C hi era Nico dopo i Velvet Underground? L’ha raccontata nel suo ultimo film, vincitore del Premio Orizzonti a Venezia 74, Susanna Nicchiarelli, già regista di Cosmonauta e La scoperta dell’alba. In Nico, 1998, conosciamo l’angelo austero e ombroso che cantava e batteva il tamburello accanto a Lou Reed negli ultimi anni della sua vita, quelli che John Cale ha definito “un sogno solitario”. Non ci sono più feste di domani alle quali prepararsi o maschere da indossare: qui Christa Paffgen è una donna di mezza età e una madre che non riesce ad esserlo, una pop star in declino che odia il suo pseudonimo e che in tour mangia un piatto di spaghetti bevendo limoncello e Coca-Cola.
Ti sei laureata in Filosofia, sei stata alla Normale di Pisa, poi al Centro Sperimentale di Cinematografia. Come è avvenuto questo passaggio? Quando è nato il tuo amore per il cinema?
L’amore per il cinema ce l’ho avuto sempre. In realtà, ho deciso tardi di prendere questa strada, tardi poi relativamente – ho cominciato a fare cortometraggi a 24 anni – perché amavo molto lo studio, amavo molto la filosofia e pensavo di fare ricerca all’università, e poi perché non vengo da una famiglia di persone che fa cinema. Sembrava un sogno un po’ impossibile, devo dire la verità. Mia madre è professoressa, mio padre è ingegnere, non ho parenti che fanno questi mestieri qui, sembrava una cosa molto velleitaria. Io comunque mi sono voluta laureare, e nel momento in cui ho avuto il dottorato di ricerca e quindi un’indipendenza economica, ho cominciato a muovermi in questa direzione, perché era un desiderio che avevo. E un’estate, durante il dottorato, ho fatto uno stage in America. Sono andata a lavorare in una società di produzione dove facevo le fotocopie, leggevo le sceneggiature, ho seguito dei corsi estivi di regia alla UCLA, e ho capito come provarci. A quel punto ho girato un paio di cortometraggi e con uno di questi sono stata presa al Cento Sperimentale di Cinematografia e ho cominciato il mio percorso.
Com’è stato coltivare una passione per un lavoro creativo in una famiglia che fa tutt’altro?
Giustamente i genitori lì per lì si preoccupano. Purtroppo è un mestiere nel quale rischi di non riuscire. Rischi di passare un po’ di anni a provarci e poi di dover rinunciare e prendere un’altra strada. Io avendo fatto il Centro Sperimentale mi consolavo anche del fatto che stavo imparando un mestiere, non soltanto che stavo cercando un mio percorso di espressione creativa. Il cinema è un mondo estremamente affascinante. Ho sempre pensato che avrei potuto fare anche qualcos’altro o che magari sarei potuta tornare all’università se non andava, perché comunque avevo il dottorato. Però poi ho trovato la mia strada. Alla fine le cose che facevo erano molto particolari e molto personali, attraverso il diploma e i primi documentari che ho fatto sono riuscita a trovare la strada per fare il primo film, Cosmonauta, che ho fatto a 33 anni.
Su Sacher Film ho visto uno dei tuoi primissimi lavori, Cra Cri Do Bo, un diario Sacher che racconta un altro diario, quello comune, sotto il fascismo di Leda, Lydia, Wanda e Vittoria.
Cra Cri Do Bo è stata la prima cosa che ho fatto. Mentre frequentavo il Centro Sperimentale, ero andata una sera a un dibattito al Nuovo Sacher, il cinema di Nanni Moretti, e avevo lasciato alla sua segretaria storica, Anna Maria, due videocassette con i miei cortometraggi e il mio curriculum. Lui qualche mese dopo mi ha chiamato perché aveva visto i miei film, mi ha voluto incontrare e mi ha affidato la regia di uno della serie documentari che stava facendo in quel momento, i diari della Sacher. Io ero la più giovane dei registi della serie, avevo 25 anni ed ero anche molto spaventata. È tanto che non lo vedo, ma era venuto bene quel film, siamo andati anche a Venezia. È stato un bell’inizio, in contemporanea al Centro Sperimentale. Poi io ho continuato a lavorare con Nanni, gli ho fatto da assistente per un po’ di tempo. Facevo un doppio lavoro. Quando stavo al Centro Sperimentale poi la sera andavo in ufficio da Nanni e lo aiutavo a selezionare i corti per il Sacher Festival. Il percorso di formazione con lui è stato importantissimo, e abbiamo continuato a lavorare insieme anche quando sono uscita dal Centro Sperimentale. Ho lavorato al Caimano, ho fatto tutte le riprese di backstage del Caimano, ho fatto tutti gli speciali dei suoi film quando sono usciti in dvd, tutti i documentari, sono andata a recuperare gli attori, a intervistarli. Lui per me è stata una risorsa finché non ho cominciato a fare film.
Nei tuoi film le protagoniste sono le donne. A partire da Cra Cri Do Bo, passando per Cosmonauta, la storia della piccola comunista Luciana, e per La scoperta dell’alba, che gira intorno alla vita di tre donne, fino ad arrivare a Nico, 1998, storia vera e romanzata di Christa Päffgen.
È una scelta, anche istintiva. La tendenza è quella di raccontare quello che uno conosce. Io conosco molto di più la mente e i ragionamenti di una ragazzina adolescente che di un ragazzino adolescente, che per me continua a essere misterioso. Poi secondo me mancano personaggi femminili, nel cinema ci sono ancora poche protagoniste femminili, è anche un terreno più inesplorato. Credo molto in un certo tipo di ironia femminile, un certo modo di scherzare, un certo senso dell’umorismo che manca ancora, che secondo me si deve ancora fare un po’ strada nel cinema. L’immaginario dominante è un immaginario maschile, non c’è niente da fare. Da tutti i punti di vista, anche nel modo proprio di guardare il corpo delle donne. È chiaro che, se tu ti metti a fare questo mestiere e sei una donna, almeno nel mio caso, uno degli obiettivi che ti prefiggi è quello di ribaltare questo immaginario oltre a quello di raccontare quello che hai dentro.
La cosa paradossale è che nel documentario del 1995 di Susanne Ofteringer, Nico, Icon (tutto su YouTube), Nico dichiara in un’intervista che se ha un rimpianto è quello di non essere nata uomo
Quella era una frase che con Trine [Trine Dyrholm che in Nico, 1988 interpreta Nico] abbiamo cercato di incastrare da qualche parte nel film, però poi alla fine non abbiamo trovato il posto. È una cosa molto particolare di Nico. Trine dice sempre che lei quella frase se l’è tenuta a mente continuamente quando interpretava Nico. Diceva che quando l’ha sentita ha capito che Nico era una donna che si sentiva a disagio nel proprio corpo, che in qualche modo non aveva trovato il suo posto nel mondo. E per un attore, che lavora sui movimenti e sul corpo, questo è stato un fattore fondamentale per costruire il personaggio.
La tua fascinazione per Nico come nasce?
Io Nico l’ho conosciuta come tutti ascoltando il disco dei Velvet Underground con la banana e poi l’ho vista nella Dolce vita. Nei primi anni ’90 era uscito un film di Oliver Stone sui Doors [The Doors, 1991], che allora mi piacque molto, adesso non mi piace più tanto, e mi ricordo che c’era una scena dove Nico compariva perché aveva un rapporto sessuale in un ascensore con Jim Morrison, e compariva in un modo abbastanza offensivo. Insomma, pezzi di questa donna li avevo trovati in giro, le sue storie sentimentali, poi a un certo punto ho voluto cercare la musica che ha fatto dopo e ho scoperto un’altra Nico, con una carriera più interessante e un progetto artistico molto chiaro, molto preciso. Le musiche che ha fatto per i film di Philippe Garrel negli anni ’70 sono musiche bellissime, sperimentali, che hanno influenzato molto la musica successiva. La cosa che mi ha affascinato era lo scarto che c’era tra quello che si diceva di lei e quello che lei era effettivamente stata. Quello che si diceva era che una volta scomparsa l’icona era scomparso anche quello che c’era dietro, mentre quello che effettivamente era successo era che una volta scomparsa l’icona era venuta fuori la persona.
Mi ha colpita subito la tua scelta di raccontare la Nico dopo Nico, prima bionda poi mora, stella della Factory e dopo ‘sacerdotessa delle tenebre’. Qualcuno ha detto che Nico, 1988 è la storia di una sconfitta, ma è anche una storia di libertà.
Alcuni ci vedono una storia disperata, però comunque gli piace. Io non pensavo di fare una storia disperata, e infatti sono più spesso le donne che se ne accorgono. Secondo me è la storia della conquista di una libertà. Ma non ho raccontato una favola: lei alla fine muore, come madre fallisce, non pretendo di venderla come una commedia, è comunque un film profondamente tragico e capisco che la gente ci veda anche questo. Però secondo me ci sono tutte e due le cose. Sicuramente il tono è quello che poi era quello di Nico, che è una delle cose che mi affascinano di più di tutto il personaggio. Una certa forma di distacco, di ironia, che lei aveva sempre nei confronti di tutto. Molto poco sentimentale, molto poco enfatica, in questo molto tedesca. Il film mantiene questo tipo di riserbo, di distanza che secondo me è la sua caratteristica principale.
I momenti in cui la distanza si accorcia nel tuo film sono quelli che hanno come protagonisti Nico e Ari, suo figlio. Nico, 1988 è anche la storia di un madre. Assente e anche quando presente, inafferrabile. In Blue Nights, Joan Didion, che fu definita “gemella spirituale” di Andy Warhol, scrive che dopo la nascita della figlia cominciò ad avere paura. La nascita di un figlio diventa la scoperta della vulnerabilità?
Per Nico non lo so. Lei ha avuto molto presto Ari [nasce nel 1962, Nico ha 24 anni] e non ha cambiato una virgola della sua vita. Io non credo che la maternità l’abbia cambiata. E io credo che il problema sia stato proprio quello, il fatto che lei abbia cercato, nonostante la maternità, di fare comunque la sua vita. Si è portata dietro questo bambino parcheggiandolo, trascinandolo, mettendolo in contesti che non erano i suoi finché a un certo punto non gliel’hanno tolto, perché lei stessa non era in grado di gestirlo. Va detto che era sola. Lei aveva sperato in Alain Delon [padre di Ari] fino all’ultimo. E lui non solo non l’ha sposata ma non ha nemmeno riconosciuto il bambino, che è una cosa ancora fortissima negli anni ’60. Da un certo punto di vista la famiglia di Alain Delon l’ha salvata, perché l’hanno aiutata. Da un altro punto di vista no. Lei all’inizio l’aveva lasciato con sua mamma ma sua mamma stava male, una storia veramente molto triste.
Il tuo film non è completamente biografico ma nemmeno del tutto inventato. Come hai lavorato sulla sottile linea tra fiction e non fiction?
La maggior parte degli episodi sono veri, sono veri i dialoghi, le situazioni, tutte cose legate a delle testimonianze. Al tempo stesso c’è tantissima fantasia, perché io e Trine volevamo liberarci dall’imitazione. L’imitazione, la ripetizione della realtà diventa una gabbia dopo un po’ e il film in questo modo non prende mai il volo. Questo è il motivo per cui abbiamo ricantato le canzoni, Trine ha trovato una sua Nico, anche dal punto di vista dei costumi. Noi avevamo le foto di come si vestiva Nico ma poi su Trine abbiamo fatto la nostra Nico. Io ero molto contenta che Trine non somigliasse alla vera Nico perché questo ci dava anche una maggiore libertà rispetto al discorso dell’imitazione della realtà. Poi ci sono una serie di elementi che sono inventati. Per i personaggi della band, escluso il manager, ho unito delle storie diverse che avevo sentito, ho fatto un personaggio di due o due personaggi di uno, ho fatto un po’ dei collage. Alcuni episodi non sono andati esattamente così, come l’episodio del concerto di Nettuno, dove lei se ne va via e va in spiaggia, non è avvenuto lì e non è avvenuto così. Però, per esempio, lei che canta in albergo per pagarsi le stanze è una storia che mi hanno raccontato, che è successa in Piemonte e non nel Lazio. Sono cambiamenti che fai per esigenze sia visive, mi piaceva che ci fosse il mare in questo posto, sia esigenze legate alla logistica. Questo è stato un film complicatissimo, ogni giorno eravamo in una location diversa. Abbiamo viaggiato per l’Europa, siamo stati in tre paesi, abbiamo girato in Belgio, a Roma, nel Lazio, a Norimberga. È stato un film molto faticoso e molte cose le dovevamo anche accorpare.
Alcune delle mie scene preferite del film sono quando Nico, ovunque lei sia, tira fuori un registratore, portatile per l’epoca, per noi oggi enorme, e si mette a registrare i suoni più disparati. Come hai scoperto questa sua abitudine?
Ari mi ha raccontato che lei provò in ospedale a registrare il rumore delle macchine che lo tenevano in vita, e le fu impedito, le fu detto che non lo poteva fare. È una cosa molto interessante, perché racconta anche il personaggio di Nico. Di fronte a una cosa del genere, di fronte anche a tuo figlio in fin di vita, il tuo istinto è quello di metterti lì a registrare. Questo racconta anche il suo rapporto con la vita, questa distanza riflessiva che è un suo tratto particolare. Sicuramente un meccanismo di difesa, però interessante. Sono partita da quello e dai suoi racconti sulle bombe di Berlino. Mi hanno raccontato che lei andava in giro con questo registratore e poi ho immaginato che suono lei potesse cercare. Lei era ossessionata dal suono delle bombe di Berlino e ho immaginato che in qualche modo lei stesse cercando in qualche modo quello.
Hai fatto il suo nome prima e mi è rimasto in mente. Nel tuo film non c’è nessun riferimento, nemmeno nei flashback, al regista della vita di Nico, Philippe Garrel. Nel suo La cicatrice intérieure, Nico appare già trasformata, post Velvet Underground, e gli regala alcune delle canzoni dell’album Desertshore.
Ho cercato di parlare il meno possibile degli uomini di Nico. Per troppo tempo si è parlato di Nico in funzione degli uomini che ha avuto. Io ne nomino uno solo, non nomino nemmeno Alain Delon, ne nomino uno solo e si vede Warhol o viene nominato Lou Reed ma dagli altri, lei nomina soltanto Jim Morrison. E credo che lui sia stato l’uomo più importante della sua vita, per tanti motivi. La storia con lui è stata molto breve, però è stato lui a portarla a prendere delle decisioni nella sua vita e a decidere di fare la sua musica. Poi sarà stato importantissimo anche il rapporto con Garrel, e ha fatto le musiche dei suoi film, ma non mi andava di parlare degli uomini che ha avuto.
Mi piace molto come usi la musica nei tuoi film. Scegli delle cover che valorizzano brani sentiti mille volte e che sembra di ascoltare per la prima volta. Alcuni testi che accompagnano le tue scene acquistano un significato diverso, più profondo. Penso a “Cuore” di Rita Pavone rifatta da Roberta & Gatto Ciliegia in Cosmonauta ma anche a Trine che canta la sua versione di “Nature Boy” in Nico, 1998.
Con la musica lavoro in maniera molto istintiva. Sono canzoni che magari ascolto mentre scrivo, che mi piacciono. Anche nella scelta dei pezzi di Nico da mettere nel film ho seguito l’istinto, e la traccia delle sue canzoni per scrivere le scene. Il rapporto con la musica è un rapporto istintivo che dopo, quando sei in montaggio, diventa più riflessivo, però fondamentalmente a me la musica nei film piace, e mi piace quando ti sorprende, quando non ripete, quando non sottolinea ma lavora sul contrasto. Poi la musica ha il potere di richiamare tante cose, di richiamare un immaginario, ma ha anche il potere di far pensare il pubblico. Se tu fai una cover, se tu rifai le musiche, come ho fatto sempre io, non ti schiacci necessariamente su un meccanismo nostalgico, ma anzi provochi una riflessione. Tu parlavi delle canzoni anni ’60 di Cosmonauta. Avessi messo le canzoni originali sarebbe stato tutto un collage di nostalgia. Quella versione di Cuore ti fa riascoltare il testo. Ti fa capire che è una canzone su un’adolescente che soffre. Rita Pavone la cantava in un altro modo, con una certa aggressività. Anche quando Tori Amos rifà Enjoy the silence, la riascolti. La cosa bella della cover è questa. È la cosa bella del cinema in cui credo io, che è un cinema che ti fa riflettere, che ti fa rielaborare le esperienze, non che semplicemente, in maniera immediata, te le fa rivivere. Io lavoro sempre sul passato, ma sul passato sempre a un grado secondo, di riflessione. Voglio che le persone lo vedano e riflettano sull’immaginario che quel passato rappresenta.