È notte fonda e in una magione abbandonata una donna non riesce a dormire. Eleonor ha gli occhi spalancati e lo sguardo fisso su una parete dalle decorazioni floreali, che con le sue intelaiature incrociate sembra disegnare le pieghe di un volto corrugato. In The Haunting di Robert Wise (1963) – film ispirato al classico horror L’incubo di Hill House di Shirley Jackson – Eleonor sente provenire dei rumori spaventosi dalla parete: ghigni femminili sinistri si accavallano a un canto angosciante e la tengono sveglia, convinta che, a stringerle la mano, sia la sua compagna di stanza. Il sibilo di quei suoni pare essersi smorzato, ma poco dopo riprende, acutissimo; i fantasmi non vogliono acquietarsi: Hill House appartiene a loro. Alla fine le urla disperate di Eleonor invadono la stanza e le luci si accendono. La sua compagna non è accanto a lei, ma i muscoli dell’avambraccio sono tesissimi, come se qualcuno gliel’avesse stretto tutto quel tempo.
Oltreoceano, in Inghilterra, un’altra donna non riesce a prendere sonno. Miss Giddens, un’allucinata e febbricitante Deborah Kerr, è la protagonista di The Innocents di Jack Clayton (1961) – tratto da Il giro di vite di Henry James. L’istitutrice vittoriana si aggira per i corridoi e le stanze di Bly Manor nella notte, guidata dalla sola luce di un candelabro. È convinta che gli spettri della ex governante e di un altro impiegato di Bly siano ritornati per impossessarsi dei piccoli Miles e Flora. In vita, le voci e le parole piene di lascivia di Miss Jessel e Peter Quint si erano insinuate nella mente dei bambini e in ogni interstizio domestico: anche qui, come a Hill House, la stravagante dimora pare essere stata costruita proprio perché i fantasmi potessero trovarvi quiete e ristoro. Preda di queste sue convinzioni (o allucinazioni, desideri repressi), Miss Giddens deve preservare la purezza dei bambini e scacciare la “presenza” torbida e demoniaca degli amanti perduti.
Così diversi nella messinscena, da un lato il virtuosismo eclettico di Wise e dall’altro la posatezza e il linguaggio più classico di Clayton, che pure restituisce la materialità del fantasma, The Haunting e The Innocents sono tra i più celebri antesignani del cinema horror e gotico: la descrizione “fisiognomica” della casa, che rende sia Hill House sia Bly Manor dei personaggi attivi nella storia, quasi gli attori principali del plot – i cigolii, le porte battenti, le pareti antropomorfe che lasciano trapelare suoni maligni – è un topos comune del genere. Oggi, questo topos viene riattualizzato, con esiti e modalità differenti, dall’esperienza di alcune cineaste come Rose Glass, Romola Garai e Natasha Kermani che hanno investito l’ambientazione domestica di un significativo portato simbolico.
Soprattutto, i film di Wise e Clayton fanno da apripista alla narrazione cinematografica dell’incontro del femminile con il perturbante. Per Edmund Wilson, che nel 1934 scrive The Ambiguity of Henry James, la storia di fantasmi dello scrittore inglese era un’incursione nel progressivo manifestarsi della follia di una ragazza fragile, insinuando il sospetto che le apparizioni dei fantasmi fossero soltanto la conseguenza di una sua percezione distorta delle cose. Miss Giddens, eccitata dall’incontro con il datore di lavoro e zio di Miles e Flora, tormentata da inconsci sensi di colpa, caricava di connotazioni torbide gesti parole e fatti, con la medesima ossessività della protagonista di The Haunting of Hill House di Shirley Jackson, che aveva creduto di poter trovare a Hill House e nella figura del dottor Markway la famiglia e la stabilità che non aveva mai avuto. La debolezza e la solitudine che caratterizzano l’archetipo rovesciato delle eroine di Shirley Jackson e Henry James, e l’idea di un male endemico da esorcizzare con ogni mezzo a disposizione, si ritrovano nel recente Saint Maud di Rose Glass, prodotto dalla A24 e presentato lo scorso anno al Toronto International Film Festival.
Rifacendosi al topos del cinema horror e gotico, alcune cineaste come Rose Glass, Romola Garai e Natasha Kermani hanno investito l’ambientazione domestica di un significativo portato simbolico.
La paura nasce da un confronto violento tra l’io e l’altro da cui il soggetto può uscire fortificato oppure privo del controllo su di sé e sul mondo. La crisi innescata può sfociare in una reazione di difesa oppure in uno shock che impedisce di interagire con la realtà circostante. In Saint Maud questa frattura è insanabile e riguarda il rapporto, pressoché inesistente o puramente epidermico, che la giovane infermiera protagonista del film ha con il resto del mondo. Maud ha una fortissima fede religiosa ed è convinta che Dio abbia in serbo per lei una missione salvifica: moderna Giovanna d’Arco, attende trepidante il giorno del giudizio e la redenzione. Trovandosi a contatto con il peccato, la giovane non contempla il perdono né il bisogno di comprendere il “male”. La sua fede ha a che fare con una mancanza, un vuoto che lo spettatore riesce a scorgere grazie all’uso intelligente e mai invasivo della voce fuori campo di Maud, che ci fa strada nel suo macabro percorso di autocoscienza. I caratteri morbosi e torbidi della fede fondamentalista di Maud si manifestano nelle punizioni corporali che la giovane si infligge e nel tentativo di incasellare tutto ciò che esce dall’ordinario. In lei scorre il sangue dell’istitutrice di Bly Manor, quando viene incaricata di prendersi cura della ballerina in pensione Amanda, devastata dal cancro. Ecco il segnale divino. Amanda è per lei la concretizzazione del peccato e Maud si convince di poterla salvare dalla dannazione.
Saint Maud è tutto giocato a livello psicologico. Le parentesi introspettive delle due donne si dispiegano con eloquenti campi, controcampi e occhiate voyeuristiche al di là di porte e delle finestre socchiuse, con pochi dialoghi. La macchina da presa pedina le due figure chiudendole nello spazio angusto delle case – prima quella microscopica anonima e clericale di Maud, poi quella traboccante di Amanda – con pochi altri personaggi che smussano la cupezza della vicenda, alla stregua di Carrie – Lo sguardo di Satana di Brian De Palma, dove ogni dettaglio nei corridoi domestici e nel modo in cui sono ripresi era calibrato per trasmettere e intensificare la paura. In Saint Maud, le apparizioni del divino, a cui la cineasta inglese sceglie di dare una connotazione marcatamente erotica, avvengono quasi sempre nelle case. Non ci sono fantasmi né immagini terrificanti visibili, se non per qualche millesimo di secondo, e l’incontro con Dio e il soprannaturale è l’incontro con una forza invisibile, capace di dominare e possedere Maud penetrando il suo corpo e la sua anima. Il film di Rose Glass prova a esorcizzare il timore per la perdita di controllo sul proprio corpo e sul proprio desiderio che muta (non sappiamo nulla dell’età di Maud, che ha una fisionomia ibrida, tra l’adolescenza e l’età adulta). La fede della giovane, in questo senso, è un tentativo di frenare la compulsione.
Saint Maud è una delle espressioni più riuscite di una nuova tendenza cinematografica che vede le cineaste misurarsi con la destrutturazione di regole e dinamiche di rappresentazione consolidate, soprattutto rispetto al contesto socio-culturale attuale. I movimenti per l’emancipazione delle donne hanno avuto un grande impatto sul panorama audiovisivo cinematografico e seriale, rimodellando paradigmi narrativi e visivi per dare una nuova rilevanza all’esperienza femminile sulla scena, lasciando così irrompere un insieme di significati e prospettive. Il risultato è la realizzazione di contenuti atipici e spesso difficilmente ascrivibili a una sola categoria, caratterizzati da un forte sperimentalismo linguistico e stilistico soprattutto nella ripresa di sottogeneri quali, ad esempio, il Rape & Revenge. È il caso di Amulet di Romola Garai e Promising Young Woman di Emerald Fennel.
Nel Rape & Revenge, solitamente il corpo della donna è rappresentato, in un primo momento, come statico e inattivo e abusato – “come se fosse uno schermo definitivo dove proiettare una visione negativa nei confronti delle relazioni tra generi sessuali”, secondo la definizione proposta da Mirko Lino in Schermi necrofili. Eros e thanatos nella sessualità maschile del cinema horror. Il corpo è dunque al centro di questo filone del cinema estremo che ha prodotto un dibattito critico, iniziato alla fine degli anni Settanta, con film come I Spit On Your Grave di Meir Zarchi e Ms. 45 di Abel Ferrara, che continua tuttora. Per molte studiose le problematiche interpretative emergono quando ci si sofferma sullo sguardo femminile e sulla figura della spettatrice: Linda Williams, per esempio, sosteneva che per una donna fosse impossibile sentirsi coinvolta da una rappresentazione in cui sue coetanee finiscono brutalizzate, assassinate o poste a mero ornamento della storia. Sulla scia del femminismo della Terza Ondata, negli anni Novanta, Judith Halberstam e Cristina Isabel Pinedo sdoganano il primato eterosessista attraverso due importantissimi saggi, Skin Shows: Gothic Horror and Technology of Monsters e Recreational Terror: Women and the Pleasure of Horror Film Viewing. Nel primo, Halberstam analizza l’eccezionalità della protagonista di Non aprite quella porta II (1982), l’unica a capire come districarsi dalla morsa del serial killer, comprendendo “attraverso l’interazione speculare con l’assassino come diventare lei stessa il mostro vincitore della sfida” (Valerio De Simone, Final girl. L’eroina dell’horror e dello slasher). Pinedo invece è la prima a teorizzare lo spostamento del punto di vista nel cinema horror americano, prendendo come esempio la seconda parte di Halloween di John Carpenter (1978), nella quale lo spettatore è calato interamente nella prospettiva della protagonista, che tenta con ogni mezzo possibile di salvarsi. Le studiose assumono quindi una prospettiva più inclusiva e meno dogmatica, scontrandosi con la visione semplicistica che interpretava questi generi cinematografici come espressione della violenza maschile sulle donne.
Contenuti atipici, caratterizzati da un forte sperimentalismo linguistico e stilistico soprattutto nella ripresa di sottogeneri quali il Rape & Revenge.
Con l’attuale processo di trasformazione di formule e canoni di messinscena e di veicolazione dello sguardo, la narrazione tipica dei Rape & Revenge viene messa in crisi e rivisitata. Nel 2014 con Prevenge, Alice Lowe, conosciuta nel Regno Unito come attrice di commedie televisive, cambia le carte in tavola. La sua prima gravidanza coincide con la sua prima volta dietro la macchina da presa. Interpreta Ruth, una donna incinta che ha perso il suo compagno in circostanze non chiare; Ruth sente continuamente la voce della sua bambina, non ancora nata, che la convince a uccidere tutte le persone che in qualche maniera sono legate all’incidente. Lowe sceglie di mettersi fisicamente, come attrice e regista, al centro del racconto per esorcizzare le paure della gravidanza, tutto ciò che non viene detto e di più oscuro, dal timore che si possa essere abbandonate, alla perdita della propria sensualità, costruendo un’efficace disamina politica sulla corporeità e sul desiderio femminile in una fase di transizione: un cinema exploitation artigianale e inedito, che imprime una forte cesura con le convenzioni e i canoni del passato.
Più di recente, invece, Amulet e Promising Young Woman confondono il motore dell’azione. In Amulet, Tomaz è un reduce di guerra accolto dalla generosa Sorella Claire: in cambio di vitto e alloggio gratuiti, farà dei piccoli lavoretti in una casa fatiscente in compagnia della padrona Magda e di sua madre morente. Non è chiaro se la madre di Magda sia posseduta da un’entità malvagia o incarni essa stessa il male; ma è evidente che gli sforzi di Tomaz per liberare Madga dalla sua maledizione sono un tentativo di porre rimedio alle trasgressioni del suo passato. Allo stesso modo, in Promising Young Woman, capiamo solo nel secondo atto che Cassandra Thomas, la protagonista, ogni notte si finge ubriaca per attirare l’attenzione degli uomini nei locali e poi umiliarli in ogni modo. La stessa umiliazione che spetta al personaggio di Tomaz nel corso del film di Garai, specialmente sul finire. Emerald Fennel e Romola Garai non vogliono semplicemente “mostrare” la vendetta, andando, invece, a raccontarla, dissotterrandone anche gli aspetti più morbosi: in questo senso, le due cineaste restituiscono il movente della narrazione, ciò che spinge le due donne protagoniste a vendicarsi, attraverso un’articolazione di tempi e spazi complessa e stratificata. Inoltre, i film spogliano l’azione di tutti i caratteri fondanti del genere di riferimento – non siamo dalle parti della vendetta di Jennifer degli anni ‘70 di I Spit On Your Grave né di quella impersonata da Matilda Lutz nel più recente Revenge, di Coralie Fargeat. Nel caso di Amulet, ad esempio, per acuire il senso di repulsione finale, Romola Garai ricorre al montaggio incrociato, a un susseguirsi di istantanee relative al presente e passato di Tomaz. Il demone che vive in soffitta è la personificazione del senso di colpa di Tomaz, che si fa a poco a poco carne viva e pulsante in un rape & revenge cerebrale, che guarda visivamente al David Cronenberg di Shivers e Spider, virando verso il body-horror nella raffigurazione della presenza demoniaca. Non ci sono pedinamenti né brutali uccisioni e la vendetta segue un percorso simbolico e immaginifico, che diventa ancora più risonante quando viene attuata silenziosamente. O post-mortem.
A proposito di questi film si potrebbe parlare di “neo-horror”, prendendo in prestito l’espressione di Jamie Alazraki per parlare di un “neo-fantastico” novecentesco, dove il suffisso indica che l’angoscia e il malessere provocati negli spettatori non sono gli stessi del secolo precedente, così come le tecniche con cui vengono conseguiti. Con le donne alla regia, l’horror come codice conteso tra il cinema e la rappresentazione dei traumi della realtà contemporanea è diventato un terreno di riflessione sismico. In questa nuova ondata cinematografica non è più individuabile il repertorio di fenomeni convenzionali dell’horror né una localizzazione precisa della paura, perché l’inquietudine pervade ogni aspetto della vita. Le ragioni della paura restano indecifrabili e il senso di smarrimento si fa ancora più spaventoso: è il caso di Lucky di Natasha Kermani. Lasciata dal marito dopo una lite e in seguito a richieste d’aiuto non accolte dalla polizia, che fa leva sulla sua (presunta) malattia mentale, May ogni notte rischia la vita nella sua abitazione. Un uomo mascherato continua a farle visita con l’obiettivo di ucciderla, anche dopo essere stato brutalmente pugnalato dalla donna. Che cosa vogliono dirci Kermani e la protagonista Brea Grant, co-sceneggiatrice del film, con questa presenza sfibrante che notte dopo notte si appropria delle energie vitali di May? L’uomo in carne e ossa è soltanto un pretesto, perché il potenziale distruttivo di questa figura si riflette in quasi tutti i personaggi maschili del film: il marito, che fa leva sul senso di colpa della donna per averlo tradito; l’editor che a un certo punto dice quanto sia stata “fortunata” May a pubblicare un libro; il detective, che crede le denunce di May siano totalmente infondate per mancanza di prove concrete.
Con le donne alla regia, l’horror come codice conteso tra il cinema e la rappresentazione dei traumi della realtà contemporanea è diventato un terreno di riflessione sismico.
Se nelle dimore di ascendenza gotica il male trapelava dalla conformazione stessa della casa – o dai bianchi e neri chiaroscurali e fangosi della fotografia di Freddie Francis in The Innocents, che ne rendeva ancora più spettrali i contorni – in Lucky, Kermani recupera l’idea canonica della casa come luogo “infestato” conferendole un significato diverso. La casa di May è fatta di enormi vetrate e sembra perfettamente accessibile. È un involucro trasparente che lo sguardo altrui può attraversare interamente, esponendo a una visibilità totale i movimenti e le azioni della protagonista, attraverso cui Natasha Kermani e Brea Grant vogliono ricostruire il carattere pervasivo della minaccia.
Se nella maggior parte dei primi film slasher l’assassino sembrava il detentore dello sguardo, il “gaze” che secondo la teorica Vera Dika subordinava e indeboliva chi veniva guardato, sia a livello sia narrativo sia cinematografico, in Lucky, invece, non acquisiamo mai la soggettiva dello stalker. Nel film di Natasha Kermani la protagonista è consapevole della presenza del killer fin da subito e riesce prontamente ad affrontarlo. La cineasta non indugia mai sulla pericolosità dell’omicida: questa è filtrata sempre dal punto di vista di May, e assume a tratti una vena comica, attraverso la ripetitività delle azioni e dei gesti del killer. Infatti, nelle intenzioni della regista, il personaggio di May non è tanto una final girl – cioè la protagonista di una narrazione che prevede il lieto fine o la rivincita della donna – quanto una “final woman del ventunesimo secolo”. Brea Grant interpreta una scrittrice che attraverso i suoi libri di auto-aiuto avalla il sistema tossico e patriarcale in cui le donne si trovano a vivere, ricordando che “devono sempre farcela da sole”. Un mantra introiettato a tal punto dalla protagonista da impedirle di unirsi alle altre donne, una volta che si rende conto di non essere la sola a doversi scontrare con la minaccia dell’omicida.
Negli ultimi anni, il proliferare di film horror diretti da donne ha registrato una novità nei metodi di esplorazione di ansie e paure della condizione femminile – che sia la crescita, la rielaborazione di una violenza, o la maternità – provando a volte a esorcizzarle, e portandole più spesso alle loro estreme conseguenze.