S crivo questo pezzo pochi mesi dopo la Brexit, all’indomani dell’elezione di Trump, con gli occhi rivolti ai fascismi crescenti in Europa e la preoccupazione per il destino delle prossime elezioni nel continente. In questo panorama, dove il populismo di destra sembra aver corroso il pensiero critico o l’idea stessa di una politica dei diritti e dell’eguaglianza sociale, sarebbe molto facile alzare bandiera bianca e ammettere che l’Occidente ha fallito in tutto. La nostra civiltà ha colonizzato il pianeta e l’ha disastrato con guerre e sfruttamento; ha schiacciato culture locali, esportato un capitalismo selvaggio, e globalizzato unicamente la diseguaglianza. In cambio ha ricevuto un nuovo terrorismo. Non è un caso che siamo finiti qui. Adorno e Horkheimer avevano ragione: il volto oscuro dell’Illuminismo, la sua volontà di dominio, governa il mondo. E invece Franco La Cecla, nel suo ultimo libro pubblicato da Elèuthera, invita a schierarsi esattamente sul lato opposto. Fin dal titolo: Elogio dell’Occidente.
Con un gesto controcorrente — quantomeno nell’area di sinistra — l’antropologo propone di distinguere fra i mali provocati dalla nostra parte del mondo (molti, si affretta subito ad ammettere) e la tradizione culturale e politica sana che invece l’ha percorsa, a volte per vie sotterranee. Salvare insomma il patrimonio tollerante, laico e rispettoso della libertà individuale dell’Occidente moderno, contro le sue devianze. La Cecla ci invita a evitare, soprattutto, le derive di una faciloneria diffusa: per cui è sufficiente auto-condannarsi e allo stesso tempo sfruttare i vantaggi della nostra parte di mondo. Perché “all’interno dello stesso Occidente c’è una storia e una geografia che parla d’altro. C’è la storia dell’opposizione a questa follia, la geografia di individui e di movimenti che si sono battuti per secoli contro la protervia dei potenti, contro la devastazione capitalista ed economicistica.”
Negarlo è una forma di ipocrisia arrogante e pericolosa. Arrogante perché si sottrae al dovere di una critica autentica e all’assunzione di una precisa responsabilità, alla peggio invocando l’arrivo di “nuovi barbari”; pericolosa perché rinuncia alle cure intellettuali che una tradizione ha sempre coltivato e propugnato. La Cecla pensa innanzitutto alla grande storia dell’anarchismo, e comunque a tutte quelle forme di pensiero e azione che hanno posto come prioritaria l’idea di libertà individuale — senza per questo cedere alla sua incarnazione neoliberista. Il catastrofismo non ci aiuta, e non aiuta chi desidera venire in questa parte di mondo: al più è assolutorio, e si traduce in un “anti-occidentalismo snob”, pieno di “esotismo rancoroso”. Non è vero che le cose buone della nostra parte di mondo sono il frutto solo di ciò che abbiamo fatto di male; né è vero che l’Occidente si riduce alla storia del suo blocco politico-militare. Certo: Moro, la Boétie, Kant, Kropotkin, Camillo Berneri o i fratelli Rosselli possono sembrare lontani anni luce dal presente; ma non è un buon motivo per liquidarli come eccezioni in una vicenda di catastrofi.
Il nichilismo compiaciuto da fine del mondo è un atteggiamento seducente, ma coincide con una resa totale: colpevolizzarsi al punto da fare di tutta l’erba un fascio e ritirarsi comodamente nel privato.
La proposta di La Cecla, in effetti, è animata da un buon senso minimale: “guardare all’Europa e all’Occidente come a un posto dove sono garantite alcune condizioni essenziali, tra cui la possibilità di essere trattati da individui con dei diritti e la possibilità dell’anonimità democratica.” Il nichilismo compiaciuto da fine del mondo è un atteggiamento seducente, ma coincide con una resa totale: colpevolizzarsi al punto da fare di tutta l’erba un fascio e ritirarsi comodamente nel privato.
(Leggendo queste pagine ho pensato alla conferenza tenuta da Edmund Husserl a Vienna nel 1935 con il titolo La filosofia nella crisi dell’umanità europea. Nel buio del fascismo e del nazismo, davanti a una resa evidente della ragione, il vecchio filosofo moravo rivendicava ancora una volta il compito ideale del continente — la ragione stessa quale ultimo argine alla barbarie, aperta al mondo intero: “uno spirito nuovo che deriva dalla filosofia e dalle scienze particolari che rientrano in essa, lo spirito della libera critica e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito, che permea tutta l’umanità e crea nuovi e infiniti ideali!”.)
Colpisce, a tal proposito, la severità con cui l’antropologo affronta la questione dei flussi migratori. Colpisce anche l’uso del termine “integrazione”, o il puntualizzare che “agli immigrati vanno poste condizioni molto chiare” per evitare che il laicismo del continente venga messo a rischio. Ma di fondo è questa l’idea di La Cecla: l’Occidente è una meta agognata non solo per la sua stabilità politica ed economica, ma anche per i valori di autonomia personale e libertà che altrove faticano a radicarsi (anche per colpa nostra, certo). Dire che tutto questo non è vero in faccia a chi fugge da una guerra o rischia di morire a causa del terrorismo religioso è quantomeno ipocrita. Anzi: “è probabile che sarà l’emigrazione a salvare l’Occidente, ma non in senso demografico, bensì proprio come rinnovamento del diritto a stare al mondo senza essere oppressi dalla religione, dall’appartenenza, dal comunitarismo, dai legami geografici e familiari”.
Tali posizioni potranno risultare urticanti per la loro franchezza. Ma sono anche un correttivo alle derive per cui basta dire “multiculturalismo” per evocare magicamente una coabitazione serena di abitudini e usi molti diversi fra loro. Riconoscere senza paternalismo le tensioni e le diversità non significa annientare un umanesimo di fondo, ridurre tutto a una questione di polizia o blaterare di “scontri di civiltà”: l’esatto opposto. Significa solo ammettere il bisogno di un lungo lavoro di continua correzione, di compromesso perfino; ed evitare che tale lavoro venga cannibalizzato dalla destra xenofoba.
I valori di universalismo laico e libertà non ci vengono passati per diritto di nascita.
Concludo segnalando un paio di criticità del testo. La prima: l’andamento troppo rapsodico, quasi da appunti scritti frettolosamente, e che spesso intralcia le tesi con flussi di citazioni o aneddoti, rendendole meno perspicue. E la seconda: una visione pericolosamente uniformante dell’Islam. (Penso a frasi come “oggi l’Islam è diventato nel suo complesso suicida proprio perché il suo progetto politico è attuabile solo attraverso l’eliminazione dell’altro, ma non solo dell’altro lontano, ma dall’altro islamico, che sia sciita, sunnita, sufi o semplicemente che sia il soggetto che ha nelle sue viscere l’Occidente”).
C’è forse anche un terzo punto: benché La Cecla riconosca che l’idea di autonomia e libertà non è unicamente occidentale, forse questo tema poteva essere sviluppato di più. A tal proposito credo sia interessante far reagire, quasi chimicamente, il suo Elogio con la Reith Lecture di Kwame Anthony Appiah appena pubblicata dal Guardian. Il titolo è altrettanto eloquente: There is no such thing as a western civilization.
Appiah — che fra l’altro è un critico dell’afrocentrismo, in cui vede una costruzione speculare dell’eurocentrismo — ricorda che l’aggettivo occidentale inteso come descrizione di una civiltà o di una cultura ha una storia assai recente. In effetti, emerge solo alla fine dell’Ottocento. E nel testo fondatore del concetto, Il tramonto dell’Occidente di Spengler, l’idea di un passaggio morbido fra cultura greco-romana e cultura euro-americana contemporanea è respinta. (Come specifica Appiah, quest’idea dimentica il flusso che dai classici ha nutrito il pensiero islamico: e dimentica che l’Europa premoderna non aveva quasi nulla di tollerante, razionale e progressista).
Ma dove lo studioso ghanese-americano e La Cecla si ritrovano, probabilmente, è nel ribadire che i valori di universalismo laico e libertà — da qualsiasi parte li si guardi, e dovunque fioriscano — non ci vengono passati per diritto di nascita. Anzi, vanno continuamente rinegoziati e difesi nella pratica quotidiana. La conclusione di Appiah, allora, suona perfetta anche come conclusione di questo articolo:
I valori che gli umanisti europei amano sposare appartengono altrettanto facilmente a un africano o un asiatico che li riprende con entusiasmo da un europeo. Secondo questa logica, naturalmente, non appartengono a un europeo che non si è preso la briga di capirli e assorbirli. E lo stesso, com’è ovvio, vale nell’altra direzione. […] non possiamo fare a meno di prenderci cura delle tradizioni “occidentali”, perché sono nostre: anzi, è vero il contrario. Sono nostre solo se ci prendiamo cura di loro. Una cultura della libertà, della tolleranza, e della ricerca razionale: questa sarebbe una buona idea. Ma tali valori rappresentano scelte da fare, non le tracce stabilite da un destino occidentale. L’impulso cosmopolita che attinge alla nostra comune umanità non è più un lusso; è diventato una necessità.
La nuova linea di resistenza agli orrori del presente — e dell’Occidente — può cominciare anche da qui.
(In copertina: Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buono e Cattivo Governo e loro Effetti in Città e Campagna, Siena, 1338-1339)