D urante i passati lockdown, quando la maggior parte degli italiani cercava di rendere meno ostica la propria cattività imparando a panificare, sbizzarrendosi ai fornelli o dandosi allo yoga e altre pratiche trascendentali, non molto diversamente (ma molto più dispendiosamente) mi sono trovato risucchiato in un tunnel di suoni prodotti sinteticamente. Avevo iniziato quasi per caso appena prima della pandemia comprando qualche macchina elementare e in breve tempo, tra una clausura e l’altra, mi sono visto accerchiato da un minaccioso apparato di moduli e cavi.
Loop, sequenziamenti, cumuli di oscillatori risonanti, riverberi, granulazioni e testure liquide, tappetoni organici in movimento aleatorio: immerso in questo profluvio di suoni, mi capitava spesso di perdere completamente il senso del tempo, il confine tra suonare e ascoltare si assottigliava, superato da una condizione mediana e amorfa in cui – credo che fosse questo il senso – la mia identità diurna andava slabbrandosi, confondendosi nel complicato rimuginio macchinico dei circuiti elettronici. Non so se si potesse definire trance, ma probabilmente poco ci mancava: a volte spegnere le macchine era come strapparsi a forza da un bagno limaccioso nel quale il soggetto, cioè il sottoscritto, veniva lentamente digerito e dove la dimensione estatica andava a braccetto con sentori piuttosto macabri e malati.
Ecco perché quando ho saputo della pubblicazione di Monolithic Undertows. In Search of Sonic Oblivion di Harry Sword per l’editore inglese White Rabbit uscito proprio in quei mesi (e adesso tradotto in italiano da Atlantide edizioni con il titolo di Alla ricerca dell’oblio sonoro), mi si sono drizzate le orecchie.
Il drone genera sospensione, inquietudine, rapimenti, e ci guida in territori psichici liminari, regressivi, capaci di strapparci alla percezione ordinaria della realtà
Il libro è presentato come un saggio sui droni e in un certo senso, ma molto estensivo, lo è. “Drone” è un termine che il traduttore Luca Fusari ha giustamente scelto di non tradurre essendo ormai correntemente utilizzato da musicisti e appassionati di musica anche qui da noi: denota un suono continuo, tenuto, un po’ come il bordone della musica classica, ma il campo semantico dell’anglicismo è molto più vasto e polimorfo, anche a prescindere dai robot volanti. Di fatto, nei discorsi tra addetti, il drone comprende una vastità di manifestazioni acustiche accomunate da una continuità che può essere prodotta in infinte maniere, attraverso bordoni ma anche attraverso saturazioni, stratificazioni, feedback e accumulazioni di suoni. Un flusso insomma, un fiume sonoro, e certamente avevano a che fare con il drone i lavacri elettronici a cui mi sono ripetutamente sottoposto durante le notti profonde dei lockdown.
Il libro di Sword cerca di rendere conto di questa poliformità, braccando il drone nelle sue mille metamorfosi; il problema è che, al di là dei primissimi capitoli, dove si intavolano una serie di questioni teoriche che possono effettivamente gettare luce su questo interessante fenomeno sonoro, la gran parte del (lungo) saggio è per lo più una storia della musica rock alternativa, sperimentale, occulta, avanguardistica, scritta con le modalità e lo stile tipico di certo giornalismo musicale (l’autore è stato una delle firme di The Quietus, il rinomato sito inglese, e il suo canone rispecchia abbastanza fedelmente i gusti di quella webzine). Insomma, come spesso succede nei libri scritti da giornalisti musicali, un vasto collage di recensioni, interviste, ricostruzione storico-musicali dei contesti spaziali e culturali con riferimenti ad artisti, scrittori, personaggi carismatici, sostanze psicotrope e così via (dal Chelsea Hotel alla Factory di Wharol, dalle case occupate a Freston Road nella Londra di fine anni settanta al tedesco Zodiak Free Arts Lab fondato da Schnitzler e Roedelius, ecc. ecc.). La scrittura è quella rutilante, straripante di metafore più o meno virtuosistiche (o stucchevoli, a seconda dei punti di vista) che ben conosce chi frequenta il giornalismo musicale e la questione del drone, secondo un meccanismo che forse non è così estraneo al drone stesso, sembra scivolare dall’argomento del libro alla sua forma: un flusso quasi continuo e vagamente pletorico di note critiche, anedottica underground e minuziose descrizioni musicali.
In tutto questo, però, il topic tende a perdersi, o comunque torna in maniera piuttosto forzosa e sporadica, secondo il principio per cui tutto quello che piace a Sword in un certo senso ha a che fare col drone. Raccontando la storia dei Throbbing Gristle, o dei Faust, o di Fluxus e del Theatre of Eternal Music o degli Stooges, appare qualche appunto sulla presenza di droni negli stessi, qualche aggettivo “dronico” qua e là, qualche generalizzazione (discutibile) come “Il drone è codificato nel DNA del (proto)punk da sempre”.
Si tratterebbe anche di un interessante esercizio critico, quello di osservare la storia della musica rock attraverso la lente del continuum sonoro, contrapposto al discontinuo, al sincopato, al ritmico. Ma non è esattamente quello che fa Sword, essendo la maggior parte del suo libro un calderone dove l’autore butta tutto quello che sa in maniera abbastanza indiscriminata. Certo, l’autore ne sa parecchio, è erudito e intelligente, il suo libro è un bel serbatoio di conoscenze, un ottimo spunto per nuovi ascolti, anche se il lettore ormai attempato di riviste come Blow Up, The Wire o lo stesso The Quietus, troverà molte cose note.
Quanto all’argomento principale, il meglio del volume è concentrato, come dicevo, nella prima parte dove si sfiorano una serie di questioni molto interessanti e si aprono squarci estemporanei su settori di ricerca suggestivi come l’etnomusicologia, l’archeoacustica o la psicoacustica, tutte prospettive che avrebbero potuto diventare oggetto di un saggio più strutturato ed effettivamente orientato a indagare la natura del drone. In questa parte iniziale troviamo riferimenti a musiche tradizionali e non occidentali (per lo più in funzione della loro ibridazione con la musica rock), agli usi rituali del drone nelle culture tradizionali e persino in quelle arcaiche e preistoriche (primigenii strumenti a fiato, riverberi in grotte paleolitiche) o al rapporto tra i suoni “dronanti” e le alterazioni della coscienza degli ascoltatori sia in ambiti di fruizione rituale, come quelli a cui ho accennato, sia in altri più moderni e anche nettamente extra musicali (ho trovato interessantissimi gli accenni all’uso che è stato fatto, nei contesti di guerra, di suoni continui e allarmanti come armi psicologiche). Sempre restando nel quadro della psicoacustica, e quindi del rapporto tra suono e stati di percezione, troviamo infine alcune pagine dedicate ai suoni prenatali, ovvero quelli che sentono i feti all’interno del ventre materno (droni, naturalmente).
La somma delle osservazioni rapsodiche di Sword ci conduce dove la magia e la spiritualità si avvicinano alla terribilità della “perdità della presenza”: il drone genera sospensione, inquietudine, rapimenti, e ci guida in territori psichici liminari, regressivi, capaci di strapparci alla percezione ordinaria della realtà:
La sensazione di radicata inquietudine generata dal “brusio” testimonia la capacità dei suoni tenuti e ipnotici di mettere a disagio o, in un certo senso, di aprire una finestra nel quotidiano. Pertanto è forse inevitabile che il drone continui a sembrarci legato a doppio filo ai rituali spirituali: come un emblema acustico che travalica le frontiere, da millenni.
Sarebbe stato interessante trovare anche qualche elemento più sociologico: i gusti musicali dell’autore, come già detto, lo conducono soprattutto verso il rock laddove negli ultimi anni si è diffusa a macchia d’olio la moda di dronare elettronicamente e migliaia di dischi propongono sfondi ipnotici come l’evoluzione, e se vogliamo la commercializzazione, del deep listening di Pauline Oliveiros o delle austere composizioni di Éliane Radigue. Pur dedicando qualche pagina a queste autrici, nonché alla nascita e all’evoluzione della musica ambient, su questo aspetto più attualizzante Sword non si sofferma, ma esistono siti molto frequentati come Headphones commute dove si recensiscono quasi solo dischi di questo genere. Ne escono a bizzeffe e qualcuno inizia a finire nelle classifiche di fine anno: vasti tappeti elettronici a cui spesso si aggiunge qualche nota di piano, o di altro strumento classico, che riporta una dimensione tonale, normalizzante, sullo sfondo informale e straniante del drone. C’è una spiritualità emotiva, o una emotività spirituale, estatica, incantata, melliflua, che percorre la musica contemporanea nelle sue manifestazioni più recenti al di fuori dei circuiti egemonici del rap, della canzone, della musica da ballo, e che probabilmente ha a che fare con i milioni di visualizzazioni che osserviamo nelle registrazioni su YouTube di suoni rilassanti: acque, cascate, notti nel bosco o suoni sintetici altrettanto riposanti ed evasivi.
Una volta, chiacchierando con Attila Faravelli, un amico musicista e field recorder, gli ho chiesto un parere su questa evoluzione. Ha dato una risposta storica: nella musica contemporanea si è progressivamente messo in discussione l’armonia, la melodia, il ritmo, cosa poteva restare se non i droni? Ci deve essere qualcosa di più, però, se tanta composizione elettronica & dintorni – spesso piuttosto spiccia e di facile ascolto – oggi si orienta verso quelle lande, e se io stesso ci sono finito dentro con tutte le scarpe e in un momento così significativo come quello della pandemia.
È un correlativo artistico della condivisione solitaria e disincarnata del web? È la stasi sociale, la chiusura emotiva, l’atomizzazione? La stanchezza di una cultura che cerca qualche sbocco spirituale dalla marea materialistico-algoritmica da cui siamo sommersi?
Se il lockdown ha comportato soprattutto un’accelerazione di processi in corso, l’isolazionismo sonoro legato a determinati contesti di produzione e fruizione della musica elettronica è qualcosa che ha radici profonde nella tonalità emotiva, e forse nella dimensione politica, che caratterizza la nostra epoca e società. Un filone importante di avanguardia elettronica e elettroacustica è andato di pari passo con la IDM e la “conceptronica” (per dirla con Simon Reynolds) già da una ventina d’anni portando migliaia di giovani e non più giovani a stravaccarsi in ambienti esteticamente densi e ovattati, a sonnecchiare seduti o sdraiati sopra cuscini ascoltando suoni lenti e profondi in un silenzio quasi rituale e irrimediabilmente introverso.
È un correlativo artistico della condivisione solitaria e disincarnata del web? È la stasi sociale, la chiusura emotiva, l’atomizzazione, la stanchezza di una cultura che cerca qualche sbocco spirituale dalla marea materialistico-algoritmica da cui siamo sommersi? La sperimentazione percettiva, o micro-percettiva, come ultima evoluzione delle utopie rivoluzionarie? O è l’escapismo tecnologico, portato su un piano di raffinata produzione artistica, a generare queste limbiche sonorità?
Mi sarebbe piaciuto che il libro di Sword si interrogasse anche su questo, che mi fornisse qualche elemento di risposta, che collocasse il drone nell’humus culturale in cui sta oggi proliferando. Se l’ha fatto è nell’impressionismo fugace di qualche intuizione sfuggita a una recensione di Terry Riley o dei Sunn O))), non nel contesto di una vera e propria indagine teorica. Pazienza, quella di Alla ricerca dell’oblio sonoro è comunque una lettura stimolante. Le risposte sull’origine di quell’oblio, del bisogno di oblio che attraversa le vite ansiose del terzo millennio, le troveremo altrove, forse nella prossima estasi solitaria davanti a un sistema modulare o, chissà, nella fragranza ancestrale di una pagnotta con lievito madre appena uscita dal nostro forno Ikea.