N el 1733, quando era alla corte di Vienna, Pietro Metastasio scrisse il dramma per musica l’Olimpiade, esempio paradigmatico d’una complessa tipologia operistica, il dramma d’intrigo, tra le più popolari dell’epoca. Dalla capitale asburgica Metastasio esercitò una sorta di dittatura letteraria sull’intero mondo operistico europeo, conservando il titolo di “poeta cesareo” per più di cinquant’anni e rappresentando un punto di riferimento per chiunque nel Settecento si avvicinasse al mondo del dramma per musica. Per il prestigio del suo autore e per la qualità letteraria, l’Olimpiade fu un modello fra i più ammirati del suo tempo, ed ebbe un rilievo musicale non comune. La sua fortuna si estese dal Settecento all’Ottocento, e contribuì a prefigurare e trasmettere quella particolare visione degli antichi Giochi ellenici che condusse Pierre de Coubertin alla definizione del moderno olimpismo.
La prima dell’opera, con musiche di Antonio Caldara, andò in scena a Venezia il 28 agosto 1733 su commissione dell’imperatore Carlo IV, per celebrare il compleanno della consorte, Elisabetta Cristina. Nel corso dei decenni a seguire furono realizzati più di 50 lavori a partire dal libretto di Metastasio: la maggior parte dei compositori mise in musica il testo integralmente (tra questi Vivaldi, Pergolesi, Hasse, Jommelli, Cherubini, Paisiello); altri (come Gluck, Mozart e Beethoven) si limitarono a musicare singole arie. Superata in popolarità solo da Artaserse e Alessandro nelle Indie, e acclamata al pari di Demofoonte e Didone abbandonata, L’Olimpiade fu considerata per tutto l’Ottocento uno dei drammi metastasiani più riusciti e importanti: come scrisse Giosuè Carducci, il Diciottesimo e Diciannovesimo secolo si accordarono “nell’acclamare la divina Olimpiade, dove la melica e la melopea italiana raggiunsero certo una perfezione inarrivata e inarrivabile”.
L’opera seria fu il genere operistico più importante del Settecento; ciò assicurava ai lavori acclamati circolazione ampia e duratura. Fu questo il caso dell’Olimpiade, che fu “rappresentata e replicata in tutti i teatri d’Europa” (scrisse Metastasio in una lettera a Saverio Mattei). Ad ampliare la fama giunsero poi i pasticci (opere in cui si assemblavano pezzi originali con parti d’altri autori) che ne utilizzarono il titolo: sul solo palco del Kings Theatre di Londra ne andarono in scena circa 40 tra il 1770 e 1780. E non mancarono i balletti (Les Jeux Olympique, Les Fêtes grecques et romaines) con specifiche coreografie a imitazione delle gare. Il successo si riverberò infine dalle scene alla letteratura, fungendo da ispirazione a versi di Milton e Keats in Inghilterra, Ronsard e Du Bellay in Francia, Kochanowski e Szymonowic in Polonia, Hölderlin e Goethe in Germania.
L’Olimpiade di Metastasio contribuì a prefigurare la particolare visione degli antichi Giochi ellenici che condusse Pierre de Coubertin alla definizione del moderno olimpismo.
Ma L’Olimpiade ebbe un ruolo più grande nelle coscienze europee del semplice fornire un nome al ricordo dei Giochi ellenici. L’azione del dramma si svolge nelle campagne dell’Elide, nei pressi della città di Olimpia, sulle sponde del fiume Alfeo. Attraverso i personaggi di Clistene (re di Sicione), della figlia Aristea, di Licida (figlio ignoto di Clistene), della dama cretese Argene e dell’ateniese Megacle (plurivincitore di gare olimpiche), la vicenda presenta una sintesi perfetta degli elementi tipici dei drammi metastasiani: il conflitto amore-dovere, complicato dai risvolti affettivi dell’amicizia; la struttura della doppia coppia di innamorati che funziona come un meccanismo perfetto, con i protagonisti maschili legati da una profonda amicizia messa in crisi dall’amore per la stessa donna (Aristea); le donne animate dalla accorata difesa delle proprie inclinazioni contro le convenzioni sociali. A questi elementi si aggiungono i rimandi “alla solennità de’ giuochi olimpici” che “col concorso di tutta la Grecia, dopo ogni quarto anno si ripetevano”.
Il momento culminante della vicenda è il riconoscimento di Licida come Filinto, figlio di Clistene (il riconoscimento è uno dei topoi più frequenti della drammaturgia dell’epoca), mentre l’azione prende le mosse dal suo desiderio “sbagliato” di partecipare ai giochi olimpici e conquistare Aristea (desiderio “sbagliato” perché Licida dimentica così Argene, e allo stesso tempo “perverso” perché Aristea è in realtà sua sorella). A questi livelli della trama Metastasio ne aggiunge uno intermedio e subalterno in cui trovano spazio i Giochi olimpici, e che risponde all’esigenza di favorire la varietà. Grazie alla presenza di questi livelli Metastasio può razionalmente tenere in equilibrio esigenze diverse, quali la raffigurazione del conflitto umano tra sfera razionale ed emotiva (con la vittoria finale della prima), tra ragion di stato e affetti privati, tra etica e passione, ma anche tra ordinamento monarchico e spinte democratiche. Più che una storia di atleti e atlete, l’Olimpiade è, dunque, un dramma sul conflitto tra onore, amicizia e amore, in cui il dovere morale trionfa sulle passioni: le gare sono solo rievocate dall’azione e le vicende a esse connesse restano sullo sfondo. Il ruolo dei Giochi olimpici è quello di fornire, attraverso un’ambientazione eroica che supporti in maniera convincente l’evolversi dell’azione, modelli di virtù, resistenza d’animo e forza morale che assicurino stabilità e progresso sociale.
Pur se la ricostruzione delle gare, e dei rituali a esse connesse, fornita da Metastasio fu imprecisa e in gran parte non veritiera, essa divenne una sorta di memoria storica credibile, a cui poi attinsero la maggior parte di quelli che si avvicinarono al mondo olimpico nei decenni successivi. E ciò accadde proprio per il portato ideale – una cosmologia morale positiva e “progressiva”, preservata dalla regalità – che caratterizzò la versione dei Giochi offerta dal poeta cesareo. Del resto, la verosimiglianza, più che l’attenta ricostruzione del soggetto storico, era una peculiarità del dramma settecentesco, attento a soddisfare le esigenze delle commissioni aristocratiche e le convenzioni scenico-musicali del tempo, meno a fornire versioni attendibili delle vicende storiche scelte per soggetto.
Più che una storia di atleti e atlete, l’Olimpiade è un dramma sul conflitto tra onore, amicizia e amore, in cui il dovere morale trionfa sulle passioni.
Nello stabilire una connessione ideale tra il fortunato dramma e la nascita delle moderne Olimpiadi, non si può, dunque, tralasciare il contesto regale in cui l’opera nacque. Lo stereotipo dell’eroe classico, in grado di superare il conflitto tra amore e onore – di cui le gare atletiche sono metafora –, era caro alla cultura aristocratica dell’epoca. L’opera seria era uno spettacolo prettamente di corte, al quale si presenziava solitamente su invito, internazionale negli scopi e nell’appeal. Uno spettacolo per prìncipi, con voluttuose melodie, intrighi amorosi, scene sfarzose e balletti, pensato per sedurre le élites, i cui classici riferimenti intellettuali raggiunsero gli sviluppi più alti proprio nel corso del Settecento. L’Olimpiade, con le sue processioni marziali, le fanfare eroiche, i gloriosi cori e le arie virtuosistiche (nelle sue diverse messe in musica) fu un appuntamento fisso del calendario regale, eseguita per Filippo V e Carlo III di Spagna, Caterina II di Russia e Marianna Vittoria di Portogallo, l’imperatore Giuseppe II. Il testo di Metastasio conteneva ideali quali rigore, stabilità ed equilibrio che valorizzavano l’immagine della monarchia; conseguentemente il successo dei drammi musicali che ne derivarono svolse, nell’arco di più di un secolo, un ruolo cruciale nel potenziare l’immagine stessa della nobiltà e della regalità.
Allo stesso modo Coubertin utilizzò la spinta dell’influente aristocrazia di fine Ottocento per progettare e realizzare l’edizione moderna dei Giochi olimpici: alla prima riunione del comitato organizzatore, che si tenne alla Sorbona di Parigi dal 16 al 23 giugno 1894, parteciparono 78 delegati, in rappresentanza di quarantanove club sportivi delle maggiori potenze mondiali; furono presenti, tra gli altri, il re del Belgio Leopoldo II, il principe di Galles Edoardo, il principe ereditario greco Costantino e, per l’Italia, il conte Mario Lucchesi-Palli e il duca Riccardo Carafa d’Andria. I Giochi, internazionali negli scopi e nelle ambizioni, furono, almeno in una prima fase, monocolore, perché prevalentemente rivolti alle élites delle grandi nazioni occidentali.
L’olimpismo diffuso dall’Olimpiade fu lo stesso che animò gli intenti di Coubertin, il quale, proprio come in una staffetta d’atletica, ne raccolse il testimone. Gli sportivi immaginati dal barone francese non erano così lontani dal modello eroico fornito da Metastasio: rappresentanti di virtù “alte”, spinti dal sentimento dell’onore ed esempi di una rettitudine capace di dare equilibrio al singolo e alla società. Proprio come accadeva nell’antichità, la necessità di dedicare molto tempo agli allenamenti comportò che soprattutto i membri delle classi più facoltose vi presero parte. Allo stesso modo, le donne furono escluse dalle gare: nell’Olimpiade Aristea, mentre fuori dall’arena aspetta notizie sui Giochi, dice ad Argene che “i regolamenti proibiscono alle donne di essere spettatrici”; due secoli più tardi Coubertin rimarcava che “nelle Olimpiadi il ruolo primario delle donne dovrebbe essere quello di incoronare i vincitori”.
Come le vicende narrate dall’Olimpiade avevano il compito di confermare la necessità del potere regale, tutore di quei princìpi discendenti dall’idillica visione olimpica, così Coubertin sottoscrisse, condendola con pacifismo e cosmopolitismo, l’ideologia delle élite del suo tempo, non dissimile da quella metastasiana: un’ideologia animata dal sogno di una società “muscolosa”, stabile e forte, tesa a un progresso inarrestabile (che avrebbe condotto l’Europa alla carneficina senza precedenti del primo conflitto mondiale). Le numerose pagine scritte da Coubertin abbondano di affermazioni quali “l’idea olimpica è il concetto di una forte cultura muscolare appoggiata da una parte sullo spirito cavalleresco e, dall’altra, sulla nozione estetica, sul culto di ciò che è bello e gradevole”; e ancora, “l’olimpismo tende a riunire in un fascio radioso tutti i princìpi concorrenti al perfezionamento dell’uomo”; infine: “perfezionando il suo corpo con l’esercizio come fa lo scultore di una statua, l’atleta antico onorava gli dei; nel medesimo modo, l’atleta moderno esalta la sua patria, razza e bandiera”.
L’olimpismo diffuso dall’Olimpiade fu lo stesso che animò gli intenti di Coubertin: gli sportivi rappresentavano virtù “alte”, onore e rettitudine capaci di dare equilibrio al singolo e alla società.
La connessione tra Metastasio e Coubertin non è storicamente dimostrabile (non ve n’è traccia nelle Memorie olimpiche del barone francese), ma evidente anche se si ripercorrono le tappe della formazione dell’inventore dei moderni Giochi. Coubertin incontrò il sogno ideale dell’utile et dulce, auspicato dagli Arcadi e da Metastasio, anzitutto studiando dai Gesuiti presso l’École Saint-Ignace di Parigi. Lì Coubertin ricevette un’educazione morale, volta alla soppressione delle passioni e all’acquisizione di una forte prudenza interiore, non dissimile da quella proposta dal razionalismo cartesiano tanto caro agli Arcadi. Gli allievi della scuola gesuita di Saint-Ignace si nutrivano di ideali quali onore, dignità, coraggio e sacrificio attraverso lo studio delle gesta eroiche e delle parole rette di re, santi, poeti e scienziati: figure parte di mondi idealizzati, del tutto lontani dalla realtà fatta di ragioni di stato, gelosie, astuzie, inganni e soprusi. Dall’incontro tra la morale gesuita e influenze ed esperienze di vario tipo (cosmopolitismo, anglofilia, pedagogia cavalleresca, filoellenismo), nacque l’ideologia olimpica coubertiana.
La filosofia morale instillata da Metastasio nell’Olimpiade fu come un’eco che attraversando due secoli contribuì alla formulazione del moderno ideale olimpico, razionalizzato e legittimato dalle élite di fine Ottocento e adottato da Coubertin.
Il 6 aprile 1896 vennero ufficialmente aperti ad Atene i primi Giochi olimpici della storia contemporanea; era un lunedì dell’Angelo, scelto perché giorno di festa sia per la Chiesa cattolica sia per quella cristiano-ortodossa. Al mattino, la famiglia reale greca e gli organizzatori parteciparono a un Te Deum nella cattedrale di Atene, per commemorare la liberazione dall’invasione turca; al pomeriggio, dopo la cerimonia inaugurale, ebbero inizio le gare d’atletica: il primo campione fu lo statunitense James Connolly del Suffolk Athletic Club; dopo aver rischiato di non partecipare, perché derubato in Italia del biglietto per Atene, vinse il salto triplo con 13,71 metri. L’atleta che conquistò più medaglie d’oro fu il ginnasta tedesco Carl Schuhmann, ricco orafo di Berlino: primeggiò nella lotta greco-romana, nel volteggio e in due gare di ginnastica a squadre. Lo statunitense Bob Garrett, proveniente da una agiata famiglia di Baltimora, proprietaria della banca “Garrett & Sons”, vinse nell’antica arte del discobolo. Il primo britannico a conquistare un oro (sollevamento a una mano) fu Launceston Elliot, aristocratico nipote di Charles Elliot, governatore di Sant’Elena; Launceston si era cimentato anche nel sollevamento pesi a due mani, alzando 110 kg come il danese Viggo Jensen, ma a vincere fu quest’ultimo: fu un re, Giorgio I di Grecia, a decidere a chi dovesse andare la medaglia d’oro, asserendo che Jensen aveva sollevato con uno stile, a suo dire, migliore.