui. Andrea ne fu affascinato e ne ammirava il pensiero e l’opera. Dal canto suo mio padre riconosceva le grandi qualità umane e artistiche del mio giovane fratello d’arte. Tra l’altro, vincendo le mie resistenze, perché temevo di esagerare in personalismo, fu proprio Andrea che insisté per mettere sulla copertina di Frigidaire il volto espressivo di mio padre e illustrò i capitoletti del testo, cui avevo tolto le domande, con una serie di deliziose e affettuosissime caricature.
Come reagirono gli altri di Frigidaire, Filippo Scozzari, Stefano Tamburini, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli, di fronte all’idea di mettere tuo padre in copertina?
Era il numero del settembre 1983 e ormai la mia figura di direttore era indiscussa e indiscutibile, per cui nessuno andò oltre qualche mugugno, ma, a differenza di Andrea, gli altri non capivano nulla di mio padre. La sua poetica e la sua arte erano lontane dalla sensibilità geometrico/modernista di Tamburini, dalle eccentriche fantasie di Scozzari, dai fumetti di Mattioli o dalla brutale energia abruzzese di Liberatore, il quale preferiva essere accostato a Corben piuttosto che a Michelangelo! In ogni modo, per la cronaca, quando ad agosto impaginammo quel numero, in redazione c’eravamo solo io e Andrea, il quale, come ho detto, non solo lo ammirava, ma mi convinse a dedicargli la copertina.
Com’erano le vostre riunioni di redazione? Lunghe? Brevi? Noiose o divertenti?
A Frigidaire le riunioni erano rare, per certi versi nemmeno c’erano. In genere i rapporti erano tra me e i singoli, con tutte le decisioni su cosa pubblicare e in quale sequenza decise da me. Anche riguardo all’impaginazione Stefano Tamburini curò direttamente solo una parte di alcuni numeri del primo e secondo anno, ma dandogli, con il suo genio, il forte carattere grafico che conosciamo. Nel primo periodo lavorai abbastanza spesso insieme a Stefano, che però diradò le sue presenze in redazione già nel 1983, e più di frequente con Scozzari, che a volte mi aiutava anche nell’editing dei testi. Spesso la mia spalla fu Andrea, con cui nel 1985 inventai il supplemento Frìzzer. Dopo la morte di Stefano e di Andrea (sia Tamburini che Pazienza sono morti a causa di overdose da eroina, il primo nel 1986, il secondo nel 1988, Ndr), dal 1988 un ruolo fondamentale lo ebbe Scozzari, almeno fino alla metà degli anni ’90, ma bisogna considerare che la rivista si riempì da subito di collaborazioni diverse, testi, immagini, fotografie, rubriche, reportage dei quali mi occupavo quasi solo io. Lo stesso Scozzari, che per certi versi fu il più presente, viveva a Bologna e veniva solo qualche giorno al mese a Roma. Infine da oltre dieci anni gestisco la grafica e il coordinamento redazionale con l’aiuto decisivo e creativo di Maila Navarra.
Quale fu il contesto dell’intervista apparsa su Frigidaire n.34 del settembre 1983? Eri andato tu a Minturno o fu tuo padre a salire a Roma? E quanto tempo prese la registrazione di questa “schiuma”?
L’intervista venne registrata a Roma, nella mia casa di Trastevere, con le finestre che affacciavano sull’Orto Botanico e il Gianicolo. Il testo integrale era molto più lungo, varie cassette che sbobinate erano quasi un libro, cosicché molte parti le dovetti tagliare, cercando però di mantenere l’essenziale. Per realizzarla ci vedemmo un paio di volte. In quelle occasioni venne anche in visita alla redazione di Frigidaire, di cui apprezzava la totale libertà e autonomia di pensiero e ammirava l’arte di molti dei nostri autori. Le foto furono fatte da Mauro Baldrati, in parte a Roma, in parte nella casa di Minturno. Aggiungo che mio padre viveva solitamente, dopo la pensione, a Minturno, ma veniva almeno un paio di volte al mese a casa dei familiari, mia madre, mia sorella, suo figlio e mio fratello, che s’erano tutti per vie diverse trasferiti a Roma, come del resto avevo fatto io sin dal 1969.
Dentro tuo padre c’era una sorta di conflitto tra fede e scienza…
Più che di un conflitto tra fede e scienza direi che la sua fede nel divino, che non aveva nulla di bigotto, alimentava anche la sua idea di una scienza che fosse al servizio dell’umanità, senza l’idolatria materialista per la tecnologia. Diceva “la macchina ucciderà l’uomo”, intendendo criticare e denunciare il mito della velocità e dell’efficienza produttiva che non solo rende gli esseri umani tristi appendici delle macchine, ma, come oggi sappiamo bene, allontana l’umanità dal suo tempo naturale, facendole dimenticare i limiti della specie e del corpo in un delirio di onnipotenza foriero di sciagure.
Che tipo di poeta era?
Era un poeta lirico, pittorico, sensibile al paesaggio, al vento, al mare, alle cose semplici, ma nutriva questo suo lirismo di pensieri. La sua poesia non è mai una pura occasione per lo sguardo e il suono, è sempre anche un suggerimento, un’idea, è nutrita di riflessioni sul destino e la condizione umana, sulla ricerca dell’assoluto e la fedeltà alla religione dei padri, intesa come saggezza secolare, radice spirituale del nostro essere figli di una cultura che ha le sue radici nella storia antica.
In cosa consiste Il Regno delle Anime?
È un poema in tre cantiche (Purgatorio, Inferno e Paradiso), divise in trentotto canti, rispettivamente 12, 15 e 11, che conservano il classico metro dantesco in terzine, ma sono scritti in vernacolo minturnese, una lingua che fa parte del ceppo napoletano, ma se ne differenzia in molti punti e ha un sapore esotico, con influenze latine, spagnole, arabe, greche. L’opera si ispira dichiaratamente alla Divina Commedia, ma più umile, lirica e assolutamente meno dottrinale. Narra del suo viaggio nel Regno delle Anime, di figure che il poeta incontra nelle campagne del suo paese, dove restano dopo la morte come ombre, in attesa di un riscatto che le trasporti in cielo, o condannate all’eterna punizione. È un racconto su familiari scomparsi e gente del suo paese, o grandi personaggi del passato, così come su figure ancora viventi, ma già morte senza neppure saperlo. Un libro quasi d’avventura e di ammonimento, che esalta il ruolo della poesia come unica via per salvare l’umanità dalla catastrofe.
Ogni tanto nella “schiuma” su Frigidaire tuo padre parla di fine del mondo e palingenesi. Come immaginava il futuro?
“Senza una palingenesi guidata da Dio”, disse nell’intervista per Frigidaire, “l’umanità morirà lentamente, ma dolorosamente”. L’espressione “guidata da Dio” sta a indicare che ci vorrebbe proprio un miracolo per salvare la specie umana dalla rovina che lei stessa si prepara con un comportamento arrogante. Ora che ho quasi l’età che aveva mio padre al tempo di quella intervista, devo dire che la penso, almeno un po’, come lui. Il futuro mi appare difficile da gestire, se non si cambierà radicalmente rotta. Guerre e veleni in quantità assai più grandi che quaranta anni fa, l’espansione del capitalismo su scala planetaria con tutte le sue conseguenze di egoismo, cecità, avidità, non fanno presagire nulla di buono. D’altra parte, come insegnava Elias Canetti, è preferibile scommettere sulla possibilità di un riscatto umano piuttosto che abbandonarsi al fatalismo pessimistico. Lo stesso Gramsci, che mio padre ammirava e della cui tragica carcerazione accusava il fascismo, ma senza perdonare la losca indifferenza al suo destino di Stalin e dell’Internazionale Comunista, predicava l’ottimismo della volontà, pur senza rinunciare al pessimismo dell’intelligenza. Insomma per evitare non la fine del mondo (la terra ha altri milioni o miliardi di anni di fronte a sé), ma l’abbrutimento e forse la catastrofica scomparsa della specie umana non resta molto tempo. Mio padre combatteva il pessimismo affidandosi alla poesia, all’eternità dell’attimo, alla bellezza come riscatto dall’orrore del mondo. In questo io sono sempre stato più prosaico e pratico, ma nel fondo dell’analisi non siamo molto lontani.
Che cosa lo spinse a isolarsi?
La stanchezza e gli acciacchi, ma anche la delusione e l’amarezza del vedersi sempre più emarginato in una società che andava esattamente in direzione opposta a quella che sognava. Alla fine, interrotta ogni collaborazione giornalistica, era impegnato a scrivere e dipingere per dei “posteri”, che forse, temeva, non ci sarebbero neppure stati, ma lo sorreggeva la fiducia nella poesia, nell’arte, nella permanenza delle forme. Mi ha insegnato con l’esempio del suo isolamento che si può essere grandi artisti anche se quasi nessuno lo sa o lo capisce.
Nelle oltre 300 pagine de Il Minturnese sono raccolte moltissime sue opere pittoriche. Ci sono molti ritratti: del fratello Aniceto, di un certo professor Angelo De Santis, di un anonimo fumatore, di una ragazza in campagna, di tale Francesco Ciccio Rosano. Che umanità raccontano questi dipinti?
Mio padre, che inseguiva una pittura concentrata sugli impasti di colore e sul segno, sceglieva di dipingere cose semplici, paesaggi, interni di vecchie case contadine e molti ritratti. Gli interessava far emergere l’umanità quotidiana, i pensieri, i caratteri dei suoi soggetti, scelti non per la loro importanza sociale, infatti sono quasi sempre amici e familiari, ma per la loro intima spiritualità. Aveva una grande capacità di cogliere le rassomiglianze, nei disegni a penna o matita come nei dipinti e nelle sculture in terracotta, e sempre i suoi volti sono traversati da una luce che viene dall’anima. I suoi quadri non sono mai elaborazioni iconografiche, solo immagini quotidiane, ma trasfigurate dal colore e dal tratto. Un quadro per lui era un quadro, non l’illustrazione di un’idea e neppure una riproduzione iperrealista, ma una visione lirica, il cui fascino sta tutto nell’impasto delle polveri colorate trattate con olio di lino cotto o crudo, nei toni, nell’insieme. La sua pittura figurativa è il frutto di una ambiziosa formazione da autodidatta che lo ha preservato da ogni forma di accademismo. In questo è stato un pittore totalmente anomalo, anche rispetto alle correnti figurative del Novecento, una voce solitaria, lontanissima dal gelido De Chirico, che pure lo stimava, come dal retorico Sironi, dal leccato Sciltian, dal superaccademico Annigoni, ma anche dai maestri napoletani di fine Ottocento come Antonio Mancini, autore straordinario, ma nel solco di un certo accademismo di genere. Pure il suo impressionismo non aveva nulla di quello francese e meno ancora dei macchiaioli italiani, semmai si può stabilire qualche ardito parallelo, per l’uso della luce radente e dei toni scuri, con il Seicento napoletano e spagnolo o, per le sue pennellate materiche, con l’espressionismo tedesco, ma senza la sua violenza sociologica e la relativa e coerente volontà di denuncia. In lui i volti e i paesaggi sono manifestazioni ruvide, ma calme, inni contadini alla bellezza e alla pace dei campi senza nessun compiacimento naif o cerebrale, generati da una partecipazione intima alle sofferenze e alla tolleranza paziente e talvolta felice degli umili.
In moltissimi disegni e quadri ci sei anche tu. Domenico Starnone in Via Gemito racconta del rapporto col padre pittore, sempre a Napoli in quegli stessi anni, e della fatica di restare in posa per ore di fronte al padre. Tu hai qualche ricordo di quei momenti?
Ho molti ricordi di pose lunghe e brevi. In particolare in un quadro (che non c’è nel libro perché non ho una buona riproduzione e non so dove sia finito) ero un riccioluto ragazzetto a torso nudo, che porgeva una mela a una donna tutta nuda sdraiata su un fianco, una specie di Cerere, la dea delle messi, dalla figura morbida e le grandi poppe. Per quel quadro non so quante ore e quanti giorni ho posato. Non mi dispiaceva posare, ma mi stancavo a causa del braccio teso con la mela in mano e ogni tanto gli chiedevo di smettere per riposarmi, lui di solito faceva una pausa, ma in certi momenti era troppo preso e così insisteva, “ancora pochi minuti, resisti”. Essere in posa, a dirla tutta, mi faceva sentire come sulla scena di un teatro e recitare, essere guardato, è stata sempre una mia passione, una gioia intima inspiegabile.
Ci racconteresti quella faccenda della termodinamica che ti riferì tuo padre, a proposito del periodo in cui lavorò come marinaio?
Mio padre, come ho detto, aveva studiato all’Istituto Nautico, quindi aveva le competenze anche per fare l’ufficiale di macchina, ma non potendo permettersi un corredo e due anni di praticantato sulle navi, per guadagnare qualcosa si imbarcava come operaio di macchina. Una volta sull’Atlanta, una vecchia carretta, il motore si bloccò nel porto di Dakar, in Senegal. Nessuno riusciva a trovare il modo di riparare il guasto, finché, sorprendendo tutti, papà si offrì di provarci lui. Lui studiò il caso e nel tentativo di sbloccare il motore ricorse alle sue conoscenze scientifiche, inventandosi sul momento una formula sperimentale di termodinamica che, incredibilmente, applicata alle pompe di rifornimento, funzionò, cosicché la nave riprese il largo. S’era scritta la formula su un foglietto, ma poi lo perse e con gli anni la dimenticò del tutto.
Nella sua casa a Minturno non aveva né luce né acqua. Perché? Come se la sbrigava?
Per l’acqua si serviva di una fontanella vicina, la luce aveva provato a farla allacciare, ma la condizione sarebbe stata far innalzare un orribile pilone di cemento accanto alla casa che andava costruendo con le sue mani, piena di capitelli sbozzati, colonne scalpellinate e sculture, per cui vi rinunciò e visse gli ultimi decenni della sua vita usando candele e vecchi lumi a petrolio, come i contadini facevano nel tempo della sua infanzia e a Minturno si era continuato a fare fino agli anni ‘50. Questo dava a quegli ambienti una pace particolare, li immergeva in una calma antica e così si abituò alla mancanza di elettricità con gioia. D’altra parte lui scriveva a mano e poi ribatteva a macchina i suoi testi, dipingeva, coltivava un piccolo orto, si curava con le erbe e cucinava sul fuoco di legna nel camino, con la frugalità e l’abilità che ha trasferito anche a me. Dopo la sua morte per oltre venti anni anch’io sono stato nei fine settimana o per qualche giorno di vacanza in quella casa, usando solo candele e lumi antichi, in un’atmosfera quasi magica.
Dopo la pubblicazione dell’intervista alcuni lettori di Frigidaire scrissero delle lettere a tuo padre. Hai avuto modo di leggere quelle lettere? C’è qualcosa che puoi raccontare al riguardo?
Sì, dopo la sua morte le ho viste. Papà cominciò a ricevere lettere da molte persone, affettuose, curiose, piene di domande. Purtroppo il numero di Frigidaire uscì a settembre e mio padre morì il 10 dicembre di quello stesso anno. La sua relativa popolarità durò solo pochi mesi. Ci fu anche una troupe televisiva che andò a intervistarlo e ho una cassetta con le sue uniche immagini video, ma è fatta piuttosto male e non fu più elaborata, curata o integrata. La trasmissione che avrebbe dovuto ospitarlo lo cancellò dal programma dopo la sua scomparsa. Qualche mese dopo mi telefonò anche il regista Marco Ferreri che era rimasto impressionato dal volto espressivo di papà e lo voleva per un suo film, ma dovetti dirgli che purtroppo era già morto. Peccato.