M onica e Harry vanno al cinema a vedere Canto d’amore. Si stanno, certo, innamorando: si licenziano, stanchi dei padroni, dei colleghi, di un salario ridicolo, e scappano con la barca del padre di Harry. Vanno a vivere sull’acqua, tra gli scogli, in una delle migliaia di isole al largo di Stoccolma. In Monica e il desiderio (Bergman, 1953) Harriet Andersson, che interpreta la ragazza, si consegna alla storia del cinema: grazie alla sua interpretazione diventerà una delle muse del regista svedese (e un’attrice dalla carriera longeva, considerando la sua presenza in Dogville). Immortali poi, due scene: il nudo a metà del film, perché sono dopotutto gli anni Cinquanta, e il primo piano al caffè, l’inizio della fine. In questo primo piano Monica per qualche secondo guarda il pubblico negli occhi (!), non abbassa lo sguardo, schiude la bocca – dietro di lei, la luce sfioca. Quello che secondo Godard è “il primo piano più triste della storia del cinema” è una cesura tra prima e dopo: più del nudo di Andersson, semplice trattato sulla serenità dei costumi scandinavi, è il primo piano di Andersson a stillare una resina pornografica. Non andrà più via.
“A me interessano solo le ‘scemenze’; solo quello che non ha nessun senso pratico. Mi interessa la vita solo nelle sue manifestazioni assurde”, scrive Daniil Charms, scrittore nato russo e morto sovietico nel 1942; il rapporto sganciato dalla procreazione “non ha nessun senso pratico” e Monica, appena maggiorenne, non ha intenzione di ridursi a funzione pragmatica. È sempre Charms – tra riflessioni ontologiche e deliri pseudo-logici – a scrivere nei suoi diari: “io rispetto solo le giovani donne sane e formose. Gli altri rappresentanti dell’umanità li guardo con diffidenza.” (Le traduzioni da Casi sono di Rossana Giaquinta per Adelphi, quelle da Disastri di Paolo Nori per Marcos Y Marcos).
Miroslav Tichý invece è un fotografo nato sovietico e morto ceco nel 2011. Perché leggendo Charms la mente proietta le foto del secondo? Forse perché sono stati degli emarginati in un sistema che non prefigurava l’idea di margine; forse c’è altro. Rileggendo i diari di Charms inclusi in Casi dopo qualche anno e qualche centinaio di foto di Tichý, ho visto emergere qualcosa. Charms ha creato nel vuoto di una Leningrado sempre più fredda, sempre più ostile, sempre più indifferente rispetto ai suoi lavori; Tichý ha creato nel vuoto di una Kyjov magari meno ostile ma, se possibile, ancora più indifferente rispetto alla sua attività fotografica. In un certo senso, Charms e Tichý hanno vissuto due diversi… stati di salute del regime sovietico. Lo stesso potere che neutralizzò gli incantesimi di Charms, massacrandolo in un manicomio di Leningrado, si limitò ad accarezzare le certezze del Tichý post-accademico, il pittore sovversivo che si trasformò in clochard – il clochard da rinchiudere ogni tanto, quand’era troppo. Certo, entrambi hanno lottato a mani nude contro l’acciaio di Mosca… però, c’era quel qualcosa di mezzo. Si potrebbe parlare di sprezzatura: Charms e Tichý avevano qualcosa di più importante a cui pensare. L’universo femminile.
Si dovrebbero tenere i kuski (pezzi) di Charms – profezia e summa del Novecento, secolo del nonsense – sul comodino, leggerli prima di addormentarsi e iniziare a sognare davvero. Sarebbe utile anche per l’articolo, continuare a citarne (“mi hanno sempre turbato le gambe delle donne, in particolare sopra il ginocchio”) certo, ma sono le pagine private a offrire un autore inedito, sfrontato e indifeso allo stesso tempo. I diari di Charms si arrotolano ossessivi intorno al suo rapporto con l’altro sesso. Si innamora di tutte e gli “corre dietro”, ma loro rimangono lì, oltre la rete. Nelle lettere i nomi più frequenti sono quelli di Esther (la prima moglie), Raisa, Klavdija, Marina (la seconda moglie).
In un frammento titolato Conferenza un certo Puskov si mette a dissertare: “La donna è la macchina dell’amore. […] alla donna bisogna avvicinarsi dal basso. Alle donne piace, fanno solo finta, che non gli piaccia.” Poi qualcuno, non è dato sapere chi, inizia a picchiare Puskov, e Puskov continua a urlare cose come “donna nuda con un mestolo in mano!”, “monaca nuda!”, ma perde: che cosa perda davvero rimane un mistero. Perché la figura femminile non esce sconfitta dai deliri charmsiani, rimane al massimo perplessa affianco a uomini che mettono insieme frasi come “la rotondità e la mancanza di igiene, sono proprio le cose che si apprezzano, in una donna”, o “dicono che tutte le belle donne hanno il sedere grosso”. Frasi che, come quelle citate più sopra, potrebbero essere state suggerite da un fotografo nato pochi anni prima. Un voyeur o escluso, sinonimi di artista.
Tichý non ha lasciato diari, ma le sue opere sono più che sufficienti. Tichý è esistito per fotografare donne. Le donne della piccola Kyjov sono sedute, distese, in piedi, inginocchiate, immortalate di fronte, da dietro, di lato, intente a svestirsi o coprirsi fumano, saltano, sorridono, non sorridono, vivono; sempre immerse nella foschia sviluppata dal fotografo, una schiuma di luce, un fumo tinta perla. Ogni foto è un esercizio di autocontrollo. Ogni foto sembra tirata via da un sogno sfrangiato, come i cartoncini di recupero sparsi per il rifugio di Tichý in mezzo ai portacenere, agli avanzi.
Come nei racconti di Charms, le azioni più banali vengono asportate dalla routine e restituite al loro luogo di origine, il mistero. Tichý non si chiede perché gli piacciano le linee femminili, le fotografa – decine di volte al giorno, per anni. Molte foto sono state scattate dall’esterno della piscina del paese, come si può intuire dalla filigrana della recinzione; per esterno si intende letteralmente l’area concessa a chi non è ammesso all’interno dello stabile, per esempio i barboni che girano con una scatola di cartone marcia tra le mani. Tichý infatti si costruiva gli apparecchi fotografici ricorrendo a materiale di recupero, tubi della carta igienica, elastici delle mutande, pezzi di plexiglass smerigliati con miscele di cenere e dentifricio.
L’improbabilità, la desolazione del quadro che si presentava di fronte ai suoi soggetti (bariste, cassiere, studentesse, qualsiasi – quindi miracolosa – donna camminasse per strada), li induceva a giocare con un dispositivo che mai avrebbe potuto scattare foto, foto che mai avrebbero potuto essere sviluppate e mostrate a un pubblico che mai potrebbe essere esistito. Ed eccoci qui, per mano, dentro una visione. A differenza di Andersson, spesso queste Monica non hanno la certezza di essere inquadrate da un obiettivo. È pornografia?
No e non importa, e comunque no. Come la serata al cinema di Harry e Monica, come la vita di Charms, qualsiasi cosa sia, l’opera di Tichý è un Canto d’amore. Charms racconta in una delle sue lettere che gli amici si “burlano” di lui, gli dicono “che si è ammattito”. E così risponde: “È vero che sono ammattito. È tutto per amore. È per amore che sono ammattito, fratelli!”.