L o sciamano Davi Kopenawa combatte da tempo per la salvezza delle terre Yanomami in Brasile. Nel 1983, all’età di ventisette anni, fu iniziato da suo suocero, un grande sciamano, mentre lavorava come interprete alla FUNAI (Fondazione Nazionale dell’Indio). L’iniziazione avvenne nell’assoluto silenzio nella casa vuota del suocero a Watoriki, dopo che Kopenawa gli ebbe raccontato di aver avuto fin da bambino diversi sonni agitati in cui sognava che gli spiriti gli facevano visita e lo trasformavano in spirito a sua volta. È tipico per i futuri sciamani vivere le prime chiamate in sogno durante l’infanzia, o attraverso visioni spontanee ed eventi dal carattere immaginale e allucinatorio che si sostituiscono alle percezioni sensoriali, o meglio, rivelano un altro modo di percepire la realtà, non centrato sulla nostra persona.
L’anziano riconobbe che Kopenawa era stato scelto dagli spiriti e si offrì di farne uno sciamano. Il giorno prima del rituale, il suocero tagliò e mise sul fuoco alcune strisce di corteccia dell’albero yãkoana hi, ne raccolse la resina rossa per cuocerla in una terracotta e la mattina dopo la polverizzò con cura. Poi chiamò Kopenawa, lo fece accovacciare di fronte a lui e con un lungo tubo di legno soffiò a più riprese la polvere nelle sue narici. Kopenawa si dimenò, e allora vide Yãkoanari, lo spirito signore dell’albero, che lo gettava al suolo e a poco a poco lo divorava.
Nei giorni successivi continuò ad assumere la polvere, non poteva mangiare selvaggina né masticare tabacco, ma solo pochi cibi dolci come il miele, né bere l’acqua del fiume, poteva bagnarsi solo con acqua tiepida e doveva evitare ogni rapporto sessuale. Indebolirsi fisicamente, soffrire e dimagrire, perché all’inizio, dice Kopenawa, quando si prende la polvere non si vede nulla. Solo dopo alcuni giorni, soprattutto la notte, gli spiriti appaiono, e allora fame e sete scompaiono, si vede una forte luminosità accecante, lo sciamano può vedere gli spiriti danzare e cantare con loro.
Da allora Kopenawa si è impegnato con il FUNAI in una campagna a difesa dei diritti degli indigeni e alla salvaguardia della foresta. Assieme all’antropologo Bruce Albert ha redatto l’autobiografia La caduta del cielo, edito in Italia da nottetempo: “Vogliamo raccontare i nostri sogni sciamanici con la speranza che i non-indigeni possano imparare e pensare alla nostra storia”.
L’Occidente abita un mondo disincantato. Kopenawa offre una prospettiva esterna che affronta le stesse questioni maturate nei suoi rapporti con i bianchi.
Almeno ventimila minatori illegali e agricoltori bruciano ettari di foresta appoggiati dal governo brasiliano del presidente di estrema destra Bolsonaro. Bruciare la foresta con la tecnica slash-and-burn permette agli agricoltori di far seccare velocemente un terreno e fertilizzarlo con la cenere delle piante per piantare coltivazioni e pascoli. I minatori invece usano i roghi per allontanare gli indigeni e spianare il suolo verso i ricchi giacimenti di carbone, petrolio, rame, ferro, manganese e oro. Si contano 39.194 incendi che continuano a rilasciare fumi velenosi visibili dallo spazio, con ripercussioni per l’ecosistema globale.
La nostra società non ha un mito per convivere con la natura. Questa è tesaurizzata dal capitalismo delle merci, dalla cronofagia, da strutture economiche progressiste che non permettono né la coesistenza ecologica con la natura, né la possibilità di vivere esperienze estatiche senza rifarsi ad una scena culturale. L’Occidente abita un mondo disincantato. Kopenawa offre una prospettiva esterna che affronta le stesse questioni maturate nei suoi rapporti con i Bianchi, che per lui si comportano come se tutto fosse dissacrato. “I Bianchi non temono, come noi, di essere schiacciati dalla caduta del cielo. Ma un giorno avranno paura, forse quanto noi!” Il proliferare negli ultimi anni di articoli e pubblicazioni dal taglio apocalittico sulla nostra eventuale sopravvivenza come specie conferma le parole dello sciamano.
Lo sciamano è un uomo universale che parla per tutti. Kopenawa allora racconta della danza degli spiriti xapiri, esseri-immagine donati dal demiurgo Omama ai tempi della creazione affinché gli uomini potessero curarsi dagli spiriti maligni. Tutto il mondo respira su diversi piani di realtà: gli spiriti della foresta, delle acque e degli animali parlano a coloro che sanno ascoltarli. È stato Omama a generare il primo sciamano, “Con questi spiriti proteggerai gli esseri umani e i loro figli, non importa quanto siano numerosi”, racconta Kopenawa nella biografia. Tuttavia le azioni dei Bianchi emanano i “fumi di epidemia”, espressione yanomami e immagine mitica per indicare da un lato le malattie portate dai missionari e dai cercatori d’oro che hanno decimato le tribù indigene (tra il 1987 e il 1990 il 13% degli yanomami è morta per violenze e malattie), dall’altro i prodotti di scarico e le contaminazioni causate dalle attività minerarie e industriali della lavorazione di metalli ad opera dei cercatori d’oro. Questi abbattono gli alberi che Omama ha piantato per mantenere il cielo, minacciando di farlo crollare sulla terra e di tornare al caos primigenio. “Ecco perché vorrei che i Bianchi ascoltassero le nostre parole e sognassero anche loro tutto questo, poiché, se i canti degli sciamani smetteranno di risuonare nella foresta, neanche loro, oltre a noi, saranno risparmiati”, dice lo sciamano. Difatti gli spiriti sono sempre presenti, ma il rumore della nostra coscienza, per citare Jung, non ci permette di vederli normalmente.
Il libro di Kopenawa è stato accolto, tra gli altri, dall’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, che si occupa di integrare nella nostra visione la mitologia sciamanica dell’Amazzonia, da cui trae la sua originale proposta del prospettivismo amerindio nel suo libro Esiste un mondo a venire? Per de Castro, la mitologia creazionista occidentale è basata sull’archetipo della creazione-produzione, cioè sull’“imposizione di un progetto mentale su una materia informe”. Invece di accordarsi ai processi naturali, l’homo faber crea un sistema dove l’uomo è l’unico soggetto assoluto capace di produrre e manipolare risorse. Di conseguenza ogni rapporto con il mondo è basato sullo sfruttamento indiscriminato di una natura inanimata. Nella visione indigena invece ogni cosa possiede un’immagine dalle sembianze umane e si percepisce come tale, e solo nell’incontro con altre specie queste appaiono diverse l’una dall’altra. L’umanità è una condizione universale: anche se noi umani non vediamo altri esseri come umani-per-noi, essi sono umani-per-loro, non nel senso che proiettiamo su di loro la nostra immagine, ma perché ogni vivente ed elemento naturale esprime se stesso in diversi modi con pari dignità di ogni altro.
Ogni oggetto o aspetto dell’universo è un’entità ibrida, allo stesso tempo umana-per-sé e non-umana-per-altri, oppure, per così dire, attraverso-altri.
Gli indigeni si muovono nella trasformazione-scambio, dove ogni cosa costituisce un soggetto e può divenire altro. Ci ricordano che viviamo tutti un’esistenza sempre aperta e proiettata verso l’ambiente esterno – d’altronde la catastrofe ecologica già in atto l’ha ricordato anche a noi. Perciò l’esistenza richiama per gli amerindi una serietà appropriata alla relazione con il mondo e le sue specie attraverso atteggiamenti e discipline rituali. Interagendo con gli spiriti, l’uomo si responsabilizza ad ogni azione che commette, perché questa si ripercuote su altre identità ben al di là del suo orizzonte spazio-temporale.
Lo sciamano è colui che media tra gli spiriti e la sua gente, aiutando a guidare sul piano fisico e spirituale i “rapporti” che intercorrono tra la sua comunità, gli animali, le piante e le forze naturali del mondo, preoccupandosi dell’armonia tra i processi di trasformazione e la capacità di vivere su più livelli di consapevolezza e flussi temporali della sua comunità. Così Kopenawa ne La caduta del cielo racconta come Omama istruì il primo sciamano: “Allontana il tempo coperto e l’oscurità. Trattieni il cielo affinché non crolli”. La battaglia per il pianeta, in questa visione, non si combatte solo sul piano fisico, ma anche nella psiche collettiva. Le parole di Kopenawa “vengono dagli spiriti che sono al mio fianco e non sono un’imitazione di pelli d’immagine che posso aver visto. Sono nel profondo di me stesso”.
L’impegno dello sciamano ha origine dall’esperienza del sogno, allo stesso modo della dimensione poetica dell’altrove già nota in occidente attraverso l’opera di poeti e mistici visionari come Dante, Jacob Böhme, William B. Yeats e William Blake. Nell’esperienza di Kopenawa spiriti benigni e maligni convivono in una delicata armonia che riconosce la specificità di ogni processo naturale. “Non far cadere il cielo” è una metafora della distruzione di un ecosistema, ma vuol dire anche attingere a un prepensiero che dimora nella natura. Non basta ripiantare gli alberi: secondo Kopenawa bisogna tornare a “sognare la foresta”: i Bianchi prigionieri della loro identità “non sognano lontano come noi. Dormono molto, ma sognano solo se stessi”. I “civilizzati” hanno abbandonato l’estasi e l’immaginazione profetica per arenarsi in desideri merciferi e filosofie nozionistiche, “contemplano a lungo pelli di carta su cui hanno disegnato le loro parole. Se non ne seguono il tracciato, il loro pensiero si smarrisce”. Kopenawa vede l’uomo moderno cieco alle danze degli spiriti. È possibile riabitare il mondo, ma è necessario uscire da sé e alimentare nuovamente la facoltà visionaria della psiche.
Lo sciamano è colui che media tra gli spiriti e la sua gente, aiutando a guidare sul piano fisico e spirituale i “rapporti” che intercorrono tra la sua comunità, gli animali, le piante e le forze naturali del mondo.
Le immagini dell’anima universale si incontrano in quella dimensione vitale, interiore ed esteriore al contempo, che l’islamista Henry Corbin ha chiamato il mundus imaginalis. Nelle parole di Corbin si tratta del luogo “di accadimenti perfettamente reali, ma di una realtà non percettibile attraverso i sensi né nel mondo dei sensi”. È la dimora del divino, tra visione e sogno, specchio trasfigurato del mondo fisico che gli sciamani imparano a navigare con costante disciplina, praticando estasi rituali e/o assumendo sostanze sacre per uscire dai confini flebili dell’io.
Si tratta di “un’iniziazione alla visione” che apre e riforma la psiche dell’individuo a percepire più dimensioni spazio-temporali. L’immaginale è la zona franca dove gli spiriti e gli dèi si manifestano, desiderosi di essere ascoltati e danzare con noi, scambiarsi le anime al di fuori delle loro forme e compiere viaggi sciamanici verso nuove mitologie. L’intuizione archetipica, nelle parole di Corbin, genera “nell’osservatore una simpatia che ne apra al suo sguardo la dimensione ierofanica”.
La psiche è naturalmente dotata di una capacità immaginativa fonte di una conoscenza ormai atrofizzata dalla modernità. Il filosofo Stefano Riccesi nel suo Veggenza si rifà alla visione divinatoria che da sempre contraddistingue l’opera dei poeti veggenti, degli sciamani, dei maghi e dei saggi, iniziatori di miti il cui compito è mediare nell’immaginale nuove cosmogonie di senso per la loro comunità. La veggenza è immaginazione attiva, permette di trascendere animisticamente lo spazio e il tempo che ci circonda per trarre dallo spirito del profondo i semi di ciò che vuole venire alla luce.
Riconoscere la natura simbolica dei processi della mente significa sapere che gli alberi, i temporali, le stanze, gli oggetti hanno anime, hanno o meglio sono spiriti, con qualità ed esigenze proprie.
Tutto allora si rivela respiro dell’Eros universale, dell’Anima del mondo. Se le ombre dell’Antropocene ci fanno visita ora in figure spettrali o visioni catastrofiche in cui sembrano non esserci mediazioni tra umano e non umano, è perché abbiamo ignorato troppo a lungo la natura, così come Riccesi nota che l’apertura del cuore veggente inizialmente “espone a visitazioni spaventose, dolorose, perturbanti”, che molti purtroppo preferiscono negare.
I maestri sciamani come Kopenawa possono guidarci nella ricerca delle visioni, ma non dobbiamo credere che siano solo figure esotiche di altre culture. L’antropologo Michael Harner nel suo libro cult La via dello sciamano ha raccontato la sua iniziazione sciamanica presso gli Shuar, nel sud-ovest della foresta amazzonica. Ha poi applicato l’esperienza nelle sue lezioni universitarie con risultati promettenti. Attraverso esercizi graduali di immaginazione attiva, come visualizzare un buco nel terreno e discendervi, l’individuo può aprirsi progressivamente a stati alterati di coscienza, lasciarsi trasportare dall’immaginazione divinatrice incamminandosi lungo un tunnel verso il mondo inferiore o superno.
Qui è possibile che spiriti guida e lande inesplorate si rivelino, incuriositi dalle nostre attenzioni. Per Harner non sono indispensabili sostanze allucinogene o esperienze estreme per indurre la trance, una meditazione sincera e la pratica costante prepareranno la coscienza alla comunione spirituale e apriranno poco a poco l’individuo a percepire diversamente la realtà. È richiesta la massima serietà e dedizione. Alcuni, è il caso di poeti o artisti nati particolarmente creativi e profondi, potrebbero scoprire di saper sciamanizzare da sempre, altri troveranno il cammino verso la partecipazione alla realtà spirituale che hanno sempre cercato, altri ancora scopriranno capacità della psiche che non avrebbero mai creduto di poter vivere. Come già abbiamo capito davanti alla prova che stiamo affrontando tra le fiamme dei roghi e le ceneri del pianeta intossicato, non saremo mai più come prima.