U na storiografia che pone al centro della narrazione la celebrazione di date e anniversari sclerotizza la storia a mera narrazione positivista di fatti e vicende, che riletti nella luce del presente, appaiono lontani, velati di nostalgia – quest’affermazione, generale e prescrittiva, potrebbe suonare qui un po’ retorica, posta all’inizio di un testo il cui movente è il cinquantenario del 1968: questa data-simbolo sulla quale così spesso si è indugiato rappresentandola come età del sogno e della festa, separandola dal dopo, quasi che quel dopo fosse un’escrescenza aliena prodotta dal rinnovato dominio della politica sulla vita. Se si guarda alla specificità del ’68 italiano, ecco che una scrittura della storia che pensa il passato attraverso cesure simboliche, appare particolarmente fuorviante: storici e storiche studiando il dopoguerra italiano e soffermandosi sui fatti del ’68 si sono immancabilmente chiesti se il vero ’68 non sia invece stato il 1969, l’anno dell’autunno caldo, culmine delle lotte operaie che dalle fabbriche del nord Italia si estesero nel resto del paese. Nelle fabbriche e non nelle università si sarebbero combattute le battaglie decisive – così pensava il movimento del ’68, sancendo quel sodalizio tra operai e studenti, che metterà in discussione la funzione accentrante del PCI (e dei sindacati) alla guida del processo rivoluzionario.
Non sono solo però solo gli storici che in Italia hanno suggerito di riconsiderare il ’68 come motore della storia – il movimento femminista cosiddetto di seconda ondata, già nei primi anni Settanta, si batteva per una de-mitologizzazione di quest’anno magico, criticando da un lato lo sciovinismo maschile (l’essere “troppo uomini”) dei gruppi della sinistra extraparlamentare e dall’altro la pratica dell’amore libero, per una donna spesso più un’imposizione maschile piuttosto che una scelta di emancipazione.
In Italia i gruppi femministi sono tantissimi e assai diversi tra loro. Ciò che hanno in comune è però l’opposizione a ogni forma di dominio (avendone già sofferti gli effetti in precedenza nei gruppi radicali) e una linea politica che si muove sulla base di sviluppo del lavoro collettivo, impedendo il nascere di leader conculcatrici:
il rifiuto di avere dei capi è il rifiuto di quei rapporti fra il maschio e la femmina e di quella competitività fra donne presenti nella società che stanno sfidando
scrive Juliet Mitchell nel 1971 in Woman’s Estate, libro-manifesto del Women’s Liberation Movement americano scritto a partire dal presupposto che “the personal is the political” e che viene pubblicato in italiano da Einaudi già nel 1972.
Il cinema che, a differenza della letteratura, presuppone per sua natura un processo di produzione collettivo, di messa tra parentesi della figura dell’autore come suprema entità creativa, appare da subito alle femministe un terreno fertile da esplorare. Il mezzo scelto per imparare a far cinema era il super8, per la relativa facilità d’uso della cinepresa e per la possibilità di realizzare film a bassissimo costo. Un formato ricorrente è il documentario – nel seguente ne analizzo alcuni e, a partire da questi, vorrei andare a toccare alcune questioni teoriche centrali per il pensiero femminista negli anni Settanta in Italia.
A differenza del documentario classico militante, che si rifà alla tradizione britannica di John Grierson, incentrato sulla voce fuori campo, il più delle volte maschile, monotona e didattica, che stordisce lo spettatore in un fiume di parole e appiattisce le immagini a mera funzione illustrativa, per le femministe filmare la realtà non significa soltanto documentare cortei e manifestazioni, testimoniando le vittorie del movimento e le tappe del processo politico. Piuttosto quello che più interessa è ampliare il concetto stesso di “documento” filmico e con esso, anche quello di realtà degna di essere studiata e osservata: lo spazio pubblico – strada e piazze – viene contrapposto in senso dialettico allo spazio della casa, quindi del femminile, che per il marxismo classico è un luogo-non-luogo, ai margini del lavoro e del ciclo produttivo.
Infine un’ultima considerazione di carattere metodologico. Scegliendo di prendere in considerazione il cinema documentario e non quello narrativo, nel quale quindi le donne prima di tutto configurano come soggetto del film (dietro la telecamera) e secondariamente come oggetto (dello sguardo), la domanda della rappresentazione e del piacere dello spettatore/spettatrice, cruciali per la teoria del cinema femminista classica di stampo psicoanalitico, non saranno invece al centro di questa indagine.
“Sii oggettiva”
Sei donne, sei amiche, si ritrovano su un terrazzino romano assolato per discutere. Tutte fumano, una di loro lavora a maglia. Qui all’aperto, con i rumori della strada in sottofondo e il lavoro domestico lasciato all’interno, nella casa e nelle sue stanze, non ci si lamenta di figli e di mariti. Piuttosto si parla di lotta femminista e ci si interroga su quali forme e strategie dovrebbe assumere per differenziarsi da quella maschile, “la cui unica dinamica è quella dello scontro con la polizia” e si parte dal vissuto comune, dalle manifestazioni cioè dell’8 marzo da poco trascorse. Colei che a turno prende la parola spesso non viene inquadrata. Più che il parlare, vediamo qui dunque l’ascoltare: immagini di volti assorti e concentrati sui quali si sovrappone una voce femminile fuoricampo, acusmatica e diegetica, che priva di fisicità diventa flusso interiore collettivo. Della presenza della cinepresa nessuno sembra curarsi: in La lotta non è finita, il cortometraggio da cui sono tratte queste scene di quotidianità “rivisitata” in cui il privato (il chiacchierare sul balcone di casa) diventa politico, la produzione d’immagini è volta a documentare la voce di donne nell’atto di raccontarsi, tramite una pratica che negli anni Sessanta e Settanta prendeva il nome di “autocoscienza”.
“Parlavamo per ore e ci sentivamo sollevate; ci salutavamo con il morale alle stelle, dandoci appuntamento alla settimana dopo” (Anna Bravo) – per il femminismo italiano, soprattutto ai suoi inizi, l’esperienza dell’autocoscienza, il riunirsi cioè in piccoli gruppi allo scopo di far emergere nel confronto con altre donne la propria soggettività femminile sottraendola dall’interpretazione che ne dava la cultura maschile, è stata fondamentale, in quanto ha permesso di superare l’isolamento individuale, storicamente determinato dall’emarginazione della donna nella famiglia.
Il femminismo non inventa però l’autocoscienza. Questa pratica ha i suoi antecedenti politici nello speaking bitterness della Cina comunista, una tecnica narrativa che racconta il passato come una catena di sofferenze riscattate dalla rivoluzione culturale; e negli Stati Uniti, dove le riunioni locali dello Students for a Democratic Society (SdS), si cominciano con l’autopresentazione personale degli organizzatori e dove da tempo esistono i gruppi di autoaiuto – alcolisti anonimi, vittime di traumi, donne divorziate basati sulla terapia della parola come strumento di analisi collettivo.
Per i piccoli gruppi di donne l’autocoscienza non mira però a reinserire l’individuo nella società (come nel caso, per esempio, dei gruppi di autoaiuto):
Autocoscienza per noi è critica del privato con la prospettiva di distruggere il privato, non per starci più tranquille
si legge in Effe, il settimanale di controinformazione femminista nato negli anni Settanta. E anche l’atto del ricordare stesso, se da un lato è lavoro psicoanalitico di regressione nell’inconscio, dall’altro permette di passare dall’analisi della sfera del personale di una donna particolare a una generalizzazione della condizione di sfruttamento della donna nella storia.
Da qui l’interesse del movimento femminista italiano per le “streghe” che diventano “madri simboliche”, all’interno di una dolorosa genealogia di repressione della donna da parte della cultura ufficiale degli uomini. Luisa Muraro, una delle fondatrice della Libreria delle donne di Milano e filosofa, scrive nei primi anni Settanta La signora del gioco, dove il fenomeno della caccia alle streghe nella storia europea viene raccontato a partire dalle vittime della persecuzione, ricollegandosi così facendo ad una tipologia di scrittura della storia che proprio in quegli anni si stava consolidando in Italia sotto il nome di “microstoria”, che decideva di soffermarsi su figure apparentemente secondarie, su culti locali e contadini, fino a quel punto tralasciati dalla cultura “alta”. Uno degli ultimi processi del Seicento per stregoneria, quello contro Caterina Ross, avviene a Poschiavo, nelle Alpi Retiche – nel libro della Muraro la scena del processo è ricostruita dettagliatamente, per mezzo dei protocolli originali. Il documentario minimalista Processo a Caterina Ross di Gabriella Rosaleva ne è la trasposizione filmica: un capannone industriale della stazione di Milano Bovisa come teatro di posa, un primo piano fisso dell’attrice Daniela Morelli segnata dalla tortura e una voce fuori campo, quella del podestà, suo giudice e carnefice, sono gli unici elementi estetici di un setting povero, in cui la voce (qui separata dal corpo) diviene nuovamente protagonista.
Lotta di donne e lotta di classe: è esportabile l’ipotesi femminista?
È interessante notare come la sensibilità al tema delle radici varia da movimento a movimento e da fase a fase. Mentre in Italia si guarda alle devianti e alle ribelli – streghe ed eretiche – e più tardi, nella seconda metà degli anni Settanta, alla resistenza, nel movimento americano ci si richiama al suffragismo e alle lotte per l’abolizione della schiavitù. In generale però il tema della memoria e del radicamento nella storia rimangono aspetti centrali del processo di presa di coscienza della donna, perché permettono di passare dall’analisi di dati tratti della sfera del personale a un più ampio orizzonte politico.
Negli anni Settanta le “streghe” diventano madri simboliche all’interno di una dolorosa genealogia di repressione della donna da parte della cultura ufficiale degli uomini.
Questo passaggio dall’individuale al collettivo, seppur fondamentale, pone al contempo una questione su cui spesso il femminismo si è trovato a dibattere, quella cioè dell’emblematicità della condizione femminile rispetto ad altre oppressioni (di razza, di classe, etc.). Una possibile risposta è stata quella di considerare le donne in lotta come elemento dialetticamente rivoluzionario di un processo che vede la liberazione di tutti gli sfruttati e oppressi, dove l’ipotesi femminista si va dunque a inserire nelle stratificazioni di classe. Per poter stabilire se e come il femminismo può essere elevato ad avanguardia e baluardo rivoluzionario è però prima di tutto necessario elaborare i suoi tratti specifici, per poi da qui chiedersi se questi siano “esportabili”. L’autocoscienza è, come si è visto, molto utile per portare alla luce la tipicità dell’oppressione femminile, non limitandosi alla decostruzione dell’identità femminile forgiata dalla cultura del patriarcato, quanto piuttosto elaborando forme di espressione specifiche alle donne.
In questo senso il pensiero femminista da azione politica di condanna mira anche ad essere lavoro di creazione. Il passaggio dalla negazione all’affermazione, dalla critica alla proposta, pone anch’esso una difficoltà epistemologica di fondo: come può una donna creare e crearsi se i sistemi di sapere e di scrittura (écriture) e le istituzioni che li perpetuano, costituiscono le strutture stesse del patriarcato, prodotti cioè da una cultura che l’ha sistematicamente esclusa e svalutata? In altre parole, articolando un concetto caro al femminismo second wave, quello cioè di differenza, il problema sollevato dal movimento delle donne è quello della sovversione del soggetto rispetto a una logica fallico-repressiva entro la quale l’identità femminile è sempre e comunque definita in rapporto all’uomo – come “mancanza”, come ”altro” e come “irrazionalità”.
Sulle possibili forme che la critica femminista dovrà assumere per esulare la dicotomia uno/altro che sempre definisce la donna in maniera derivativa rispetto all’uomo e che quindi ripropone i presupposti del fallologocentrismo, s’interroga un prezioso documentario agit-prop del movimento femminista: Affettuosamente Ciak. Un’équipe di donne del gruppo cinema Alice Guy si diverte a inscenare una partita di tennis fittizia, nella quale a volare sono libri vetusti e polverosi, mentre due giudici (due donne in toga) dibattono sugli svantaggi sociali dell’istruzione femminile in un italiano aulico rinascimentale e una raccattapalle un po’ svampita corre da un lato all’altro del campo senza raccapezzarsi.
È la poetica anarchica dello slapstick comedy ad articolare in Affettuosamente Ciak un luogo di enunciazione del femminile nuovo: la mimica grottesca, così come la dimensione del gioco collettivo e caotico non si lasciano però ricondurre a una semplice logica di appropriazione di un linguaggio preesistente che ora le donne vogliono far loro. In Affettuosamente Ciak le donne portano avanti collettivamente una ricerca espressiva che mette al centro il corpo – goffo o sensuale, atletico o pigro – cercando di vincere l’imbarazzo dell’occhio meccanico del cinema che scruta e sorveglia. Lo scopo del lavoro cinematografico diventa così, citando Effe, quello “di imparare a conoscere e ad accettare la nostra immagine fisica, il nostro “imperfetto”, la nostra realtà di donne che camminano, ridono, giocano o lavorano”.