I
l tessuto della radio sono le parole. I primi fili dell’ordito, in Italia, vengono intrecciati il 6 ottobre del 1924: sono quelli della voce di Ines Viviani Donarelli – violinista e moglie del direttore artistico della neonata Unione Radiofonica – che annuncia la messa in onda della prima trasmissione.
La radio pubblica in Italia nasce fascista, megafono della propaganda. Dopo la guerra si libera e ha un ruolo decisivo nella costruzione della cultura contemporanea: teatro, musica, letteratura, informazione. La radio pubblica ha trasformato il linguaggio degli italiani e col tempo si è lasciata trasformare, nei modi e nei contenuti, dalle radio comunitarie, le radio commerciali, e dopo ancora le webradio e i podcast, ha cercato di adattarsi a pubblici mutati, linguaggi diversi, altri gusti. L’onda lunga della radio non si è ancora infranta, è sopravvissuta alla televisione e ha trovato nella rete nuove occasioni di diffusione. Oggi in Italia, uno dei Paesi con più emittenti al mondo, raggiunge 35 milioni di ascoltatori ogni giorno.
Giorgio Zanchini è uno dei protagonisti della radiofonia italiana, conduce Radio Anch’io, la storica trasmissione di Radio1 dedicata all’approfondimento sull’attualità. Dal 2010 al 2014 è stato ai microfoni di Tutta la città ne parla, programma di Radio3 dove gli ascoltatori propongono ogni giorno una notizia da discutere. Ha da poco pubblicato La radio nella rete. La conversazione e l’arte dell’ascolto nel tempo della disattenzione (Edizioni Donzelli), un piccolo libro di studio e di analisi, ben ancorato sui dati: con un’attenzione particolare al ruolo del servizio pubblico, racconta la radio come elemento costitutivo di un modello di comunità e riflette sui cambiamenti (strutturali, di stile, di pubblico, di conduzione) che sta attraversando.
Vorrei partire dai luoghi della radio pubblica. Il Palazzo della Radio, a Roma, dove vanno in onda gran parte delle trasmissioni di Radio2 e Radio3, è un palazzo storico, su uno dei marciapiedi lì di fronte c’è ancora un tombino in piombo con la scritta EIAR, l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (il servizio pubblico durante il regime, dal ‘44 in poi RAI).
C’è anche una famosa scena dei giorni successivi all’otto settembre, presente in un documentario al quale ho partecipato, L’ultima voce, girato da Enrico Menduni e dedicato alla figura di Guido Notari, la voce più nota del fascismo, quello di tutti i documentari dell’Istituto Luce, in cui ci sono delle immagini veramente impressionanti: i dipendenti dell’EIAR che escono dal portone di quel palazzo e vengono presi a botte, a ombrellate, nei giorni della fine del regime.
E poi sempre lì c’è un archivio poderoso, dove si trova di tutto, dai primi radiodrammi alle ultime registrazioni digitali, passando per – un esempio a caso – la copia in vinile della radiocronaca del Battesimo di Sua Altezza Reale il Principe di Napoli. E questo è un orgoglio: a lavorare in radio ci si sente un po’ gli ultimi guardiani di una fiamma antichissima. È anche un peso?
È una sindrome che c’è in alcune aree della radiofonia. In fondo non hai torto a partire da una considerazione di questo genere. È presente in alcune radio, la radio pubblica, non soltanto italiana, la radio vaticana, e alcune radio comunitarie. Non c’è ovviamente nelle radio commerciali e nelle radio private, che sono tutte proiettate nel futuro, molto più di noi. Sicuramente c’è in alcune componenti professionali della radio pubblica, per ragioni sindacali ma anche storiche.
Che differenza c’è oggi tra i tre canali Rai?
Nel corpo dei lavoratori di Radio3, il canale culturale, c’è quest’idea di una tradizione da preservare, degli anni di quella radio lì, che è stata grande. Un po’ perché la loro formazione li spinge ad avere un ruolo di tutela della tradizione, e quindi è molto difficile spostarli in una visione di radiovisione o interattività spinta, di ibridazione, di cambiamento che la rete ha imposto al medium radio. Radio2 invece è più simile alle commerciali, guarda all’intrattenimento. Sono strutturalmente, secondo me, più vocati a sperimentare. E poi ci siamo noi di Radio1, che siamo un ibrido, e siamo considerati forse la radio più conservatrice. E qui torno sul tema del corpo professionale: qui dentro ci sono i giornalisti, che sono tanti, più di duecento, e la cui età media è molto alta, ed è cresciuta con quell’idea di radio lì, con quell’idea del giornalismo radiofonico Novecentesco. Ed è difficilissimo farci cambiare idea e farci cambiare atteggiamento rispetto alle necessità che la rete e le innovazioni impongono. Questi elementi fanno sì che si guardi molto indietro, pensando che la stagione della radio sia stata quella e che qualsiasi mutamento o modificazione sia pericoloso per il nostro lavoro, per la nostra fisionomia, la nostra identità.
Detto questo, le cose cambiano lo stesso.
I dati di ascolto e quelli di traffico su web e social dicono che la radio pubblica fa molta fatica. E c’è la necessità di cambiare, che portiamo avanti affannosamente, confusamente, perché l’età media è alta, ci sono pochi giovani, ci sono difficoltà a sperimentare, a portare nuovi linguaggi, nuove tecnologie, anche per ragione di freni sindacali più che legittimi, perché poi sono in gioco i posti di lavoro di tutti noi. La radio pubblica fatica, con – però – delle contraddizioni, delle sorprese, degli elementi che rompono questa narrazione. Perché ad esempio i prodotti culturali di Radio3 hanno dei numeri altissimi sui podcast. In realtà sono tendenze, come sempre nella modernità o nella post-modernità, che tirano da parti diverse. È molto difficile generalizzare.
L’offerta radiofonica è stata ampia sin dalla nascita della radio, sin dal motto storico della BBC: educare, informare, intrattenere.
To educate, to inform, to entertain. Intrattenimento e informazione sono chiare, il terzo corno, educazione, formazione, come vogliamo chiamarla? Forse è cultura. Sono tre super-generi che in effetti esistono ancora in radio, e sono uno strumento convenzionale utile per definire ciò che ascoltiamo. Anche se ormai si ibridano molto, e proprio Enrico Menduni – che citavo prima – all’entertainment ha dedicato
un saggio lucidissimo e molto spiritoso, che dice in sostanza: non necessariamente l’
entertainment è una cosa leggera. Può avere una qualità radiofonica, o più in generale qualità informativa comunicativa e culturale altissima, laddove la formazione, la cultura, la pedagogia può essere noiosa, paludata, non raggiungere le persone, non parlare alla gente.
Ibridazione sembra la parola chiave per parlare di radio oggi, sia per i contenuti che per i mezzi di diffusione.
La storia dei media ti insegna che è difficile che un medium sia più forte, che un nuovo medium uccida i media precedenti, di solito convivono, si rimescolano, si modificano reciprocamente. La radio in fondo ha prestato molto alla televisione, è stata indebolita dalla televisione ma è anche sopravvissuta alla televisione, ha una resistenza per caratteristiche sue intrinseche. La rete è stata ed è una sfida gigantesca, una sfida enorme per la radio, ma per il momento – e i dati di ascolto sono abbastanza chiari su questo – ha fornito frecce all’arco della radiofonia e della radio in generale. Perché in realtà ha sfidato la radio su due funzioni molto importanti: la funzione comunitaria, la tua radio, la radio degli anni Settanta, di movimento, di linguaggio indennitario e poi la radio come strumento per scoprire e trasmettere musica, che per la mia generazione è sempre stato un elemento decisivo. Oggi queste due funzioni sono svolte benissimo da app e social media ed è lì che la radio si indebolisce. Detto questo però, in termini di possibilità, di interstizialità, diciamo così, è esaltante il matrimonio tra rete e radio. Io la sento in albergo col digitale terrestre, la sento dal telefonino e dal web, ovunque, è molto più facile, sta un po’ dappertutto. E poi l’incontro con le app di diffusione dei podcast ha reso la vita delle trasmissioni radiofoniche indipendente dalla trasmissione in diretta. E quindi, molto banalmente, si è moltiplicata e ramificata la sua esistenza.
La radio è ancora viva.
Guarda, questo è il giornale di qualche giorno fa [tira fuori un ritaglio]: “La previsione dei The Buggles, gruppo inglese che negli Ottanta cantava Video Killed the Radio Star non si è affatto avverata. Anzi, è avvenuto l’esatto contrario. La cugina della tv non solo si è presa la rivincita, tornando ad essere un media primario, ma sta addirittura dettando l’agenda politica. Molto più di quanto non facciano i talk show televisivi, retrocessi a megafono elettorale.” Se ci pensi le trasmissioni telefoniche del mattino davvero dettano l’agenda politica di questa campagna elettorale, la radio in questa fase storica per la sua capacità, per la sua facilità, per la sua leggerezza, per la sua comodità, può raggiungere, anche sotto forma di piccoli frammenti, via internet, persone che un tempo non avresti mai raggiunto. Quindi in realtà ho l’impressione che per la radio sia davvero un momento felice, certo le sfide sono enormi. Penso però che sia uscita rafforzata da tutti questi confronti, più libera, più emancipata, e sia riuscita a esaltare le sue caratteristiche storiche che dicevamo prima.
Il successo della radio sta nella capacità di costruire una comunità. Nel libro c’è una citazione: la radio è il pendolo naturale tra sfera pubblica e intimità.
Beh penso soprattutto a Radio3, che ha un palinsesto disegnato esattamente tra intimità e sfera pubblica, e riesce a farlo benissimo, non a caso è una radio che, senza numeri enormi, raggiunge comunque un milione e mezzo di persone. Gli storici della radio insistono sempre su un particolare: “la radio è il medium di un senso solo”. Ora lo è sempre meno, va molto di moda la radiovisione per esempio, ma per il resto in effetti, quando tu stai nella tua macchina, a casa, in cucina, si attiva a partire dall’orecchio la tua immaginazione: ti entra, a partire da un solo senso, uno stimolo, un sollecitazione che poi la tua testa trasforma. E quegli stimoli sono comunitari, perché ti parlano della vita sociale. Ti arrivano le voci più diverse, quindi toccano la tua vita. Ma sono anche estremamente individuali: è un’esperienza davvero soggettiva, quando il conduttore sembra parlare proprio a te, o anche in alcuni pezzi di teatro, di lezioni, di musica, che sembrano davvero un rapporto comunicativo uno a uno. Nella radio convivono queste due dimensioni come nessun altro strumento, forse solo la letteratura.
La letteratura però soffre di più a mantenere viva la nostra attenzione, nel tempo della disattenzione.
Se pensi ai tempi di lettura, e su questo ci sono molte ricerche, è evidente che il nostro tempo di attenzione si è abbassato. I mercanti dell’attenzione, che è il titolo di un saggio secondo me importante uscito l’altro anno negli Stati Uniti, ti dicono quanto la competizione per il nostro tempo libero si sia fatta feroce, e lì in mezzo c’è di tutto, comprese le grandi multinazionali dell’intrattenimento americano che sono potentissime e creano prodotti straordinari. La radio è uno dei tanti media che si fa faticosamente ma degnamente strada in questa competizione e devo dire che la domanda che mi pongo io è: se si abbassa la soglia di attenzione, quanto spazio c’è e ci sarà per la radio di ascolto serio, una radio di contenuto? Detto questo, l’illusione, la convinzione che ho io, e non soltanto io, è che proprio perché sta aumentando l’anarchia o l’inflazione informativa, noi abbiamo bisogno di filtri, di selettori e di strumenti di riflessione anche raziocinante e pacata, e la radio di parola conserva ancora quella funzione. Certo in Italia scontiamo il dato del deficit culturale complessivo del paese e la radio è un capitolo di quel deficit culturale, perché se tu guardi i dati delle prime 15 trasmissioni più ascoltate, le prime 14 sono intrattenimento, cazzeggio, mentre in altre tradizioni culturali, in Gran Bretagna, in Germania, Francia, non è così.
Però, guardando all’estero, ci sono degli esperimenti, dei podcast, delle trasmissioni veloci, di venti minuti magari, molto narrative, molto accessibili e che riescono a parlare lo stesso di cose estremamente complesse.
È vero, e in questo gli anglosassoni sono bravissimi. Infatti a un certo punto nel libro suggerisco la strada britannica, perché secondo me gli inglesi, ma anche gli americani, sono bravissimi, e cito in particolare le serie. Le serie in questi anni ci hanno insegnato come si possa fare narrazione avvincendo e non essendo mai banali mai noiosi, trasmettendo qualcosa. Ci sono certe lezioni brevi di meccanica quantistica brillantissime, che riescono a comunicare dei concetti persino a un cialtrone come me, su campi che non maneggio. C’è una via di mezzo, hai ragione, e se ci pensi in fondo è quella del teatro inglese, viene da quella tradizione narrativa lì. Lo dice spesso anche Marino Sinibaldi (direttore di Radio3), ci vuole un elemento spettacolare anche quando fai cultura. Non dobbiamo farci schiacciare nel ricatto della serietà, il che significa abdicare a tutte le funzioni seduttive o di capacità di catturare il pubblico. Il golfo è molto ampio e ci sono mille strade.
Continuiamo con il caso italiano. La cultura del podcast ancora fatica.
Funziona però molto la dimensione pedagogica e soprattutto quella atemporale, e alcune radio, come Radio3, hanno giustamente investito in questo. Alcune trasmissioni di informazione invecchiano immediatamente, dopo tre ore sono già vecchie. Invece la radio ti dimostra che i programmi che mirano alla funzione dell’educate, della cultura, della trasmissione di contenuti, hanno dati di ascolto podcast stellari: trasmissioni come Wikiradio, o Ad Alta Voce, e quelle più narrative, rivivono con i podcast.
Il podcast è nato come un modo di salvare i file delle trasmissioni ma ha finito per modificare il modo stesso di fare radio, almeno all’estero.
Ha rotto l’orologio sociale, per rubare un’altra espressione, la simultaneità emozionale, i riti dell’ascolto – e con la televisione è successo lo stesso. Il rito in contemporanea e tutti insieme è stato rotto dal podcast. E quando guardiamo ai dati dobbiamo tenere presente anche questo, ci sono delle code lunghissime di ascolto. Esistono delle trasmissioni che non vanno più in onda ma che continuano a essere tra le più scaricate, altre ancora che addirittura non sono mai andate in onda.
In molte trasmissioni di successo, come Radio anch’io, c’è invece un grande coinvolgimento degli ascoltatori proprio durante la diretta.
Infatti in molti dicono che la radio resisterà live and local, perché l’informazione locale è quella immortale, e poi su piattaforme con podcast. Io ho scarsissime capacità immaginifiche e di predizione del futuro, ma immagino una radio con questo destino, multifaccia.
Avendo lavorato per entrambe le reti: che differenza di pubblico c’è tra Radio3 a Radio1?
Sono ascoltatori nettamente diversi. Ma basta guardare i dati: entrando un po’ nel merito del campione, il pubblico di Radio3 è più istruito e più progressista, il pubblico di Radio1 è più generalista – di numero è più del doppio, più del triplo. L’età media è comparabile, sopra i 50 per entrambi. Nel caso di Radio1 è un pubblico conservatore, nel caso di Radio3, invece, ricordo che negli anni in cui ci lavoravo era pentastellato. Molti di quelli che ci scrivevano erano grillini, definiamoli così, molti a sinistra del PD, molti filo-PD. C’era molto poco centro-destra, mentre a Radio1 quell’elettorato è molto presente. E poi è un pubblico molto maschile, Radio1, come Radio24, è ascoltata da molti più uomini, mentre nel pubblico di Radio3 ci sono molti insegnanti e molte insegnanti donne. E devo dire che Radio3 ha una capacità di catturare il pubblico giovanile, quella fetta più attenta, consapevole, critica. Radio1 fa più fatica a intercettare pubblico giovane.
Il cuore di molti programmi radio di attualità sono gli SMS, le telefonate, i microfoni aperti.
Che tirano un po’ fuori il peggio delle persone [ride]
E allora qual è il ruolo, la responsabilità, delle radio in generale e del servizio pubblico in particolare? Fare da filtro?
È una domanda difficilissima. Secondo me un filtro c’è comunque. In Italia abbiamo una tradizione di presenza di ascoltatori storica, più di altre tradizioni, francesi e inglesi, che considerano l’apertura dei microfoni un po’ demagogica. Da noi invece molti pensano che possa svolgere una funzione quasi di sfogo sociale, quindi placare, disinnescare la temperatura nella società. Io in parte penso sia vero, però ho un approccio molto neutrale, cerco veramente solo di fotografare il pubblico, altri miei amici e colleghi sono molto più paternalisti, tendono a dire bravo! all’ascoltatore che fa la considerazione progressista o aperturista, oppure no, è inaccettabile quello che dice all’ascoltatore più estremista. Io cerco gesuiticamente di mettere assieme un po’ tutto, per indole più che per convinzione. Bisogna mettere dei paletti, certo, ci sono delle posizioni inaccettabili, ma non si può avere un atteggiamento paternalista, ottieni l’effetto opposto di quello che vorresti. Giovanni Orsina lo chiama “atteggiamento ortopedico”: gli italiani non vanno bene, allora vanno raddrizzati, perché sono sbracati, razzisti, fascisti, storti, prosaici. E infatti, dice Orsina, la sinistra ha sempre pensato di doverli raddrizzare, mentre Berlusconi ha detto “andate benissimo così”, anzi esaltiamo questa vostra anarchica energia, e ha vinto.
A proposito di ecumenismo, mi sono segnato le tre parole più ricorrenti del libro: partecipazione, connessione, conversazione.
La partecipazione è la storia della radio. Connessione è un po’ il compito di chi lavora nel campo dei media, aiutare a capire quali sono gli snodi e i filtri più interessanti. Conversazione è quello più in crisi, perché i tempi sono brevissimi ormai, le conversazioni vengono rotte, bisogna trovare un compromesso tra la soglia di attenzione abbassata e un minimo di raziocinio. Bisogna riuscire a presidiare, difendere quegli spazi in cui si riesce ancora a riflettere in maniera pacata. Non voglio concludere in maniera retorica, ma la conversazione è una delle più grandi conquiste dell’umanità. La radio è lo spazio della conversazione, lo spazio dell’ascolto. Forse aggiungo solo una parola a queste: immaginazione, perché la forza della radio, per le caratteristiche che ha, è proprio quella di permetterti di immaginare.